Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Inchiesta

Se i naufraghi nel Mediterraneo diventano “persone intercettate in operazioni di polizia”. Le ricadute sui soccorsi

Dal 2019, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, la stragrande maggioranza degli eventi di ricerca e soccorso sono stati classificati dalla Guardia costiera come “operazioni di polizia”. Un fenomeno inedito che potrebbe avere effetti sull’applicazione delle norme sul soccorso in mare da parte del nostro Paese e conseguenze penali per i salvati. Oltre che rafforzare il ruolo delle milizie libiche

Dal 2019, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, la stragrande maggioranza dei naufraghi alla deriva sono stati classificati come “persone intercettate nel corso di operazioni di polizia di sicurezza”. Si tratta di un fatto inedito per dimensioni che deriva da una diversa qualificazione degli “eventi” in mare da parte della Guardia costiera italiana. Non è un semplice dettaglio di forma ma un cambiamento profondo delle prassi che potrebbe avere effetti rilevanti sull’applicazione delle norme sul soccorso in mare da parte del nostro Paese, oltre che determinare un’accelerazione ulteriore ai respingimenti per delega praticati dalle milizie costiere libiche. Una “chiusura del cerchio” che fa seguito alla dichiarazione di un’area SAR della Libia (giugno 2018), al riconoscimento di un centro di coordinamento delle operazioni a Tripoli, alla fornitura di mezzi, formazione e servizi alle milizie libiche, alla criminalizzazione dell’attività delle Organizzazioni non governative e alla destrutturazione di un dispositivo europeo di soccorso.

Per comprendere rischi e portata di questo fatto nuovo è necessario fare un passo indietro. Fino al dicembre 2018, la nostra Guardia costiera ha pubblicato un bollettino mensile aggiornato delle attività SAR (acronimo di Search and Rescue, ricerca e soccorso) condotte nel Mediterraneo centrale e coordinate dal Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (M.R.C.C., Maritime Rescue Coordination Centre). Quei prospetti contenevano tre dati: il numero delle operazioni di “Ricerca e Soccorso”, il numero delle persone “soccorse” sotto il coordinamento italiano e la tipologia degli assetti intervenuti -fossero navi della Guardia costiera, della Marina militare, della Guardia di Finanza, della missione EUNAVFOR MED – Operazione Sophia, delle ONG o altri ancora-. Il cappello era uno solo: “attività SAR”, ai sensi, tra gli altri, degli obblighi previsti dalla Convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso marittimo.

Dall’inizio di quest’anno, però, è cambiato qualcosa. Le “Attività Search and Rescue nel Mediterraneo centrale” oggetto dei precedenti bollettini (oggi trimestrali) sono diventate “Eventi riconducibili al fenomeno dell’immigrazione non regolare via mare verso le coste italiane”. La qualifica delle “persone” è cambiata d’un tratto: alle persone “soccorse” sono state affiancate quelle “intercettate nel corso di operazioni di polizia di sicurezza”, tecnicamente definite operazioni di “Law Enforcement”.



Risultato: nei primi sei mesi del 2019, quelli per i quali si hanno dati ufficiali, le persone “soccorse” sarebbero state appena 528 contro le 1.260 (più del doppio) “intercettate” in operazioni di polizia, senza considerare i 991 “rintracci a terra” (cosiddetti “sbarchi fantasma”).

Qual è la differenza tra il soccorso e l’intercettamento di polizia? Una risposta l’ha fornita nel 2015 il contrammiraglio CP Nicola Carlone, capo del reparto Piani e operazioni presso la Guardia costiera di fronte al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen. “Se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero è ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso SAR), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a terra delle persone soccorse”.

Ma se su quella nave sovraccarica viene apposta un’etichetta diversa, allora cambia tutto. Non scatta l’obbligo e le sole attività messe in pratica puntano a impedire l’ingresso della nave nelle acque territoriali. “Se invece detta imbarcazione non è ritenuta versare in situazione di pericolo -spiegò ancora Carlone ai parlamentari- l’attività di polizia delle autorità dello Stato costiero normalmente si limita al monitoraggio della situazione, allo scopo di verificare se la destinazione appaia essere quella di detto Stato costiero. Solo in tal caso scatta l’intervento di polizia: inizialmente a scopo preventivo, mirata quindi a cercare di prevenire l’ingresso o il transito (considerato potenzialmente ‘offensivo’) dell’imbarcazione nelle proprie acque territoriali, sempre nei limiti di quanto legittimamente possibile ai sensi delle norme internazionali”.

Il contrammiraglio Carlone aggiunse un altro elemento decisivo relativo alle conseguenze per gli “intercettati”. “L’accompagnamento a terra e l’ingresso nel territorio dello Stato costiero di dette persone -spiegò Carlone nel 2015 riferendosi alle persone ‘intercettate’- si avrebbe solo nel caso in cui l’azione preventiva e deterrente non abbia effetto o sia ravvisata una violazione delle norme dello Stato costiero che comporti la necessità dell’adozione di provvedimenti autoritativi di esercizio della giurisdizione. In particolare […] l’abbordaggio ed il sequestro dell’imbarcazione, con la conseguente denuncia alla competente autorità giudiziaria delle persone fermate, per i reati di immigrazione clandestina e/o di favoreggiamento della stessa”. Dunque, luogo sicuro di sbarco contemplato come ultima opzione e “conseguente denuncia” dei fermati.

Mai in passato le autorità italiane avevano fatto ricorso in maniera così massiccia all'”approccio di polizia”. Anzi: fino a pochi mesi fa il quadro era esattamente l’opposto. Come dimostra l’ultimo rapporto annuale relativo alle attività SAR del 2017 della Guardia costiera, infatti, la quota di “eventi” classificati come “law enforcement” (LE) -nemmeno indicata nei prospetti mensili- era risultata minima rispetto ai casi SAR: 1.549 migranti recuperati durante operazioni di polizia contro i 112.737 in attività di ricerca e soccorso. Cinquanta “eventi” contro i 1.116 (questi ultimi impegnarono in particolare Guardia costiera e Organizzazioni non governative).

Centro Nazionale di Coordinamento del soccorso in mare – Attività SAR nel Mediterraneo centrale

Erano quasi tutti casi SAR. Perché? “È inevitabile notare come la quasi totalità dei migranti siano stati soccorsi durante operazioni SAR coordinate dall’MRCC Roma”, notava la Guardia costiera nel rapporto 2017. Del resto, “Ogni imbarcazione sovraffollata è un caso SAR di per sé e una possibile situazione di pericolo anche in assenza di un segnale di pericolo in base al principio di precauzione” (sempre Guardia costiera).

Dunque secondo il nostro Paese era normale, o meglio “inevitabile”, che rispetto a tutte le navi dei migranti -insicure e sovraccariche- scattasse l’obbligo del soccorso. Il fatto che il segnale di pericolo arrivasse da acque SAR non italiane non implicava alcuna conseguenza: “La prima autorità SAR che viene a conoscenza di un’emergenza reale o potenziale -ha riconosciuto la Guardia costiera nelle proprie linee guida SAR- diventa responsabile del caso e deve adottare tutte le misure necessarie per coordinare la risposta, fino a quando il Centro di coordinamento competente non si è assunto la responsabilità”.

Chi in passato “gestiva” casi di imbarcazioni sovraccariche e senza alcuna dotazione di sicurezza come eventi di “polizia” non era l’Italia. Era Malta e il nostro Paese non poteva tollerarlo.
Lo certifica il rapporto annuale 2017 della nostra Guardia costiera. Rispetto ai flussi dalla Tunisia, la GC stigmatizzava infatti l’atteggiamento delle autorità e del MRCC de La Valletta. “In presenza di unità partite dalla costa tunisina ed in navigazione all’interno della Search and rescue region maltese, (Malta, ndr) ha gestito i casi come attività di Law Enforcement e non quali situazioni di potenziale pericolo, trattandosi, il più delle volte, di piccole imbarcazioni sovraccariche e senza alcuna dotazione di sicurezza”, mise nero su bianco il Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto.

A detta del contrammiraglio Carlone, le autorità di Malta erano solite a questa “sottovalutazione” del pericolo finalizzata a sollevare il proprio Paese dagli obblighi di soccorso. “Anche quando la rotta di dette imbarcazioni attraversi le aree di responsabilità SAR, o anche di giurisdizione, di altri Paesi, questi ultimi (le autorità di Malta, ndr) tendono a sottovalutare le condizioni di potenziale pericolo in cui esse normalmente versano limitandosi a monitorare la situazione fino a quando esse escano dalla loro area di specifica responsabilità SAR”. Lo “scopo” era “evidente” già allora: “Considerare la situazione una mera situazione di polizia e non ritenersi quindi obbligati ad un intervento di soccorso, che risulta invece inevitabile per le autorità dello Stato costiero oltre le cui acque l’imbarcazione non può più procedere: l’Italia!”.

Dal primo semestre 2019, la strategia di Malta sembrerebbe essere stata adottata anche dall’Italia. Il condizionale è d’obbligo anche perché dati e resoconti aggiornati sulle attività condotte nell’arco di tutto il 2018 non sono disponibili. Il Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto ha fatto sapere ad Altreconomia che “il documento ‘Rapporto sulle attività SAR nel Mediterraneo Centrale anno 2018’ non è stato pubblicato in quanto non elaborato per l’anno di interesse”. Delle attività dell’anno del “caso Diciotti”, solo per citarne uno tra tanti, non possibile avere bilancio ufficiale, così come della eventuale classificazione delle operazioni, se SAR o Law Enforcement.

La risposta del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ad Altreconomia datata 1 ottobre 2019

“La qualificazione di eventi di ricerca e soccorso come eventi di Law Enforcement per evitare di applicare gli obblighi relativi pone vari problemi -riflette Francesca De Vittor, ricercatrice in Diritto internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano-. Va chiarito che la qualifica di un evento come SAR non è una decisione arbitraria dello Stato. Innanzitutto, e considerando che si tratta di fatto sempre di imbarcazioni quantomeno sovraccariche e non dotate degli elementari equipaggiamenti di sicurezza, se la l’imbarcazione chiede soccorso dichiarando il pericolo immediatamente l’evento è un caso SAR. La Convenzione di Amburgo prevede infatti che l’MRCC che riceve il segnale cominci immediatamente il coordinamento contattando eventualmente altre autorità competenti. La Convenzione prevede che l’MRCC che ha ricevuto la segnalazione valuti in quale fase dell’emergenza ci si trova per determinare le misure da prendere, ma qualora non si constati la fase di massima emergenza data dal distress, anche la semplice fase di allerta è rilevante ai fini dell’applicazione della Convenzione. Poiché scopo fondamentale della Convenzione è garantire l’efficacia dei soccorsi, nel caso di un’imbarcazione sovraccarica che chiede soccorso dichiarando di trovarsi in una situazione di distress, una diversa qualifica, volta a temporeggiare, sarebbe arbitraria. Diverso è se l’imbarcazione naviga senza dare segni di distress e senza richiedere aiuto, questo caso è più complesso perché in assenza di richiesta sta effettivamente alle autorità valutare la situazione. In ogni caso l’obbligo di soccorso non viene meno per il semplice fatto di aver attribuito ad una situazione di percolo in mare un diverso nome. Inoltre -conclude De Vittor- anche in relazione ad operazioni qualificate come Law enforcement, l’esercizio di un controllo da parte delle autorità militari dello Stato sull’imbarcazione, è rilevante ai fini dell’affermazione della giurisdizione dello Stato sull’evento e quindi dell’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e degli obblighi di protezione che ne derivano”.

L’area SAR dichiarata dalla Libia nell’estate 2018 – Organizzazione marittima internazionale (IMO)

Un risultato di questa “strategia” -oltre a una sostanziale confusione sui dati e le sorti dei “salvati”- è già misurabile. Da gennaio a giugno 2019, le persone “soccorse”, “intercettate” o “rintracciate a terra” dall’Italia sono state 2.779. Le unità della missione Eunavformed-SOPHIA, così come quelle dell’agenzia europea Frontex, non hanno soccorso (e nemmeno “intercettato”) nessuno. Il tutto mentre nello stesso periodo 3.667 persone sono state intercettate dalle “autorità libiche” -anche tramite il pattugliamento e la segnalazione dei mezzi aerei dell’operazione SOPHIA, gli unici in attività al posto delle navi– e riportate sulle coste Nordafricane, teatro di torture, violenze, abusi, detenzioni arbitrarie -per citare l’ultima risoluzione ad hoc del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 12 settembre 2019-.

È così che il mare diventa più buio, come ha riferito anche la neo ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, intervenendo al Festival delle città a Roma lo scorso 2 ottobre. “La guardia costiera libica –ha affermato Lamorgese, in perfetta continuità con i predecessori Minniti e Salvini– opera nelle loro acque SAR ed è giusto che provvedano loro a quella parte del territorio. Noi non possiamo pensare di andare a proteggere i confini altrui, non è neanche corretto”. Peccato che le acque SAR di “competenza” libica non abbiano nulla a che fare con le acque territoriali (fino a 12 miglia dalla costa). Ma anche questo fa parte del “grande inganno” della Libia.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.