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Napoli, il grande inganno occultato dagli scontri – Ae 16

Numero 16, aprile 2001A Napoli, durante i lavori del “Terzo Global Forum” dedicato al “governo elettronico” del pianeta, i disordini e il fumo dei lacrimogeni hanno nascosto all'opinione pubblica il vero “terreno di scontro” tra due diversi modelli di sviluppo….

Tratto da Altreconomia 16 — Marzo 2001

Numero 16, aprile 2001

A Napoli, durante i lavori del “Terzo Global Forum” dedicato al “governo elettronico” del pianeta, i disordini e il fumo dei lacrimogeni hanno nascosto all'opinione pubblica il vero “terreno di scontro” tra due diversi modelli di sviluppo. Il 16 marzo, nonostante il sole, sin dal mio arrivo alla stazione di Napoli il cielo era oscurato dal pesante clima di “emergenza” e dalla militarizzazione capillare della città, un “assetto di guerra” che lasciava già presagire le violenze e gli scontri del giorno successivo.

“Guardi che in centro non si può entrare”, mi dicono mentre mi dirigo verso il Palazzo Reale. Mi vergogno un po' a dire di essere uno degli “eletti” invitati a parlare durante i lavori del forum. Il ruolo che cerco di rivestire è quello dell'”infiltrato”, per portare all'interno del Global Forum la voce di chi è stato escluso dal grande banchetto telematico organizzato dai governi e dalle multinazionali.

“L'educazione nella società dell'informazione”è il titolo del workshop al quale sono invitato come rappresentante dell'associazione PeaceLink, nata nel 1991 durante la guerra del Golfo, all'interno di un computer portatile di un insegnante trasformato in “redazione mobile” e portato in giro per le classi come strumento di educazione e informazione.

Raggiungere la sede ufficiale del forum è un'impresa tutt'altro che semplice: Napoli è una città blindata, e l'ingresso al Palazzo Reale è molto difficile anche per chi, come me, ha un invito ufficiale. Dietro le divise dei poliziotti e dei carabinieri incontro alcuni sguardi pieni del rammarico di chi è chiamato a svolgere suo malgrado un compito sgradevole, ma è ugualmente pronto a svolgerlo con tutta la determinazione possibile, una determinazione che qualche ora più tardi si trasformerà in una furia selvaggia e incontenibile, documentata dai giornalisti coinvolti nei pestaggi mentre cercavano di fare il loro lavoro.

Più tardi, nel corso della conferenza stampa organizzata dai promotori del controvertice, avrei rivisto sguardi simili negli occhi di altri ragazzi, sinceramente convinti che i veri “nemici” da combattere fossero le forze dell'ordine e non i “burattinai” che da una parte e dall'altra delle barricate utilizzano strumentalmente poliziotti e manifestanti come pedine per nascondere complessi equilibri di potere dietro il paravento degli scontri e dei disordini di piazza.

Dopo lunghe peripezie per raggiungere la sede del workshop, riesco finalmente a prendere posto accanto a Stefano Rodotà e agli altri relatori, che presentano i loro progetti di istruzione e formazione basati sull'impiego delle tecnologie telematiche. L'ultimo intervento tocca a me, e sento un brivido percorrere la schiena dei presenti quando annuncio di essere venuto per esprimere le perplessità e le critiche dei cosiddetti movimenti “anti-globalizzazione”, presentando un “Manifesto per la libertà della comunicazione”, realizzato assieme ad altre associazioni e e diffuso attraverso la rete (www.peacelink.it/dossier/globalforum).

Tra i molti spunti di riflessione contenuti nel “Manifesto” spicca la critica ad un modello di sviluppo in cui si dà per scontato che l'obiettivo primario dell'educazione sia fornire ad ogni singola persona un computer ed un accesso a Internet, senza che nessuno abbia avviato una seria riflessione sulla sostenibilità e sulla concreta realizzabilità dello slogan “Internet per tutti”.

Se l'istruzione telematica è un obiettivo per tutti, non si capisce come mai si debba perseguire questo obiettivo prima di fornire a tutti gli abitanti del pianeta gli strumenti linguistici e culturali di base, soprattutto a quel miliardo di analfabeti che (guarda caso) coincide con la fascia della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di povertà.

Dietro questo effetto di apparente “equalizzazione” sociale si nascondono gli interessi economici delle grandi compagnie di informatica e telecomunicazioni. Più computer, più cavi, più telefoni, più satelliti, più software: dietro l'orizzonte è in agguato una nuova “colonizzazione tecnologica”, per portare Internet lì dove non c'è ancora l'acqua.

I colossi delle tecnologie dell'informazione hanno deciso che anche il Sud del mondo ha bisogno di informatizzarsi e di mettersi velocemente “on line”. A qualunque costo. Partendo dal Sudafrica, aziende come Microsoft e Ibm hanno iniziato la loro “invasione digitale” per penetrare anche nel resto del continente.

Già nel 1997 Bill Gates, dopo aver affermato che “c'è un mercato potenzialmente enorme in Africa”, è atterrato a Johannesburg per l'inaugurazione del primo “villaggio digitale” di Soweto, il primo passo di un investimento da dieci milioni di dollari.

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Il “controvertice” visto dai media

L'analisi critica della “società dell'informazione” e dei diversi modelli di sviluppo che si sono scontrati a Napoli richiede uno sforzo non indifferente. Probabilmente è stato proprio questo il motivo che ha spinto la maggior parte dei mezzi di informazione ad evitare la fatica dell'approfondimento, appiattendo il livello della discussione e riducendo la realtà ad un semplice scontro tra “indiani” e “cow-boys”. Indubbiamente è molto più semplice fare la cronaca degli scontri che analizzare in dettaglio le posizioni di “globalizzatori” e “globalizzati”.
Chi ha partecipato direttamente ad azioni dirette nonviolente, ad esempio durante le varie manifestazioni contro i bombardamenti Nato del 1999, sa benissimo che in ogni corteo basta anche un minimo atto di violenza per azzerare qualsiasi messaggio positivo e propositivo, che inevitabilmente passa in secondo piano. Le risse “fanno notizia” e stimolano la curiosità dei lettori molto più di qualsiasi analisi sociale e politica. Dal punto di vista mediatico ed informativo, bisogna ammettere onestamente che le contromanifestazioni di Napoli sono state un grave autogol.
Nel frattempo c'è chi approfitta della distrazione dei mass-media, troppo impegnati a fare il conto dei feriti nelle piazze, per tracciare il futuro dell'informazione in Italia senza fare troppo rumore. Il riferimento è ad un documento di 10 pagine firmato Mediaset, distribuito durante uno dei workshop del Global Forum, in cui si legge testualmente che la legge relativa ai servizi di trasmissioni digitali terrestri, approvata dal Senato il 7 marzo scorso, permette di “ritenere superato l'attuale regime antitrust sull'analogico”, e che, quando il segnale televisivo non sarà più analogico, ma trasmesso sotto forma di “bit”, ci sarà “la possibilità di superare, nella frontiera digitale, i divieti di proprietà incrociate tra stampa, televisione e telecomunicazioni”.

Quanto basta per un buon articolo. Ma allora perché nessuno ne parla?

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