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Mi cercarono l’anima a forza di botte

A poche ore dalla sentenza di primo grado sulla morte di Stefano Cucchi, Altreconomia ha raccolto la testimonianza del padre, Giovanni. Una vicenda, quella del geometra 31enne trovato morto al presidio ospedaliero Sandro Pertini di Roma, destinata a rimanere senza responsabili, salvo i medici, condannati comunque a pene lievi. La battaglia composta di una famiglia stravolta dal dolore. Con le interviste all’avvocato Fabio Anselmo e il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella

"La conclusione è che lo Stato ha ucciso due volte Stefano". Quando risponde al telefono, Giovanni Cucchi è di ritorno da un sopralluogo di lavoro. La mattina dopo la sentenza di primo grado che ha condannato flebilmente i medici e mandato assolti infermieri e agenti di polizia penitenziaria, l’analisi del padre del 31enne morto ammazzato a Roma nell’ottobre 2009 è ferma.
 
Anche se la giornata è stata "surreale". "Lo Stato non è in grado di fare autocritica e di essere rigoroso con se stesso, noi è questo che vogliamo. Noi vogliamo verità su Stefano e faremo di tutto per trovarla". Verità giudiziaria, perché quella storica è scritta in faccia al pugile arrestato in via Lemonia la notte del 15 ottobre 2009 (il verbale d’arresto lo voleva nato in Albania, di tre anni più vecchio e senza fissa dimora) e poi trovato cadavere sette giorni più tardi per "presunta morte naturale" in un letto del presidio ospedaliero protetto di Roma, il Sandro Pertini. Lì era stato condotto -secondo la famiglia, però, lì sarebbe stato nascosto- dopo uno sconvolgente tour che lo spostava come un pacco da Regina Coeli al Fatebenefratelli fino al Pertini. Tre anni e mezzo di processo, oltre quaranta udienze, tredici imputati (uno, Claudio Marchiandi, funzionario del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria ha ricorso al rito abbreviato, condannato in primo grado e poi assolto anch’egli in Appello).
 
Una sentenza "vergognosa" che "ci ha lasciati senza fiato", racconta Cucchi, "sapevamo che l’impianto accusatorio della Procura era debole, ma il declassamento di pena per i medici non lo attendevamo. Stefano è entrato al Pertini con 42 battiti al minuto, necessitava di monitoraggio continuo. Per negligenza, trascuratezza, come volete voi, i medici l’hanno dimenticato, agendo malissimo. È stato l’unico detenuto che non è stato visitato da uno psicologo. Per questi (i medici) la pena è sospesa, quindi continueranno a lavorare, senza alcun effetto pratico sulla loro professione".
 
A questo va aggiunta la piena assoluzione perché "il fatto non sussiste" per i tre agenti di polizia penitenziaria, secondo la famiglia autori del violento e ripetuto pestaggio del 16 ottobre 2009 nelle celle di sicurezza del Tribunale di piazzale Clodio a Roma, in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto. Al contrario, la Procura di Roma aveva loro contestato lesioni e abuso di autorità e non l’omicidio preterintenzionale. Stefano Cucchi fu pestato prima dell’udienza, dove poi Giovanni Cucchi lo vedrà per l’ultima volta. Si abbracciarono, terminato il processo lampo per direttissima, e in manette il figlio gli si rivolgerà chiedendogli perdono. L’unico ad aver visto e sentito qualcosa poco prima che Stefano andasse in aula, l’unico a parlare dunque, è Samura Yaya, originario del Gambia, testimone chiave di fatto mai preso in considerazione nel processo, che ha riferito dall’inizio che dalla feritoia della sua cella avrebbe intravisto Cucchi cadere a terra e poi sentito dei rumori sospetti, e calci.
 
La famiglia, tutelata dall’avvocato Fabio Anselmo, come racconta Giovanni Cucchi, confidava "almeno nel rinvio al Pm degli atti processuali per un approfondimento, ma questo non c’è stato. Secondo noi sarebbe stato indispensabile per amore di verità, per poter capire il meccanismo di questa morte assurda". La dignità composta di Giovanni Cucchi assume i connotati dello sdegno quando riflette sul ruolo dei periti, che in un procedimento come questo ricoprono un ruolo determinante (si pensi al caso di Federico Aldrovandi). Prima la perizia di parte della Procura, nella figura del professor Paolo Arbarello (La Sapienza di Roma, medicina legale), secondo la quale sulla morte di Stefano -determinata in ogni caso dalle responsabilità dei soli medici- avrebbero influito fratture pregresse. Poi, la perizia terza del Tribunale, attraverso sei specialisti milanesi, che hanno indicato come causa del decesso l’inanizione (per fame e sete). Una strada avversata fin dal principio dalla famiglia, come ricorda Giovanni Cucchi: "È clamorosamente inattendibile questa perizia, è dimostrato infatti che si muore con digiuno assoluto in 21 giorni. Come si fa a morire in 6 giorni dopo aver mangiato a cena? Mio figlio è stato ricoverato perché è stato pestato, quello è il motivo originante".
 
In mezzo alle due perizie, quella della famiglia, attraverso, tra gli altri, Gaetano Thiene e Vittorio Fineschi. Secondo il primo, che ricalca la certezza dei cari di Cucchi, la causa della morte sarebbe dipesa dall’occlusione del catetere vescicole a seguito del rigonfiamento notturno del globo fino a 1,4 litri d’acqua, con conseguente danno (fatale) delle radici nervose e bradicardia.
 
"Che la Procura faccia appello a questa sentenza è tutto da verificare", conclude Cucchi. Se così fosse, la famiglia si costituirà ancora parte civile. "Anche se la fiducia è quasi a zero e le speranze sono molto limitate".
 
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Stando all’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, i prossimi passi dipendono da un unico fattore, l’orgoglio della Procura di Roma. "Se la Procura ammette che ha sbagliato -nel capo di imputazione e nell’impianto accusatorio- e opta per ricorrere in appello, a quel punto lo faremo anche noi e torneremo dinanzi alla Corte. Dipende dalla Procura, secondo noi l’appello va fatto, e per quel che riguarda i tre agenti di polizia penitenziaria, alla Corte va sottoposta l’ipotesi di omicidio preterintenzionale e non quella di lesioni e abuso di autorità". Gli stessi agenti che, come gli infermieri e in parte i medici (gli unici condannati a pene lievi), ne sono usciti sostanzialmente indenni. "Quando l’impianto accusatorio è debole e la gestione del processo tutta contro una parte, e cioè la famiglia, si finisce con il favorire di fatto gli imputati. Anche se le pene così lievi per i medici francamente non me le sarei mai aspettate". 

 

 
Dov’è finita la tortura?
 
Dominato da un profondo senso di incertezza è anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, in prima linea da oltre vent’anni per la promozione di una condizione dignitosa nelle carceri italiane e più in generale nel sistema penale italiano. A lui chiediamo di allargare il campo, spostandosi dall’aula processuale agli scranni parlamentari, dove riposa, tra i banchi della commissione Giustizia, l’iter normativo volto a introdurre nell’ordinamento il delitto di tortura. 
 
Quanto avrebbe contribuito la presenza della fattispecie "tortura" nel procedimento sulla morte di Stefano Cucchi?
È difficile stabilirlo, anche se posso tranquillamente ritenere che la presenza sia certamente meglio dell’assenza. Avrebbe aiutato in fase probatoria, l’ipotesi dell’incriminazione per tortura è più forte, infatti. Anche se qui il problema è il muro di omertà che si è ricreato, a partire dai corpi di polizia (penitenziaria, ndr). Si è ancora chiamati a lavorare per formare un corpo che promuova diritti e non castighi. Urge cambiare questa terribile involuzione autoritaria di parte delle forze di polizia.

Qual è la strada?
Insieme ad altre associazioni e soggetti della società civile, stiamo raccogliendo 50mila firme su tre proposte di legge di iniziativa popolare su tortura, droghe e carceri. Anche se è bene ricordare che prima di ogni codice sono necessarie le indagini. Fatte bene e coordinate, che abbiano sufficienti riscontri e siano in grado di garantire giustizia e verità. Il punto è che finché chi indaga rischia di dover indagare se stesso, torneremo sempre a questo punto. Io credo che si debba avere il coraggio di creare sezioni di polizia giudiziaria che si occupino solo di violenza e tortura, come già accade per stalking e reati contro la pubblica amministrazione.

A quale punto del percorso si trova l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano?
Siamo fermi. Se ci fossero le forze politiche che avessero a cuora la rapida approvazione del ddl sulla tortura si potrebbe sanare questo problema in pochi mesi. La nostra proposta di legge di iniziativa popolare cercherà di smuovere in questo senso. Il 26 giugno è la giornata mondiale della lotta alla tortura, faremo di tutto per essere in tutte le piazze d’Italia.

Che rapporto esiste tra il reato di tortura e la vicenda di Stefano Cucchi?
A guardare da fuori, pare che i tre elementi costitutivi della tortura ci siano tutti. Il pubblico ufficiale che con violenza o minaccia infligge dolore psichico o fisico per umiliare, vessare o strappare dichiarazioni a una persona in custodia. Mi pare che la storia di Cucchi non fosse poi così dissimile. Anche se in mancanza di indagini serie, anche la presenza del reato nel codice non risolve automaticamente il problema. Anzi.

 

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