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Diritti / Attualità

Migranti in fuga sulla rotta alpina: un racconto senza distacco

© Michele Lapini

Tra Claviere e Briançon in due anni sono transitate tra le 7 e le 10mila persone. Considerando i valichi nel cuneese e a Nord di Ventimiglia, 30-40mila. Un’“espulsione oscura” seguita e restituita dal giornalista Maurizio Pagliassotti

Tratto da Altreconomia 221 — Dicembre 2019

“Frequento da giornalista e da volontario gli ultimi 12 chilometri della rotta alpina, quelli tra Claviere (TO), in Alta Val Susa, e Briançon, in Francia. Entrando nel ‘rifugio’ che accoglie coloro che hanno attraversato la frontiera, mi sono reso conto che lì i migranti parlano tra loro diffusamente in italiano. Non usano l’inglese, né il francese, e nemmeno lingue locali: quella a cui stiamo assistendo è una fuga dal nostro Paese. Oggi dall’Italia un africano scappa, perché ha paura, perché è perseguitato, perché viene aggredito. Questo è un aspetto ancora taciuto, che rimanda a tempi oscuri del nostro passato, e ho sentito l’esigenza di raccontarlo”.

Maurizio Pagliassotti spiega così la genesi di “Ancora dodici chilometri”, uscito per Bollati Boringhieri: il libro non è (solo) un reportage, ma è capace di offrire al lettore le immagini vive di un contesto alpino remoto e ai più sconosciuto, di un esodo che l’autore -giornalista, collaboratore del quotidiano il manifesto– definisce “espulsione oscura”. L’obiettivo del racconto, scrive Pagliassotti, è “creare un sentimento che porti alla resa incondizionata rispetto alla speranza che questa armata possa essere fermata”.

Perché?
MP Stiamo parlando di un esercito in rotta, di uomini che si muovono verso Ovest, sempre avanti, e per questo richiamo l’epica dell’esercito italiano nella campagna di Russia durante la Seconda guerra mondiale, le tragedie descritte da Mario Rigoni Stern (“Il sergente nella neve”), Nuto Revelli (“La strada del Davai”) ma soprattutto Giulio Bedeschi (“Centomila gavette di ghiaccio”). Sono numeri importanti quelli della rotta alpina: tra Claviere e Briançon in due anni sono passate 7-10mila persone. Se prendiamo anche i valichi a Sud, nel cuneese e a Nord di Ventimiglia, stiamo parlando di 30-40mila esseri umani: sono migrazioni di massa che avvengono in contesti alpini, gelidi, oscuri. Di persone che camminano affondando nella neve per due metri, che si devono muovere nel buio assoluto, perché altrimenti vengono fermati dalla Gendarmerie nationale, in aree dove sono presenti animali selvatici come i lupi. È dato questo contesto che mi sono permesso di chiamare in causa dei giganti della letteratura epica della nostra storia nazionale, per dare una forza narrativa a una vicenda così invisibile. Credo che queste storie debbano essere raccontate con un forte impatto retorico, abbandonando lo status della comunicazione razionale, sobria, ed entrando in un campo più militante, che si rivolge a un pubblico che ha bisogno di un forte impatto emotivo. Penso che la comunicazione necessiti di una forte spinta emotiva: ho avuto modo di sperimentare, nelle lunghe soste nei bar di questa nostra Italia ai margini, veri e propri spazi che svolgono un ruolo di servizio sociale, dove le classi più povere sono soggiogate dalla retorica salviniana. Con queste persone oggi non c’è dialogo, numeri e dati non ne modificano il pensiero. Necessitiamo così di nostre forme di retorica, di un arte di narrare, di creare emozioni, di far sentire le persone partecipi di questo mondo.

Due temi che attraversano il libro sono decoro (con l’esempio di Ventimiglia) e guerra tra poveri. Che legame c’è?
MP Il decoro è una delle tante forze che agisce per spingere i migranti, i poveri verso l’esterno. Accade a Ventimiglia, con la parrocchia accogliente, e a Torino, dove vivo e in nome del decoro è stato chiuso e sgomberato un mercatino secolare, al Balon, per allontanare i poveri. Il bar degli ultimi, invece, è quel luogo dove la rabbia dilaga, insieme alla noia, dove ci sono dei sacerdoti, che sono presentatori televisivi di talk show politici, e che in particolare nelle ore mattutine martellano e infondono odio in queste classi totalmente smarrite, prive di appartenenza, prive anche di strumenti per capire la manipolazione. I due mondi intersecano nel momento in cui i penultimi attaccano gli ultimi. Sempre a Torino, il quartiere Aurora -che racconto nel libro- crea conflitti sociali che si riproducono su loro stessi, lasciando tranquilli i responsabili della situazione, che non sono solo i politici.

Dopo il superamento della frontiera, nel rifugio di Briançon, una rete solidale accoglie e promuove momenti di socialità, sport e relazioni – © Michele Lapini

La costruzione di una narrazione in cui sfuma anche il confine tra buoni e cattivi.
MP 
Considero i militari che presidiano il confine tra Italia e Francia delle vittime. Uomini che sono stati esposti per un inverno a temperature di meno 25 gradi per fare il gioco del ministro dell’Interno. Caduto Matteo Salvini, la pattuglia è stata tolta. Era solo propaganda, perché in quel momento si doveva far la guerra alla Francia. Ho anche incontrato un esponente delle forze armate che, spontaneamente, senza sapere che io fossi un giornalista, all’interno del camper di un’associazione che fa sostegno ai migranti, Rainbow for Africa, ci ha raccontato dei suoi incredibili dopocena, quando esce con gli scarponi alla ricerca dei migranti persi nelle Alpi, muovendosi alla cieca in posti dove io da alpinista non andrei. La sua figura rende molto complessa la realtà, perché fa saltare la divisione tra buoni e cattivi: coloro che in linea teorica dovrebbero perseguitare, sono gli stessi che aiutano, che fingono di non vedere passaggi o i rifugi, di non sapere che dentro gli ospedali (in Francia) ci sono degenti abusivi, illegali che sono passati a piedi e hanno gli arti congelati.

Sono così sfumati, i contorni, che a volte uno si chiede che senso abbia tutta questa storia: perché la realtà è molto diversa della retorica politica, e alla fine passano tutti, il 100 per cento di chi ci prova. A chi serve tutto questo? Credo esista una grande responsabilità politica della destra italiana, che racconta come emergenza un flusso migratorio che potrebbe essere gestito in altro modo.

Le vicende descritte nel tuo libro si svolgono in Val di Susa. C’è un legame tra il movimento No Tav e la solidarietà alla frontiera.
MP Credo che chiusa la vicenda dell’opposizione al treno ad alta velocità, il mondo No Tav abbia mosso verso l’aiuto dei migranti e degli ultimi. Ciò crea una sorta di paradosso: coloro che sono considerati degli eroi in questa storia, la maggior parte di quelli che vanno a “cavare” gli assiderati dalla neve, che salvano di fatto la vita degli esseri umani che cercano di attraversare le Alpi in inverno, sono le stesse persone che lo Stato porta sotto processo e accusa di reati gravissimi (tra loro anche la settantenne Nicoletta Dosio, ndr). Coloro che portavano i bidoni di tè ai presidi No Tav, oggi portano lo stesso tè nei rifugi alpini dei migranti.
C’è bisogno di una riflessione su questa comunità: come li valutiamo? Penso che le due vicende siano legate, che siano parte di un unicum, legato alla giustizia sociale, al rispetto dell’uomo, dell’ambiente e dei diritti umani. Bloccare il Tav e permettere ai migranti di attraversare i confini sono due forme di resistenza all’ultracapitalismo.

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