Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Economia / Opinioni

Nessun salvataggio per i “campioni” dei paradisi fiscali

Non è possibile giustificare piani di austerità che hanno messo in ginocchio i servizi pubblici salvando i gruppi multinazionali che eludono il fisco. L’Unione europea deve prendere l’iniziativa, guardando anche alle giurisdizioni “compiacenti” che ha al suo interno: dai Paesi Bassi al Lussemburgo. L’intervento di Eva Joly, membro della Commissione indipendente per la riforma internazionale della tassazione delle imprese

Facciamo un bell’applauso per cominciare. Complimenti alla Danimarca, che ha fatto da apripista, ma anche alla Polonia, alla Francia, all’Italia e al Belgio e alla Scozia, che hanno annunciato che le società con sede o filiali nei paradisi fiscali -senza svolgervi alcuna attività reale- non avranno diritto ad alcun aiuto pubblico per affrontare la crisi del Coronavirus. I governi fanno così sapere all’opinione pubblica di aver preso atto della frustrazione del pubblico. Non è più possibile giustificare piani di austerità che hanno messo in ginocchio i servizi pubblici, a cominciare dagli ospedali, salvando grandi gruppi che stanno rendendo sempre più superflue le persone e pagando i dividendi ai loro azionisti. Né è politicamente accettabile fare regali a multinazionali la cui creatività in termini di elusione e ottimizzazione fiscale è illimitata.

Far pagare finalmente ai grandi gruppi quello che devono: queste promesse sono naturalmente il risultato dell’entità dell’emorragia delle finanze pubbliche in un momento in cui il Prodotto interno lordo sta crollando. Ovunque, lo Stato è chiamato in soccorso per evitare un’esplosione di disoccupazione e fallimenti a cascata. Ma questa consapevolezza è anche il risultato del lavoro, in tutto il mondo, di ricercatori, giornalisti, Ong, think tank e persino di alcuni partiti, per far capire alle nostre società che, no, l’ottimizzazione fiscale non è un talento per il quale le aziende sono da lodare, ma un furto. E il fatto che sia consentito, grazie a un sistema fiscale internazionale obsoleto e ingiusto, non lo rende più giustificabile.

Questi stessi attori stanno ora vigilando per evitare che i lodevoli annunci sui limiti degli aiuti pubblici soccombano all’ipocrisia. Sì, dobbiamo aiutare le imprese, preservare i posti di lavoro e rilanciare l’economia una volta che il peggio della pandemia sarà passato. Ma non in modo incondizionato. Per avere accesso a questi fondi, le imprese devono impegnarsi a non utilizzarli per ristrutturare i loro debiti -le banche farebbero così assumere agli Stati i rischi del passato, ricordate il 2008-, non per licenziare i lavoratori, ma anche per trasformare la loro attività in linea con una green economy.

Eva Joly è membro della Commissione indipendente per la riforma internazionale della tassazione delle imprese (ICRICT)

È finalmente il momento di affrontare l’elusione fiscale. Non possiamo accettare che un’azienda che chiede aiuti di Stato continui a registrare profitti elevati in Paesi con tasse molto basse, dove ha una semplice cassetta delle lettere, o al massimo una manciata di dipendenti, e perdite dove concentra la maggior parte delle sue attività, ma dove le tasse sono elevate. Ad esempio, ogni anno il 40% degli utili internazionali delle multinazionali viene dichiarato nei paradisi fiscali. Sono tutti fondi che potrebbero finanziare la salute, l’istruzione, ma anche gli investimenti pubblici indispensabili per la ripresa di domani.

È quindi imperativo definire l’espressione “paradiso fiscale”. Quest’ultima non si riferisce solo a destinazioni percepite come esotiche, come le Isole Cayman, ma anche a tutte quelle giurisdizioni con “tassazione molto vantaggiosa”, come la Svizzera, Singapore o Hong Kong. Il Vecchio continente non è da meno: scegliendo di aprire le proprie filiali nei Paesi Bassi, in Lussemburgo, in Svizzera e in Gran Bretagna, le multinazionali americane da sole fanno perdere all’Unione europea quasi 25 miliardi di euro all’anno di imposte sulle società, rivela l’ONG Tax Justice Network. Le principali vittime di questa appropriazione indebita sono i quattro Paesi dell’Unione europea dove i casi di Covid-19 sono stati i più numerosi: 6,4 miliardi di euro di mancato guadagno per la Francia, 3,7 miliardi per la Germania, un po’ meno per l’Italia e 1,8 miliardi per la Spagna.

È noto che le riforme fiscali richiedono l’unanimità all’interno dell’Ue e sono quindi sistematicamente bloccate. In realtà, la tassazione delle imprese comporta anche una distorsione della concorrenza, come dimostra la storica decisione della Commissione europea del 2016 di ordinare ad Apple di rimborsare 13 miliardi di euro all’Irlanda, con la motivazione che il gigante americano aveva beneficiato di sovvenzioni camuffate. E sono fiduciosa che con il rinnovo della Commissione e la continua pressione del Parlamento europeo riusciremo a realizzare riforme essenziali come un’aliquota minima (sufficiente e ambiziosa, almeno il 25%) dell’imposta sulle società a livello europeo. In questo modo si porrebbe fine non solo all’elusione fiscale, ma anche alla concorrenza sleale all’interno dell’Unione.

Nel breve periodo, non c’è nulla che impedisca ai grandi perdenti dell’elusione fiscale come Francia, Germania, Spagna o Italia di prendere l’iniziativa di disciplinare le proprie multinazionali. Se queste vogliono “candidarsi” per il salvataggio pubblico, devono fornire alle loro amministrazioni fiscali un quadro consolidato delle loro attività Paese per Paese (Country-by-country reporting, in gergo fiscale). Su questa base, gli Stati potranno riscuotere le tasse che i paradisi fiscali scelgono di non prelevare, svolgendo di fatto il ruolo di esattore di ultima istanza. Questa proposta, avanzata da Gabriel Zucman, membro come me dell’ICRICT, una commissione che sostiene la riforma della tassazione delle multinazionali, elimina ogni incentivo per i centri finanziari offshore a proporre una tassazione ridotta.

Rifiutando di aiutare le aziende che continuano a voler beneficiare di infrastrutture e di una forza lavoro sana e istruita, senza contribuire al loro finanziamento, i governi lancerebbero una vera e propria rivoluzione. Questa è anche la condizione per la sopravvivenza dell’Unione europea. Di fronte alle crisi sanitarie e climatiche, la solidarietà è la nostra unica via d’uscita.

Eva Joly è membro della Commissione indipendente per la riforma internazionale della tassazione delle imprese (ICRICT) ed ex membro del Parlamento europeo, dove è stata vicepresidente della Commissione d’inchiesta sul riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale e la frode.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati