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Diritti / Reportage

Muro tra Marocco e Spagna, reportage tra gli attivisti alle porte dell’Europa

Un tratto della barriera che separa il territorio marocchino dall'enclave spagnola di Melilla © Bianca Senatore

Venerdì 24 giugno sono morte almeno 37 persone nel tentativo di attraversare la barriera. Operatori e volontari dell’Association marocaine des droits humains mettono in luce le responsabilità della polizia marocchina. Mentre l’Ue incolpa le “mafie” pur di non rendersi conto della pericolosità della frontiera

Nei giorni della tragedia di Melilla, quando il 24 giugno almeno 37 persone sono morte nel tentativo di scavalcare il muro tra Marocco e Spagna, eravamo a Nador, una piccola città portuale sulla costa Nord-Est del Paese Nord-africano, a pochi chilometri dall’enclave spagnola. Proprio lì comincia la recinzione di metallo che separa il Nord Africa dall’Europa. Ed è proprio davanti alla Corte d’appello di questa piccola cittadina che lunedì 27 giugno alla mattina sono comparsi una trentina di profughi provenienti da diversi Paesi, tutti arrestati durante il tragico tentativo di scalare la triplice barriera metallica che separa il territorio marocchino dalla città spagnola. Le incriminazioni nei loro confronti sono state mosse dal governo marocchino e le accuse sono molteplici: violenza contro pubblico ufficiale, partecipazione a banda armata, resistenza all’arresto, danneggiamento di bene pubblico. L’udienza è prevista per il 13 luglio e secondo le autorità marocchine non è escluso che il numero degli arrestati possa aumentare ulteriormente.

A difendere i migranti ci sono i legali dell’Association marocaine des droits humains di Nador, Ong fondata nel 1979 e che conta una novantina di sezioni sparse su tutto il territorio marocchino: quella di Nador, proprio per la sua posizione strategica a pochi passi dal muro di Melilla, è dal 2015 una delle più attive. Il gruppo è specializzato nell’assistenza legale dei migranti, gli attivisti monitorano il trattamento e le violazioni delle autorità marocchine nei confronti di uomini, donne e bambini. Periodicamente la sezione di Nador pubblica dossier che evidenziano la gravità della situazione. Attraverso i propri canali social mostra le violenze, racconta le storie dei migranti intrappolati alle porte d’Europa, punta i riflettori su situazioni drammatiche quasi sempre nascoste dal governo di Rabat.

Anche venerdì 24 giugno sono stati presenti -per quanto possibile, a causa delle limitazioni imposte dalla polizia- per mostrare quanto stava succedendo a ridosso del muro. All’alba, circa duemila persone hanno cercato di scavalcare la recinzione ma sono state fermate dalla polizia marocchina che non ha esitato ad aprire il fuoco. I morti sarebbero almeno 37 mentre altre 176 persone sono rimaste ferite, molte di loro in modo grave. Ma non si tratta di numeri definitivi.

La polizia marocchina, fin dalle prime ore di venerdì mattina, è stata estremamente reticente nel fornire informazioni su quanto stava accadendo al confine con l’enclave di Melilla e anche in queste ore le autorità stanno creando un muro attorno alla vicenda. Il giorno precedente abbiamo incontrato Omar Naji, vicepresidente dell’Association marocaine des droits humains con cui abbiamo parlato della situazione a Nador. Ma che cosa è successo davvero quel giorno? Al di là della cronaca, raccontata, per quanto possibile, dai giornalisti europei, c’è una chiave di lettura allarmante.

Nei giorni in cui siamo stati nella cittadina marocchina abbiamo incontrato molti migranti provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana. Non vivono nel centro della cittadina ma nella boscaglia che cresce sulle colline attorno a Nador, che chiamano “la foresta”. Niente a che vedere con le jungle fitte e insidiose dell’Europa dell’Est: questi sono gruppetti di alberi e siepi che hanno il compito essenziale di riparare dal sole e di nascondere i migranti dalla polizia marocchina. È un luogo scomodo, pericoloso, in pendenza, ma è pur sempre un riparo. “Il numero dei migranti arrivati qui sulla costa è aumentato nell’ultimo periodo -spiega Omar-. La rotta del deserto, che attraversa prima l’Algeria e poi il Marocco, è diventata molto più battuta rispetto al passato e le autorità non sono attrezzate per gestire la situazione”. Di fatto negli ultimi due anni e mezzo la pandemia da Covid-19 e i problemi economici hanno costretto il re e il governo di Rabat a mettere in secondo piano la questione migratoria.

Eppure ora si sta innescando una pressione non indifferente. Il presidente del governo di Spagna Pedro Sanchez ha dichiarato che sarebbero state le “mafie” a spingere le persone a dare l’assalto ai reticolati. “Certamente i trafficanti di uomini lavorano alacremente qui in Marocco, specialmente tra Oujda e la costa -spiega ancora Omar Naji- ma la situazione va ben oltre. Non hanno bisogno di un condottiero che li guidi all’assalto”. Quel che è accaduto venerdì non capitava da almeno un anno, l’ultimo episodio simile risale al maggio 2021, quando circa ottomila persone avevano tentato di superare il muro, ma l’esito non era stato così tragico. Mentre secondo le autorità marocchine i tentativi di passaggio bloccati dall’inizio del 2022 sarebbero stati più di diecimila.

Dalla collina di Nador dove ci sono i migranti nascosti si vede la barriera e si vede anche il territorio spagnolo di Melilla. Si scorge perfino il mare, che tanti dei ragazzi africani vorrebbero raggiungere. “La maggior parte di loro arriva dalla Nigeria, dal Sud Sudan, dal Niger, dal Mali -spiega una delle volontarie di Amdh-. Pochi quelli che arrivano dal Senegal, perché molti scelgono di provare la traversata transoceanica, piuttosto che attraversare il deserto”. Ne abbiamo parlato in auto, proprio mentre percorrevamo la strada che costeggia la barriera alta nove metri e sormontata da filo spinato, con guardie armate a pochi passi. Persino fotografare o filmare il reticolato è complesso: normalmente ai giornalisti non è permesso avvicinarsi e quando la tensione aumenta, come succede in questi giorni, è ancora più complicato. Da venerdì mattina nessuno ha potuto avvicinarsi alla zona di recinzione -sia dal lato marocchino sia dal lato spagnolo- e molti giornalisti hanno denunciato di essere stati fermati per qualche ora dalla polizia. Anche a noi non è stato concesso avvicinarci.

Gli attivisti Amdh si sono messi al lavoro per recuperare immagini e per denunciare ciò che stava avvenendo. “Ci aspettavamo che potesse esserci un tentativo di passaggio -ha spiegato Ahmed, da anni impegnato con l’associazione-. Ma non immaginavamo che potesse essere una simile strage. La polizia marocchina ha sbagliato tutto. L’intera situazione è stata gestita malissimo”. Da venerdì, nessuna delle vittime è stata ancora identificata e nel giro di un giorno e mezzo sono state scavate buche per seppellire i corpi. Il rischio è che anche questa strage venga dimenticata e che i responsabili restino impuniti.

Per evitare che questo accada 45 associazione internazionali (tra cui l’Ong spagnola Caminando Fronteras, Euromed droits Europe, Alarm Phone, Mediterranea saving humans e l’italiana Mani rosse antirazziste) hanno sottoscritto una dichiarazione comune per condannare l’accaduto e per chiedere che si apra un’indagine seria sulla vicenda. La portavoce della Commissione europea Nabila Massrali ha detto di essere in contatto con le autorità marocchine per capire la dinamica dei fatti. “L’astenersi dall’eccessivo uso della forza e il rispetto dei diritti umani restano prioritari”, ha detto Massrali.

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