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Diritti / Reportage

Tra i migranti respinti e dimenticati al confine tra Bosnia e Croazia

A inizio luglio 2019 alcuni volontari dell’associazione Mir Sada di Lecco si sono recati a Velika Kladusa, in Bosnia, dove migliaia di persone vivono nei campi, per le strade o nelle case abbandonate dal periodo della guerra. Tentano di raggiungere l’Europa attraversando il confine con la Croazia ma la maggior parte è respinta illegalmente e brutalmente da corpi di polizia. Il punto della situazione e il ruolo della Ong “No Name Kitchen”

È piombato il silenzio sui migranti che cercano di raggiungere l’Europa via terra, attraverso i Balcani. Persone rimosse dalle cronache e inghiottite dai boschi. Eppure bastano poche ore di auto da Milano per incontrarle, all’inferno. Come raccontano le Organizzazioni non governative che continuano a operare in quei luoghi e in particolare nella Bosnia Erzegovina, decine di migliaia di migranti continuano a tentare la via di terra per arrivare in Europa anche a costo di camminare per mesi. Continuano, nonostante l’appalto miliardario (oltre 6 miliardi di euro) che l’Unione europea ha affidato nel marzo 2016 al governo turco per fermare centinaia di migliaia di persone che provengono soprattutto da Siria, Afghanistan, Pakistan, Sri lanka, Palestina, Maghreb ma anche dall’Africa (per chi non può o non vuole tentare tramite mare). E continuano nonostante la chiusura dei confini ungheresi da parte del governo Orban.
In tanti fanno la loro ultima tappa nel territorio bosniaco dove le autorità li stipano in diversi campi. In particolare arrivano nella zona di Bihac e di Velika Kladusa, dove opera la Ong No Name Kitchen (NNK), composta da volontari di diversi Paesi, nata il 3 febbraio 2017 a Belgrado e protagonista nel passato di attività di aiuto ai profughi sulle isole greche e in Serbia. Ora NNK sviluppa le sue attività in particolare in due luoghi: Šid (Serbia), a cinque chilometri dal confine croato e a Velika Kladuša (in Bosnia), a soli due chilometri sempre dalla Croazia.

Per arrivare in auto a Velika Kladusa occorrono 6/7 ore dalla Lombardia e così ci è sembrato “normale” andare a vedere “come dare una mano”. È normale per noi dell’associazione Mir Sada di Lecco, che da anni, durante e dopo le terribili guerre in Jugoslavia, porta aiuti e solidarietà concreta alle popolazioni di quelle terre.
Dopo aver preso contatti con i volontari di NNK all’inizio di luglio, siamo andati sul posto in cinque, tutti volontari di Mir Sada e del Circolo Arci Spazio Condiviso di Calolziocorte (LC). La situazione che abbiamo trovato è infernale. C’è un campo con un numero di profughi che oscilla tra i 400 e gli 800 e che rimangono il tempo necessario per tentare la sorte e attraversare il confine con la Croazia. È gestito dall’OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) in collaborazione con la Croce Rossa e ci operano alcune Ong conosciute (Medicine Sans Frontiere, Save the Children). La loro presenza, però, non è costante e il campo è chiuso, non si entra senza permessi speciali. Chi ha un posto nel campo riceve un pasto e un posto dove dormire, anche se stretto in container bassi e di metallo roventi d’estate e gelidi d’inverno.

Ma non sono questi i migranti che stanno peggio. Lo sanno bene quelli che non sono nel campo ma vivono fuori, per le strade, nei campi e nelle case abbandonate dal periodo della guerra. Durante le guerre “jugoslave”, nel 1994-1995, Vladika Kladusa e il territorio circostante erano stati dichiarati repubblica secessionista dalla Bosnia sotto la leadership del leader musulmano Fikret Abdic che ha portato i suoi soldati a combattere contro la Bosnia. Ci sono numerose case fatiscenti e abbandonate in cui i migranti possono dormire magari solo per poche notti e che d’inverno, in un freddo estremo, sono l’unico riparo dal gelo.
I migranti fuori dal campo non hanno niente e così NNK cerca di aiutarli tra mille difficoltà, ma con grande voglia di aiutare. Sono ragazzi giovanissimi (spagnoli, tedeschi, americani, cechi, italiani) ed eccezionali: vivono in condizioni al limite.
Nelle poche ore trascorse con loro hanno cercato di farci capire quello che facevano. All’inizio non è semplice comprenderlo. L’aiuto che danno ai profughi fuori dal campo, infatti, deve avvenire con assoluta discrezione, praticamente in semi clandestinità, per evitare interventi delle autorità o proteste della popolazione locale.
Di conseguenza la prima azione che svolgono i volontari è quella di contattare i migranti sparsi per la città, anche se concentrati in alcuni punti. Fuori dal campo profughi, vicino ai supermercati che espongono cartelli con scritto “FORBIDDEN ENTER TO MIGRANTS”. Per farlo li contattano personalmente e stabiliscono “appuntamenti” con piccoli gruppi di migranti, in orari prestabiliti e in luoghi “appartati” dove fare la consegna dei pacchi. I pacchi sono sia di generi alimentari e sia di indumenti. Vengono preparati nella “warehouse” di NNK, una casa dove alcuni volontari dormono e dove sono stipati merci, alimenti, indumenti e medicinali.

La località di Velika Kladusa, in Bosnia ed Erzegovina

Jack Sapoch, uno dei volontari di NNK, è un ragazzo americano del New Jersey che vive a Velika Kladusa da quasi un anno. “Attualmente gestiamo una distribuzione limitata di vestiario/attrezzature per dormire (sacchi a pelo, scarpe, tende, cappotti, zaini e abbigliamento) e cibo -racconta Sapoch-. Nell’operare questa distribuzione, ‘sfruttiamo’ la nostra stretta relazione sociale con i migranti, al fine di indirizzare gli aiuti a coloro che hanno più bisogno di sostegno, in modo rispettoso e umano. Realizziamo un ‘negozio gratuito’ bisettimanale, che fornisce servizi a circa 150 persone, e anche una distribuzione giornaliera mirata di cibo e vestiario a persone che vivono al di fuori del sistema di campi gestiti dall’IOM (Organizzazione internazionale delle migrazioni). In questo modo si raggiungono in media circa 200 persone ogni settimana”.
NNK offre inoltre un servizio straordinario di lavanderia dei vestiti e un servizio doccia anche se per un numero più limitato di migranti. Jack ci racconta come ”Nel 2019 finora quasi 10.000 persone in transito sono entrate in Bosnia, mentre nel corso del 2018 si stima ne siano entrati nel Paese circa 25.000. Quasi tutti questi individui sono entrati nel Paese con l’intenzione di attraversare e non fermarsi nel Cantone di Una-Sana e fanno tappa nelle città di Velika Kladusa (dove si trova No Name Kitchen, ndr) o Bihac. Fare statistiche ufficiali è difficile. Ciò nonostante, possiamo dire che ogni mese ci sono centinaia di persone che tentano di attraversare il confine tra Bosnia e Croazia e che la maggior parte viene respinta illegalmente dalla Croazia e dalla Slovenia”.

È un inferno di violenza. NNK svolge infatti una importantissima funzione di monitoraggio e testimonianza delle brutalità e violenze dei corpi speciali di polizia e dell’esercito croato verso i migranti che tentano di superare la frontiera.
In sostanza vengono raccolti e analizzati -con testimonianze, filmati e fotografie- gli episodi di “violenza legalizzata” in territorio croato con l’indicazione dei luoghi, dei soggetti e delle modalità. E periodicamente viene curato un report che cerca, dettagliatamente, mese per mese, in partnership con i membri del gruppo Border Violence Monitoring (BVM), di spezzare il silenzio dei media locali e mondiali portando i fatti all’attenzione pubblica.
”Il respingimento violento e l’espulsione collettiva di migranti sono eventi quotidiani nella zona”, ribadisce Jack Sapoch di NNK, poco prima di raccontare il “processo metodologico di queste relazioni”. “È incentrato sulla valorizzazione degli stretti contatti sociali che abbiamo come volontari indipendenti con rifugiati e migranti per monitorare i respingimenti dalla Croazia. Quando le persone ritornano con ferite significative o storie di abusi, uno dei nostri volontari cerca di parlarci direttamente per raccogliere le loro testimonianze. Di solito si tratta di gruppi non più grandi di cinque persone, ma vi sono casi di push-back che riguardano anche 65 persone insieme. Abbiamo una metodologia standardizzata per la nostra struttura di interviste che combina la raccolta di dati concreti (date, geo-localizzazioni, descrizioni degli ufficiali, foto di ferite / referti medici, ecc.) con i racconti diretti degli abusi. Le nostre principali fonti di informazione sono le persone direttamente colpite da questa violenza: profughi, migranti e richiedenti asilo in transito che ritornano dalla Croazia e dalla Slovenia. Compiamo ogni sforzo per far sì che i loro racconti abbiano il giusto rilievo e non vengano screditati dalle autorità statali”.

La strumentazione in uso alla polizia croata per la gestione e il controllo delle frontiere. Fonte: NNK, Al Jazeera Balkans

Quello che dà l’idea della estrema disumanità del trattamento è il fatto che sistematicamente -come se ci fossero precise procedure o prassi- i migranti che passano il confine vengono picchiati e percossi (a Vladika Kladusa le persone con tagli, bruciature, ossa spaccate sono tantissime), gli viene rotto il telefonino o lo smartphone (essenziale per orientarsi nei boschi di confine), sono loro sottratti o distrutti tutti i documenti di riconoscimento e tolte e rubate le scarpe in modo che non possano camminare più di tanto (a Vladika Kladusa sono numerosissimi quelli a piedi scalzi e martoriati e nel pacco che NNK consegna è sempre previsto un paio di scarpe).
“Nella mia veste di volontario a Velika Kladusa -prosegue Jack- è diventato facile, o forse ‘normale’, purtroppo, notare i segni distintivi della violenza di confine sui corpi di profughi, migranti e richiedenti asilo che ritornano dalla Croazia. Occhi neri, caviglie slogate, gambe e braccia spezzate e lividi a piedi dovute a bastonature, simboleggiano l’estrema violenza praticata dalla polizia di frontiera durante i respingimenti. Le pratiche violente più comuni sono state eseguite usando manganelli, calci, colpi e pugni. Le persone più accanite nell’esecuzione di respingimenti e violenze contro rifugiati, migranti e richiedenti asilo sono principalmente le autorità croate. Spesso, coloro che vengono espulsi dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina ci raccontano di essere stati respinti e attaccati da unità di polizia descritte come veri e propri ‘commandos’; ufficiali vestiti di nero che indossano passamontagna. Rapporti, testimonianze e prove video di respingimenti identificano chiaramente quello che fanno le autorità croate. La ‘Polizia d’intervento’ del ministero dell’Interno croato è la principale responsabile dei respingimenti lungo il confine croato-bosniaco”.

Quando gli viene chiesto se abbia notizie di quello che succede al confine sloveno o italiano, Sapoch risponde che ”Ci sono state descrizioni di violenze perpetrate da autorità slovene contro rifugiati e migranti. Nondimeno, le descrizioni della violenza diretta in Slovenia sono relativamente meno frequenti rispetto a quelle della polizia in Croazia. Ci sono descrizioni recenti di migranti tagliati dalle recinzioni di filo spinato che dividono le porzioni del confine croato-sloveno lungo il fiume Kolpa. Per quanto riguarda l’Italia, com’è noto, sono state recentemente introdotte delle pattuglie congiunte italo-slovene lungo il confine con il vostro Paese, ma resta da vedere se ciò comporterà un aumento dei casi di respingimenti o violenze”.

Prima di andarcene è tempo di un’ultima domanda sul perché ciò che accade ai migranti sulla rotta dei Balcani non faccia più notizia in Europa. C’è un abisso rispetto ad esempio al racconto (distorto) delle rotte nel Mediterraneo. ”La mancanza di copertura mediatica potrebbe essere causata dal fatto che la migrazione attraverso il Mediterraneo comporta un numero maggiore di morti. Inoltre è decisivo il fatto che le persone che tentano di attraversare i Balcani utilizzano rotte che cambiano costantemente. Forse in questo modo è più difficile per i giornalisti fare articoli e reportage, specie se passano periodi brevi di permanenza sul campo per seguire una migrazione che dura mesi e anni”.
Mentre parliamo con Jack e Chandra -la volontaria che coordina il gruppo- incontriamo alcuni migranti che stanno fuori dal campo profughi “ufficiale”. Sono scalzi e hanno i piedi martoriati; diversi con tagli e e lividi evidenti sulle braccia, sulle gambe; qualcuno con il labbro e i denti rotti. Uno di loro è un ragazzo tunisino di poco più di vent’anni. Sono sette mesi che cerca di raggiungere l’Europa, a piedi; è la terza volta che prova a entrare in Croazia e viene ributtato indietro. Ci proverà ancora fino a quando non ci riuscirà. “Fermare chi scappa da guerre, fame e miserie e vuole andare da un’altra parte è come fermare l’acqua con le mani”, dice.
Più in là, un altro ragazzo, dal Pakistan, è sulla sedia a rotelle e ci racconta che è finito così perché picchiato alla frontiera croata.

Corrado Conti fa parte dell’associazione Mir Sada di Lecco

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