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Monopolio Tetra Pak

Il caso del latte con Itx, ricordate? Controversa la responsabilità: di Nestlé oppure di Tetra Pak? Sotto indagine anche altri alimenti che potrebbero essere contaminati. Per capire, siamo andati a vedere come si producono le “scatole” per alimenti più famose…

Il caso del latte con Itx, ricordate? Controversa la responsabilità: di Nestlé oppure di Tetra Pak?
Sotto indagine anche altri alimenti che potrebbero essere contaminati. Per capire, siamo andati a vedere come si producono le “scatole” per alimenti più famose al mondo.

Storia di un brevetto che ha trasformato una famiglia svedese in una delle più ricche dinastie d’Europa. E che, forse, non è così sostenibile…

La lunga striscia di carta scorre veloce nei macchinari, da un rullo all’altro. Stampa, pieghe, alluminio, plastica. Poi si arrotola a formare un enorme cilindro. È così che è successo: l’esterno che entra in contatto con l’interno.

Rubiera, provincia di Reggio Emilia, stabilimento produttivo della Tetra Pak. Non serve dire cosa si produce qui: sappiamo tutti come si chiamano i cartoni del latte, dei succhi di frutta, della panna da cucina, del vino. Circa l’80% delle bevande in commercio in Italia, ad esclusione di quelle gassate, finisce in un contenitore come quelli che verranno assemblati a partire da queste enormi bobine. Un monopolio nel monopolio: la multinazionale svedese controlla questo mercato con una quota che supera il 75% dei cartoni in commercio. È così in tutto il mondo, da 50 anni.

Ma anche i colossi vacillano, e qui basta dire il nome Itx. Lo ricorderete: l’Itx (Isopropyl Thioxanthone) è una sostanza chimica, un fotoiniziatore che serve a fissare l’inchiostro sulla carta. Lo scorso anno ne venne trovata traccia nel latte per neonati della Nestlé e della Milupa: il latte venne ritirato dal mercato (ben due mesi dopo la scoperta, però) e sequestrato, il ministero accusato di silenzi e ritardi, il Tetra Pak e cartoni simili di non essere un contenitore sicuro.

Ora la procura di Milano (dove ha sede Nestlé) indaga per frode alimentare e commercio di sostanza nociva. Il registro degli indagati è ancora segreto. Un milione e seicentomila confezioni di latte sono sotto sequestro in un capannone (messo a disposizione dalla stessa Nestlé) a Peschiera Borromeo, a pochi chilometri dal capoluogo lombardo.

A scatenare il putiferio era stato Ernesto Corradetti, chimico 58enne dell’Arpa di Ascoli. Nel luglio del 2005, su incarico dell’Asl 13 delle Marche, analizza un campione di latte per l’infanzia alla ricerca di Ipa, inquinanti derivati dagli idrocarburi che finiscono un po’ dappertutto. Non ne trova, ma quasi per caso e senza troppa difficoltà si imbatte in una sostanza, che gli strumenti riconoscono essere Itx. Parte la segnalazione alla Regione, da cui l’Arpa dipende, e alla Nestlé, produttrice del latte. Scatta anche l’allerta comunitaria (“Rapid alert system for food and feed”, Rasff).

“La legge 283 del 1962 parla chiaro: tossica o meno, quella sostanza nel latte non doveva esserci” spiega Corradetti. L’Itx è consentito negli imballaggi (decreto 123 del 2003), ma non può entrare in contatto con gli alimenti.

“Si è trattato probabilmente di un problema nel processo produttivo” ci dice la dottoressa Maria Rosaria Milana, primo ricercatore all’Istituto superiore di sanità, organo “tecnico” del ministero della Salute. È la prima volta, nonostante il tempo passato, che un ricercatore dell’Istituto parla a un giornalista del caso Itx.

“L’esterno della confezione è entrato a contatto con l’interno durante il processo, c’e’ stato un trasferimento per ‘controstampa’, e l’Itx è finito nel latte”.

Ma chi decide se una sostanza può essere utilizzata nelle confezioni di alimenti?

“Per tutti i contenitori per alimenti esiste il regolamento quadro comunitario numero 1935 del 2004 -spiega Milana- che, all’articolo 3, stabilisce che materiali e articoli non devono trasferire i propri costituenti agli alimenti, in modo da non mettere in pericolo la salute degli uomini, apportare un cambiamento ‘inaccettabile’ nella composizione degli alimenti o anche solo provocare un  ‘deterioramento’ delle caratteristiche organolettiche degli stessi. In realtà, il regolamento integra la normativa italiana, che è molto stringente già dal 1962”.

La legge stabilisce in molti casi una “dose massima” tollerabile di trasferimento di alcune sostanze da un materiale negli alimenti che contiene. Spesso si parla addirittura di “zero analitico”, cioè di dosi non rilevabili in laboratorio.

“Un contenitore deve contenere, e basta. Tutto ciò che viene a contatto con il cibo è normato: dal tagliere alla macchina industriale. La normativa italiana sui materiali risale al 21 marzo 1973, ed è aggiornata in continuazione: l’ultima modifica risale a dicembre 2005. Ma la responsabilità del prodotto immesso in commercio è del produttore alimentare. Questo poi può rivalersi sul produttore del contenitore, che deve garantire la conformità dei materiali che ha utilizzato per il contenitore

ed effettuare i test di migrazione”.

Il principio infatti è su base preventiva, ossia non viene autorizzato al commercio un contenitore specifico, ma i materiali di cui è fatto che entreranno in contatto con gli alimenti. Esistono liste “positive” per molti materiali e per le plastiche sono state stilate a livello europeo. Se una sostanza è dentro, può essere utilizzata. Per far entrare nella lista una nuova sostanza invece il produttore deve fare una serie di test secondo protocolli dell’Efsa (l’agenzia europea di sicurezza alimentare che ha sede a Parma), e comunicarle -e anche all’Istituto, se è in Italia- i risultati. “Oggi però non esiste ancora una lista definitiva degli inchiostri utilizzabili -precisa la dottoressa Milana- in ogni caso la parte stampata esterna non dovrebbe cedere componenti alla parte che andrà a contatto con gli alimenti”.

Cosa che invece col Tetra Pak è accaduto.

Il latte incriminato arrivava dalla Spagna, ma le confezioni erano state prodotte in Olanda. Quando fu chiaro che l’alterazione del latte era causata dal contenitore, Tetra Pak si affrettò a spiegare che a livello mondiale solo l’1% dei sui contenitori erano stati stampati con quella tecnologia, in Italia il 3%. L’utilizzo dell’Itx nei cartoni delle bevande è iniziato otto anni fa. In Italia dal 2002, nello stabilimento Tetra Pak di Latina. Ora la macchina per stampare è ferma. 

“Forse c’è stato un errore di dosaggio, una partita di inchiostro più carica di Itx” spiega Luciano Piergiovanni, docente di Tecnologie del condizionamento e della distribuzione dei prodotti agro-alimentari al Diparimento di scienze e tecnologie alimentari e microbiologiche alla Statale di Milano. “Gioca anche la pressione del riavvolgimento, i tempi, le temperature. Di sicuro il rilascio è dipeso dall’alimento contenuto nel cartone: liquidi grassi come il latte e i suoi derivati, o succhi di frutta poco acquosi”. Ma chi doveva testare le confezioni alla ricerca di Itx?

 “L’Itx si rileva facilmente se lo si va a cercare. I test competono al produttore della confezione e a quello dell’alimento che conterrà. Purtroppo c’è un ritardo ipocrita nel mettere a norma inchiostri e pigmenti: non c’è una lista positiva di quelli che possono essere utilizzati, anche se il fenomeno della ‘controstampa’ è noto da tempo. Il problema sussiste però con tutti i contenitori flessibili, che dopo la stampa vengono arrotolati prima di essere riempiti, per cui l’esterno entra in contatto con l’interno, e non solo con i cartoni per bevande. Inoltre l’Itx non è l’unico fotoiniziatore: non sappiamo se altri hanno lo stesso problema di rilascio”.

Tetra Pak ha oggi abbandonato la stampa off-set UV, che utilizzava Itx.

“Quel che non si dice è che si trattava di un sistema innovativo -prosegue Piergiovanni- perché permetteva tempi di stampa più rapidi ma anche meno inquinanti: non utilizzava solventi chimici. Per questo è anche più costoso e la sua diffusione era marginale, almeno in Italia”.

Rimane l’ultima domanda: l’Itx è tossico? A dicembre l’Efsa (
www.efsa.eu.int/press_room/press_statements/1226_en.html) ha spiegato che “non sussiste potenziale genotossico”, cioè la sostanza non inteferisce con dna delle cellule. Tuttavia “non ci sono dati su aspetti diversi dalla genotossicità: se la contaminazione dovesse continuare, serviranno altri studi”. Inoltre “gli inchiostri non sono coperti da una specifica legislazione europea”. Non esiste

un quadro clinico completo sulla tossicità dell’Itx, e non ci sono studi sugli effetti di lunga durata dell’accumulo della sostanza nell’organismo. Esiste poi un rapporto meno rassicurante dell’Environmental Protection Agency statunitense (
http://www.epa.gov/dfe/pubs/flexo/ctsa/App3-b.pdf).

Il pubblico ministero Giulio Benedetti, che guida le indagini sul caso del latte contaminato, ha chiesto all’Istituto Mario Negri di Milano di analizzare campioni di bevande e alimenti contenute nei cartoni, per capire se si trovano ancora tracce di Itx, e se questo sia tossico o meno. I risultati dovevano essere presentati a marzo, ma il professor Silvio Garattini che coordina le analisi ha chiesto altri due mesi di tempo. Del centinaio di campioni raccolti dai Nas, dal Corpo forestale e dall’Asur -Azienda sanitaria unica regionale- tra novembre e dicembre e analizzati dall’Arpa Marche del dottor Corradetti, almeno il 30% è risultato contaminato.

Da dicembre il ministero della Salute ha attivato un sistema di monitoraggio sugli alimenti contenuti nei cartoni per bevande. Le Arpa di 15 regioni (più la provincia autonoma di Trento) stanna verificando 780 campioni, ciascuno un alimento specifico: dal tè (Liguria) alla panna da cucina (Toscana), dal vino (Puglia) alla salsa di pomodoro (Campania), dal latte (Lombardia, Piemonte, Lazio, Veneto) ai succhi di frutta (Emilia Romagna). I risultati verranno comunicati ogni tre mesi.

Una multinazionale per 165 Paesi

115 miliardi di cartoni. Basta questo numero a dare un’idea delle dimensioni di Tetra Pak, il contenitore per alimenti per antonomasia. Tante sono le confezioni che la multinazionale svedese ha venduto nel 2004 nei 165 Paesi in cui opera: dentro ci sono finiti 61 miliardi di litri di bevande e alimenti. La storia di Tetra Pak inizia nel 1952 a Lund, in Svezia, dove Ruben Rausing inventa il cartone a forma di tetraedro. Ancora oggi la società, che fattura oltre 7,5 miliardi di euro e dà lavoro a 21 mila persone, è di proprietà della famiglia del fondatore e non è quotata in Borsa.

I Rausing sono tra le famiglie più ricche d’Europa.

Nel 1991 Tetra Pak si è fusa con Alfa Laval, uno dei maggiori produttori al mondo di macchine per l’industria alimentare, dando vita al gruppo Tetra Laval. Il gruppo fattura 8,4 miliardi di euro e conta 23 mila dipendenti. Oltre a Tetra Pak ne fanno parte DeLaval (attrezzature e forniture per aziende agricole e allevamenti industriali) e Sidel. Una curisosità: quest’ultima azienda è leader mondiale nel settore delle macchine per la realizzazione di bottiglie di plastica, che rappresentano -ma costano di più- l’unica “concorrente” del cartone nel mercato delle confezioni per alimenti liquidi.

In Italia Tetra Pak arriva nel 1965: a Rubiera (Reggio Emilia) apre i battenti il primo stabilimento produttivo fuori dalla Svezia. A Rubiera oggi hanno sede la gestione finanziaria e lo stabilimento delle confezioni per la lunga conservazione (vedi box a pagina 11). Un altro stabilimento è a Latina (per il fresco) mentre a Modena ha sede il centro mondiale di ricerca sui sistemi di confezionamento. Tetra Pak Italiana ha fatturato nel 2004 350 milioni di euro: tradotto sono 5 miliardi di confezioni per 3,3 miliardi di litri di bevande e alimenti.

I dipendenti sono un migliaio. Il 12% della produzione viene esportata.

Mercato “grasso” con pochi concorrenti

Un monopolio, o quasi. Il colosso svedese controlla a livello mondiale il mercato

dei contenitori di cartone. Tuttavia ha dei concorrenti. Il più agguerrito è Sig Combibloc, che controlla il 20% del mercato nel mondo e il 15% in Italia, anche se per il 2006, dopo la conquista di un ex cliente Tetra Pak, è previsto il balzo al 19%. Il contenitore è sempre lo stesso, indistinguibile dal Tetra Pak, ma cambia la fase di riempimento e al cliente viene consegnato il contenitore già semi lavorato. Nei cartoni Combibloc si trovano soprattutto minestre e zuppe. Tra i marchi: Bravo, Conserve Italia, Parmalat. La società fa parte del gruppo svizzero Sig, la sede operativa è in Germania (
www.sigcombibloc.com).

Altro concorrente di Tetra Pak è la norvegese Elopak che tratta soprattutto contenitori per prodotti freschi (
www.elopak.com). Tra i clienti italiani Granarolo, Parmalat, Esselunga. Anche per Elopak tecnologia simile ma confezioni semi lavorate.

Infine, l’umbra Ipi (
www.ipi-srl.com) nel mercato dei contenitori da 20 anni. Non ha uno stabilimento (ma sta per nascerne uno a Pierantonio, Perugia) perché sinora ha fatto produrre da terzi i suoi contenitori. L’80% dei suoi cartoni però finiscono all’estero: Spagna, Francia, Turchia, Nordafrica, Centramerica e Iran.

Come Tetra Pak, anche Ipi fornisce ai propri clienti bobine e anche macchine confezionatrici.

Riciclabile? In teoria

Dove butto il cartone del latte? Dal 2003 Tetra Pak ha siglato un protocollo di intesa con Comieco (il consorzio per la raccolta della carta e del cartone) per avviare alla raccolta differenziata anche le confezioni di poliaccoppiato, che oltre alla carta (75% del peso) contengono plastica e, nel caso degli alimenti a lunga conservazione, alluminio. Tetra Pak paga al Conai, Consorzio nazionale imballaggi di cui Comieco fa parte, circa 15,5 euro per ognuna delle 75 mila tonnellate di carta che utilizza l’anno. La raccolta differenziata di Tetra Pak e simili si diffonde: ufficialmente, 11 milioni di italiani possono buttarlo insieme alla carta o ad altri materiali destinati al riciclaggio (l’elenco è sul sito dell’azienda e su quello di Comieco). Secondo i dati Tetra Pak, poco meno della metà delle 100 mila tonnellate di cartone per alimenti utilizzati ogni anno in Italia vengono avviati al recupero. Quel che rimane finisce nell’immondizia indifferenziata. Del differenziato, però, solo un quinto (10 mila tonnellate) è avviato in una cartiera. Il resto contribuisce ad un altro tipo di “recupero”, quello energetico. Ovvero i cartoni sono spediti a un inceneritore, che bruciando rifiuti produce energia elettrica e termica, pratica che in Italia (unico Paese al mondo) è considerata fonte rinnovabile di energia (ne abbiamo parlato su Ae numero 68).

Esiste invece solo una cartiera in grado di ricavare carta dal Tetra Pak: è la Saci di Verona, che produce in quantità limitata la CartaLatte e la CartaFrutta che Tetra Pak utilizza esclusivamente nei suoi uffici e che porta a esempio per dimostrare la riciclabilità del suo prodotto. Ma il resto delle cartiere?

“I cartoni delle bevande costituiscono una percentuale molto bassa della carta avviata a macero” spiega Alberto De Mattia, direttore commerciale di Masotina, uno dei maggiori gruppi in Italia ed Europa del business della carta da macero per il riciclo.

“Il costo dello smaltimento è troppo alto, così come quello della selezione. Quando il poliaccopiato arriva in cartiera è difficile separare la carta di cui è composto dalle parti plastiche o metalliche, perché la separazione avviene in pulper dove l’acqua macera la carta, e il Tetra Pak è notoriamente umido-resistente”.

Della carta che compone i cartoni per bevande e alimenti, si recupera in cartiera il 40% circa (in totale 4 mila tonnellate).

Il 60%, che costituisce lo scarto di lavorazione, finisce ancora una volta per essere bruciato.

Rubiera: 16 milioni di “scatole” ogni giorno

Muletti robotizzati portano -guidati solo da un radar- le bobine di carta alla fase di stampa. Le bobine (due tonnellate, 5 chilometri di carta bianca da un lato, marrone dall’altro) arrivano tutte da foreste svedesi: è così da sempre, in tutto il mondo. Allo stabilimento di Rubiera (Reggio Emilia) si consumano 35 mila tonnellate di carta l’anno. Alber Kaya, ingengere turco da pochi mesi direttore di tutti gli stabilimenti italiani di Tetra Pak, ci mostra il ciclo produttivo. Si comincia con la composizione dei cliché, si prosegue con la stampa, poi si passa all’applicazione dell’alluminio e della plastica e infine la bobina viene tagliata.

Il risultato sono cilindri molto larghi ma bassi, bobine che sembrano “ruote”, dentro le quali sono celati anche 20 mila pacchetti. Queste bobine vengono inviate ai clienti che -utilizzando macchinari forniti sempre da Tetra Pak e assemblati a Modena- compongono a partire dalla bobina i contenitori dentro i quali viene messo il prodotto alimentare.

Da questo stabilimento (che lavora 24 ore su 24) escono ogni giorno bobine per 16 milioni di contenitori.

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