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Mobility manager, ci sono novità. Tra spunti interessanti e occasioni mancate

© Raí Camara - Unsplash

A maggio è stato pubblicato un nuovo decreto sul cosiddetto mobility management a firma dei ministri Giovannini e Cingolani. Restituita dignità a una figura bistrattata ma l’occasione di costruire una domanda di trasporto diversa dall’auto privata è stata persa. L’analisi del mobility manager Domenico de Leonardis 

È stato pubblicato nei giorni scorsi, a firma congiunta dei ministri Giovannini e Cingolani, un nuovo decreto sul cosiddetto mobility management (“Modalità attuative delle disposizioni relative alla figura del mobility manager”, 12 maggio 2021). Senza ricadere in definizioni canoniche o giuridiche il “manager della mobilità” dovrebbe ridurre il traffico in tangenziale del mattino, la calca sui treni o bus in orario di punta, le auto in doppia fila davanti alle scuole. Il presupposto è che ogni singola realtà privata, pubblica, scolastica generi una domanda di mobilità che si scontra con l’offerta che troviamo sulle nostre strade. Il mobility manager è un facilitatore che crea le condizioni per far in modo che la mobilità non sia percepita come un menù monopiatto dove è disponibile solo la pasta.

Nel 2021 mangereste solo pasta tutti i giorni? Buttereste tutti i rifiuti nell’indifferenziato? No. Allora perché usare esclusivamente l’auto o intestardirsi nel far andare a lavoro o a scuola tutti nello stesso orario?

La storia di questa professione nel nostro Paese è particolare ed è bene rimarcarla. Il primo a introdurla è stato l’ex ministro Edo Ronchi nel 1998 sotto l’onda dell’emergenza smog. È stata fin da subito una figura su cui si è aggrappata quella parte di opinione pubblica -purtroppo minoritaria- sensibile al tema. Per anni si è cercato il mobility manager negli organigrammi delle aziende e delle pubbliche amministrazioni scatenando “cacce al tesoro” molto spesso infruttuose. Mosche bianche e pure senza portafoglio, quando si trovavano.

Dal secolo scorso si ritorna a parlare di politiche di mobility manager in due principali occasioni: nel 2015 con l’introduzione del mobility manager scolastico -il classico obbligo all’italiana- e nel 2020, mentre uscivamo dal primo lockdown. Nel decreto legge del 19 maggio scorso il precedente governo riduceva significativamente i limiti dimensionali di aziende ed enti che dovessero individuare un mobility manager (più di 100 dipendenti) e indicava obblighi come quelli di redigere un piano spostamenti visto prima e di mettere in relazione soggetti dell’impresa (mobility manager aziendali) con soggetti territoriali (mobility manager d’area). Il decreto appena pubblicato esplicita in maniera più sistematica il decreto del 2020.

Un anno fa, però, immaginavamo un’uscita migliore e più rapida dalla pandemia. Sognavamo Parigi e la sindaca Anne Hidalgo appena rieletta, c’era il bonus bici, la scoperta dello smart working, c’era la voglia di cambiare radicalmente il nostro Paese: un “niente più come prima” in tutti i settori. Dopo un anno, abbiamo un generale, un ex banchiere, un governo diverso. Anche una fiducia diversa su come questo Paese abbia appreso alcune lezioni.

Tornando al decreto in oggetto i due ministri hanno fatto una prima azione meritoria: hanno dato dignità al mobility manager dedicando un intero provvedimento a questa figura fino a oggi bistrattata. Il decreto, che come vedremo poco innova rispetto ai precedenti interventi legislativi, va letto insieme a quanto previsto con il cosiddetto decreto “Sostegni 2” (art. 51 comma 7) che prevede risorse per dare finalmente avvio a un cambio di passo sul fronte della mobilità sostenibile.

Vale la pena segnalare quattro punti che speriamo siano presi in considerazione nei prossimi atti di questo governo. Con un’annotazione: nel 2020 il decreto era stato pubblicato anche per dare tempo e strumenti per una ripartenza più sicura in autunno. Sappiamo oggi come è andata e sappiamo che le esigenze e i tempi non sono poi così differenti da un anno fa.

Il primo punto critico è proprio relativo alle tempistiche. Il decreto sul mobility management tratta di linee guida per la redazione del piano spostamento casa lavoro (Pscl) entro 180 giorni; l’articolo citato del decreto legge “Sostegni 2” pone un limite all’accesso dei contributi per chi nomina un responsabile della mobilità e redige un Pscl entro il 31 agosto 2021. Un incrocio di date sulla strada della nuova mobilità alquanto curiosa e speriamo priva di incidenti di percorso.

Il decreto sul mobility manager si concentra su due aspetti che nell’esperienza comune sono spesso trascurati: il Pscl e il confronto dei singoli piani tra azienda e territorio. È un punto fondamentale che però va chiarito.

Anche quando nella realtà aziendale esiste un responsabile della mobilità, una singola realtà può far poco senza relazionarsi con istituzioni e operatori del settore. Gli enti territoriali fino a oggi, salvo qualche realtà, non hanno responsabili della mobilità d’area -fondamentali a parer di chi scrive- in grado di costruire momenti di confronto con le varie realtà aziendali o pubbliche che hanno un loro mobility manager ma anche con altri soggetti che si occupano di aspetti cruciali nel settore della mobilità come i vari operatori del trasporto pubblico e i pianificatori urbanisti.

Nel migliore dei casi il mobility manager d’area raccoglie i vari piani aziendali (Pscl) e li rende pubblici. La norma chiede un confronto tra di loro ma sarebbe stato meglio realizzare dei momenti di concertazione più allargati tra i singoli operatori aziendali e i vari soggetti che su scala metropolitana intervengono sulle scelte di mobilità.

Poniamo, per esempio, che ci sia un’azienda proattiva che finanzi il cosiddetto “bike to work” ai propri dipendenti. I sistemi oggi esistenti basati su app e Gps permettono di “utilizzare” il lavoratore in bici per avere un riscontro sui percorsi effettivi e quindi, aggregandoli, di aiutare nella pianificazione gli urbanisti che devono modificare la viabilità. Stesso discorso può valere sul posizionamento di una fermata del bus, o sugli orari di utilizzo di una determinata linea. Un responsabile della mobilità aziendale ha queste informazioni nel proprio cassetto.

La prima critica è dunque la mancata messa in relazione di questi “facilitatori” che sono i mobility manager con quello che è la rete di soggetti istituzionali e non che lavorano nell’ambito della mobilità urbana.
Seconda critica: si è persa l’occasione di immaginare un sistema di ricostruzione della domanda di trasporto diversa dall’auto privata attraverso i mobility manager.

Era il momento di introdurre un obbligo per le aziende di riconoscere un ticket mobility a ogni dipendente, per esempio stabilendo una quota della spesa del personale delle aziende per finanziare una mobilità diversa. Si tratta di una politica di welfare aziendale ormai comune altrove che avrebbe permesso di far scegliere al singolo lavoratore se spendere questo nuovo budget per l’acquisto di un abbonamento al trasporto pubblico, ai sistemi di sharing o persino, perché no anche di servizi connessi come l’acquisto o la riparazione di una bicicletta.

I fondi del decreto legge “Sostegni 2” sono 50 milioni di euro dedicati interamente a progetti sulla mobilità condivisa o alla mobilità cosiddetta “dolce”, una buona idea ma resta la sensazione che si apra una nuova stagione di progetti sperimentali quando sarebbe opportuno invece strutturare una riconversione di campo più netta e duratura. Ed è in questa fase il momento di fare scelte coraggiose.

La soluzione di un fondo aziendale per gli spostamenti dei dipendenti -magari defiscalizzato- aiuterebbe a creare una nuova domanda di trasporto pubblico e gli operatori esangui dalla pandemia avrebbero modo di beneficiarne, accorgendosi magari anche che i loro utenti privilegiati non sono più solo studenti e anziani ma anche i lavoratori. C’è da sperare che questo spunto sia preso in considerazione in una nuova stagione delle relazioni sindacali prevedendo che ogni contratto di lavoro preveda al pari del ticket restaurant un ticket mobility.

La terza osservazione è che il costume italiano non sia cambiato molto con la pandemia. Si chiede di realizzare un piano, di aggiornarlo ogni anno, di chiedere una valutazione al mobility manager d’area che, come detto, dovrebbe poi facilitare la coerenza e il confronto con altre realtà. E poi?

Questi dati diversificati nella loro raccolta dove finiscono? A chi sono utili oltre che alla singola realtà aziendale? Speriamo di essere smentiti anche perché questo Paese ogni tanto ci stupisce. Per esempio nel settore delle politiche di parità di genere si sono creati i Cug (i Comitati unici di garanzia). Questi organismi ogni anno elaborano una relazione ma il bello è che questa relazione finisce in un portale nazionale dove è possibile scaricare liberamente i dati di ciascuna realtà e confrontarli. Un’opera di trasparenza e di benchmarking che sarebbe utile copiare e che renderebbe più facile la soluzione di un’ultima critica.

In tutto il decreto non c’è traccia di controlli per il mancato adempimento della normativa. Questo stupisce molto conoscendo la storia professionale dei due firmatari. Bastava inserire un parametro oggettivo obbligatorio: le emissioni di CO2 equivalenti evitate negli spostamenti casa-lavoro da comunicare ogni anno. Le aziende private più attente ogni anno valorizzano questi dati nei propri bilanci sociali o di sostenibilità. Nel settore pubblico la normativa sulla trasparenza impone una sezione apposita sugli impatti ambientali che spesso è vuota di contenuti. Sarebbe stato un piccolo segnale di novità legislativa che avrebbe evidenziato un cambio di passo non solo nelle politiche di mobilità.

Domenico de Leonardis, mobility manager

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