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Ambiente / Intervista

Mauro Van Aken. La crisi della natura perturbante

Mauro Van Aken è antropologo culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha avuto esperienze etnografiche in Palestina, Giordania, Tanzania e nell’Oltrepò pavese

Il cambiamento climatico ha modificato il nostro rapporto con la natura, non più percepita come risorsa distante ed esterna alla società. Gli impatti sono culturali, oltre che economici

Tratto da Altreconomia 233 — Gennaio 2021

Che rapporto instaurano le società con la natura e gli agenti ambientali: atmosfera, terra, fiumi, venti? Mauro Van Aken è antropologo culturale all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Nel saggio “Campati per aria” (Elèuthera, 2020) riflette sul cambiamento climatico come prodotto della relazione eccezionale che la società occidentale ha avuto con l’ambiente concependolo come comparto a sé, esterno all’essere umano. Attraverso le sue esperienze etnografiche in Palestina, Giordania, Tanzania e nel vicino Oltrepò pavese, Van Aken mostra invece come tutte le altre culture abbiano sempre conferito alla natura dei significati e dei ruoli importanti consci della profonda relazione che le lega all’ambiente circostante. Oggi i cambiamenti climatici obbligano l’occidente a riscrivere il suo rapporto con il “naturale” e, sostiene Van Aken, ciò non implica solo un cambiamento economico ma anche culturale.

Professor Van Aken, partiamo dal titolo: perché “Campati per aria”?
MVA Perché è un’espressione che condensa i valori attribuiti all’aria dalle “società del carbonio”, basate sul consumo delle risorse e sull’emissione di CO2. Con “campato per aria” ci riferiamo a qualcosa che ha poco fondamento, futile, poco serio. Ma l’origine di questa espressione ha un significato radicalmente opposto: nasce dagli accampamenti militari romani che dovevano essere ben “campati per aria”, dovevano cioè stabilirsi valutando le condizioni ambientali e atmosferiche per ripararsi da eventuali intemperie.
Quel significato, nell’ultimo secolo è stato ribaltato. Se dall’atmosfera sono sempre arrivate risorse e informazioni vitali, oggi la leggiamo come ambito distaccato dalla realtà materiale “razionale”. Tutto questo ci racconta metaforicamente qualcosa che è centrale nella nostra incapacità di leggere i cambiamenti climatici. E cioè che anche noi in realtà, come tutte le altre culture, siamo “campati per aria” nel senso originario del termine: siamo profondamente interrelati all’ambiente ma ce ne siamo dimenticati. Oggi, confrontandoci con eventi climatici estremi sempre più frequenti, riscopriamo la nostra relazione con la natura con scandalo, paura e senso di colpa.

Perché nel suo saggio definisce la natura “perturbante”?
MVA Perché i cambiamenti climatici hanno condotto a un’alterazione pericolosa -per l’uomo- della natura, con un aumento di uragani, alluvioni, ondate di calore. Gli agenti ambientali sono diventati altamente imprevedibili e hanno assunto un ruolo attivo e inaspettato nella nostra vita, mentre nell’ultimo secolo le società occidentali li avevano concepiti come entità inerti sullo sfondo delle azioni umane. Guardare ad altre culture ha permesso di mostrare che la nozione occidentale di “natura”, nata proprio con l’invenzione dell’economia moderna, è il concetto per esprimere l’ambiente storicamente meno condiviso al mondo. Se tutte le culture hanno sempre pensato all’ambiente come un insieme di agenti integrati all’interno della società, la nostra nozione di “natura” è l’unica che oppone il campo della cultura a tutto ciò che è “naturale”, non umano, come fossero comparti a sé stanti. Un grande magazzino a disposizione, una discarica o uno spettacolo da ammirare: questi sono i modi in cui le società occidentali si sono relazionate all’ambiente, che hanno in comune la falsa idea che l’uomo non ne faccia parte, che gli sia esterno. Ma quella natura inerte e infinita come la pensavamo, con i cambiamenti climatici è diventata una natura reattiva e limitata. Oggi riemerge come qualcosa di spaesante, “perturbante”.

Lei scrive che i cambiamenti climatici hanno portato alla “fine di un’immagine del mondo”, quello caratterizzato dal “mito di una natura a disposizione e di una crescita economica illimitata”. Le nuove generazioni, nate ai tempi della crisi ecologica, sono portatrici di un cambiamento radicale?
MVA Stiamo assistendo a una profonda rottura perché le nuove generazioni stanno prendendo coscienza di ciò che vuol dire vivere nell’Antropocene, cioè in un’altra dimensione epocale in cui l’ambiente cambia in maniera accelerata. C’è qualcosa di antropologicamente diverso in costruzione: i giovani cominciano a essere consapevoli di essere immersi in relazioni ambientali e a volerle ricostruire. La crisi di cui sono protagonisti può aprire a qualcosa di nuovo, generativo. Ma c’è bisogno di cambiare la cassetta degli attrezzi per leggere la realtà perché gli strumenti usati da 70 anni a questa parte si sono rivelati essere una bugia. Della cultura che è stata finora predominante ci si chiede: che cosa ha lasciato ai “nuovi venuti”, come li chiamava in altri tempi Hannah Arendt, a parte gli scenari catastrofici? Lo sdegno di Greta Thunberg, “How do you dare?”, rappresenta proprio questa rottura e il bisogno di nuove lenti per interpretare la realtà.

In tutto questo il Covid-19 è uno spartiacque. Ormai sappiamo che non è un alieno ma lo specchio delle nostre relazioni ambientali. Come i cambiamenti climatici, è espressione della nostra interdipendenza e fragilità ambientale. Si tratta della prima esperienza collettiva e traumatica dell’Antropocene perché questa volta, rispetto ad altri eventi epidemici o climatici sempre avvenuti lontano dalla fortezza occidentale, ha attaccato i centri della modernità globale.

L’impasse che ci troviamo a affrontare è innanzitutto culturale, una mancanza di strumenti e semantiche che sembra imporci come solo futuro pensabile quello catastrofico. “Se cambia il mondo, devono cambiare anche le parole” ha scritto il glaciologo Claude Lorius e, in effetti, la decarbonizzazione non è un processo solo economico ma anche di creazione di nuovi, o rinnovati, significati. In questo le culture non occidentali, o parte della nostra storia ambientale marginalizzata, possono insegnarci molto, sicuramente a immaginare altre forme economiche che si pensino all’interno delle relazioni ambientali.

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