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McDonald’s Italia sotto accusa per il “sistema” dei ristoranti in franchising

In estate l’Antitrust ha aperto un’istruttoria sulle pesanti condizioni che la succursale del colosso dei fast food imporrebbe agli affiliati. Dal contratto alle royalties, dalla formazione al rientro dall’investimento: ipotizzato l'”abuso di dipendenza economica”. Un problema che riguarda potenzialmente oltre 1.000 punti vendita

La succursale italiana di McDonald’s è sotto accusa per le clausole “soffocanti” imposte agli affiliati che ne gestiscono i punti vendita. Investimenti al buio per aprire i locali, canoni di locazione elevati, percentuali del fatturato da destinare alla pubblicità e impossibilità di rientrare dagli investimenti fatti sugli arredi e sul mobilio. Condotte che secondo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) “potrebbero configurare un abuso di dipendenza economica rilevante per la tutela della concorrenza e del mercato”. L’istruttoria è stata avviata in estate nei confronti della McDonald’s devolopment Italy (Mcdi), società con sede legale a Milano che ha ottenuto il diritto di utilizzare e concedere in sub-licenza l’uso del marchio dalla corporation statunitense. Secondo Reuters l’azienda rischierebbe una sanzione da 1,6 miliardi di euro.

La rete di McDonald’s coinvolge un elevato numero di soggetti con quasi 1.500 punti vendita aperti in Italia: 615 ristoranti e oltre 875 esercizi commerciali tra McDrive (punti di servizio in automobile) e McCafè (bar all’italiana). Di questi l’85% è gestito in regime di franchising. Proprio tre imprenditori, rappresentanti di società a responsabilità limitata che gestivano ristoranti  in diverse Regioni italiane, hanno descritto le presunte modalità di gestione, da parte di McDonald’s Italia, dei suoi affiliati. Attraverso l’imposizione di un “sistema complesso e integrato di canoni, royalties, oneri finanziari e di investimento, politiche di vendita e molteplici obblighi di comportamento estremamente gravosi” la società controllante ridurrebbe al minimo l’autonomia di chi decide di entrare a far parte della rete.

Chi intende aprire un ristorante si troverebbe obbligato a seguire un percorso di formazione presso i ristoranti del gruppo McDonald’s “a tempo pieno di una durata tra i sei mesi e i due anni esito del quale non vi sarebbe alcuna garanzia di poter effettivamente diventare un affiliato del gruppo”. Il tutto a spese proprie “senza alcuna retribuzione né rimborso spese”. Un investimento al buio anche per quanto riguarda la sostenibilità dell’attività in futuro. Non sono note la redditività media dei ristoranti, i termini e le condizioni dell’eventuale proposta futura. I segnalanti hanno dichiarato l’impossibilità di prendere visione del contratto prima della stipula presso lo studio di un notaio, “vedendosi costretti ad accettare tutto senza poterne discutere per assenze di concrete alternative al percorso già avviato”. Un percorso particolarmente oneroso: mediamente per l’apertura di un ristorante sono necessari circa 800mila euro, con una tassa di ingresso di importo massimo di 45mila euro. Di questa cifra il candidato deve dimostrare “di possedere almeno il 25% della somma”.

Anche una volta ottenuta la licenza, l’imprenditore si ritroverebbe però a dover corrispondere ingenti somme di denaro. Un canone di locazione composto da una spesa fissa annua, da riconoscere “anche in caso di eventuale perdita dell’esercizio commerciale” e che può essere modificata “unilateralmente” da McDonald’s, più una somma variabile “proporzionale al fatturato lordo annuale”. L’utilizzo del “sistema McDonald’s” -ovvero i diritti su alcuni nomi, marchi, brevetti, modelli e schemi di colori per le facciate- prevede una tassa sul diritto d’autore “pari al 4% del fatturato annuo di ogni ristorante”. Ogni affiliato deve poi destinare il 4% del fatturato lordo mensile “per la promozione a livello nazionale” della catena e l’1,5% per la pubblicità a livello locale. L’acquisto di allestimenti e attrezzature necessarie per i locali spetta interamente a chi apre il punto vendita e, in deroga alle disposizioni del codice civile, ogni “riparazione, sostituzione, manutenzione delle apparecchiature e dei locali commerciali e migliorie che si rendano necessarie in seguito a cambiamenti del sistema McDonald’s” sono a carico dell’imprenditore senza la possibilità di richiedere un indennizzo durante o dopo la scadenza del contratto.

A queste condizioni, che l’Antitrust definisce come “particolarmente gravose nonché fortemente limitanti dei margini di autonomia degli affiliati”, si aggiunge l’obbligo per chi ottiene la licenza di “mantenere la residenza a non più di 50 chilometri dal locale e devolvere tutta la propria attività lavorativa in esclusiva a favore dei locali di McDonald’s”. Inoltre, al momento della scadenza, risoluzione o scioglimento anticipato del contratto, gli affiliati “sono messi nell’impossibilità di recuperare in alcun modo gli investimenti effettuati, sia con riferimento ai beni materiali, sia con riferimento all’avviamento”.

Con specifico riguardo alle attrezzature e l’arredamento dei locali “strutturati secondo le esigenze e scelte di Mcdi risulterebbe impossibile la ‘riconversione’ a favore di altre affiliazioni commerciali”. Questo significa che, una volta terminato il rapporto contrattuale, il tutto può essere riacquistato da Mcdi “a prezzi irrisori in assenza di obblighi di acquisto”. Tornata in possesso del mobilio, la società sarebbe così in grado di rivendere tutte le attrezzature del locale al nuovo affiliato che subentra nella gestione del ristorante “lucrando di fatto sugli investimenti fatti dal precedente gestore” (parole dell’Agcm). Anche la lunga durata dei contratti -ventennale- sancisce un “eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi tra il licenziato e licenziatario”.

Un insieme di condotte che dimostrerebbero come “Mcdi avrebbe abusato dello stato di dipendenza economica dei segnalanti, imponendo loro una serie di condizioni estremamente gravose -rileva l’Autorità garante-. Tali condotte verrebbero adottate dalla catena di fast food nei confronti della generalità dei propri affiliati”. A metà ottobre scade il termine entro cui i rappresentanti delle parti possono richiedere audizione all’Agcm. A quel punto, toccherà alla responsabile del procedimento (Daniela Giangiulio) assumere la decisione entro il 31 dicembre 2022.

Intanto McDonald’s Italia fa sapere che entro il 2025 tutti i giochi distribuiti con l’Happy Meal, definito il “panino più amato dai bambini”, saranno sostenibili. Un cambiamento che, secondo l’azienda, da solo consentirebbe “di risparmiare 80 tonnellate di plastica all’anno, l’equivalente dei rifiuti prodotti da 160 italiani in un anno” e che farebbe parte del “percorso virtuoso di McDonald’s verso la transizione ecologica” che avrebbe preso avvio “ormai da diversi anni a partire proprio dai ristoranti”. Non è chiaro a spese di chi: stando al provvedimento che ha aperto l’istruttoria dell’Antitrust, è facile immaginarlo.

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