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Diritti / Intervista

L’Italia senza competenze di fronte alle migrazioni. Cambiare si può

Paolo Bonetti insegna Diritto costituzionale all’Università Milano Bicocca e dirige il master “Diritto degli stranieri e politiche migratorie”. Obiettivo? Fornire strumenti e conoscenze per resistere a propaganda e soluzioni improbabili. Come il discusso “modello” dell’Australia

“La reazione di tanta parte della classe dirigente italiana di fronte alle migrazioni appare tuttora infantile, è come quella di un bambino che per la prima volta vede un temporale. Se la prende con le nubi intimandogli di andarsene. Poi però ovviamente le nubi non se ne vanno, piove e l’insuccesso è assicurato. Eppure sarebbe bastato aprire l’ombrello, come hanno fatto tanti altri, cioè prepararsi a gestire le migrazioni. Per gestire l’immigrazione non bastano norme improvvisate o battute, il che può servire a fare propaganda politica, a vincere una elezione o un sondaggio della popolazione più spaventata, ma non a governare un fenomeno di lungo periodo in un Paese e in un continente che, tra l’altro, stanno rapidamente invecchiando e in alcun Stati il crollo demografico è già iniziato (Bulgaria e Ungheria) e in altri sta per iniziare (Italia e Grecia)”.
Secondo il professor Paolo Bonetti, che insegna Diritto costituzionale all’Università Milano Bicocca presso il dipartimento di Giurisprudenza, quell’ombrello è la conoscenza di tutti gli aspetti (sociali, giuridici, economici, storici) del fenomeno migratorio, indispensabile per poterlo poi gestire. Ed è per questo motivo che dirige il master di primo livello intitolato proprio “Diritto degli stranieri e politiche migratorie”, giunto quest’anno alla sua seconda edizione. L’obiettivo del percorso (8 novembre 2018/8 maggio 2020) è quello di “soddisfare le esigenze formative dell’Italia in cui risiedono più di 5 milioni di stranieri (oltre 1 milione in Lombardia), cittadini di altri Stati UE o di Stati terzi, destinataria di ulteriori flussi migratori”.

Come? Attraverso “indispensabili” conoscenze specialistiche giuridiche, storiche, politiche e sociali, oltre che attività formative teorico-pratiche, maturate anche grazie alla collaborazione dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (OIM), l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), il Consorzio Farsi Prossimo e la cooperativa sociale A.ME.LIN.C. La scadenza per la presentazione delle domande di iscrizione al Master è il 21 settembre 2018 e le informazioni dettagliate si possono trovare qui.

Professor Bonetti, perché è così importante oggi studiare il fenomeno e formare competenze nel campo delle migrazioni?
PB Per evitare che la propaganda politica distorta di questo periodo sulle migrazioni produca quello che definisco l'”effetto Longarone” (Comune veneto distrutto dal disastro del Vajont nell’ottobre 1963, ndr). Si rafforza la diga, incuranti delle avvisaglie del disastro. Poi però alla fine la diga resta ancora in piedi mentre l’acqua è passata dall’altra parte, distruggendo e trovando tutti impreparati.

Si spieghi meglio.
PB Il diritto è la regolazione delle convivenza civile, sicché anche i modelli delle politiche migratorie per essere efficaci devono tenere conto della storia e della geografia. Se uno non li conosce gioca con i modellini delle politiche migratorie in una realtà artificiale che non è minimamente trasferibile da un luogo all’altro, da un contesto storico ad altro contesto storico. Faccio l’esempio di un recente “caso di scuola”, ovvero il caso dell’Australia e delle sue politiche migratorie.

Il ministro dell’Interno Salvini ha dichiarato di voler replicare il modello “No Way”. Che ne pensa?
PB Che chi lo propone ignora la storia di quel Paese, nato da una immigrazione limitatissima di secoli come colonia penale inglese, diventato indipendente solo nel 1911. L’Australia ebbe come proprio “vicino” l’impero giapponese, che nel secolo scorso aveva una politica aggressiva e stava colonizzando tutto il Pacifico. E accanto, fino al 1945, ci fu l’Olanda, che colonizzava l’Indonesia, la Francia che fino al 1954 colonizzava l’Indocina e ancora ha territori d’oltremare nel Pacifico oltre a tante colonie britanniche diventate indipendenti soltanto dopo il 1975 (come Papua Nuova Guinea). La grandissima distanza tra quei Paesi, la grande pericolosità degli oceani e la difficoltà nelle comunicazioni -possibili per secoli soltanto via nave, con lunghissimi viaggi- rese pressoché impossibile qualsiasi colonizzazione massiccia. Ed è la ragione per cui ci ritroviamo oggi di fronte a un enorme continente assolutamente sotto popolato. È in questo scenario che l’Australia, oggi, dopo la crescita demografica dell’Indonesia, l’indipendenza di tutte le ex colonie britanniche, francesi, portoghesi, ha maturato una scelta politica draconiana, resa possibile soltanto grazie alla geografia. Ed è una scelta che non ha fatto nessun altro Paese del mondo: una immigrazione regolata soltanto “bianca” e occidentale. Voluta, che punisce col carcere l’immigrazione illegale e segrega su due isole i migranti irregolari (una delle quali è la repubblica di Nauru, ex colonia australiana dal 1971). Questo tipo di scelta non è trasportabile altrove. Tanto meno in Italia. Il Mediterraneo resta il mare più navigabile del Pianeta, le coste sono molto più vicine e i Paesi intorno a noi sono in fiamme, in preda a conflitti e instabilità. Immaginare che qualcuno copi l’Australia significa soffrire una spaventosa incapacità di comprendere le differenze.

Oltre alla geografia c’è la storia.
PB Come dicevo, siamo circondati da conflitti come non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. Nel 2016, secondo l’UNHCR, abbiamo registrato nel mondo un numero di asilanti superiore a quello del 1945, per la prima volta. Prendiamo un compasso e fissiamolo sull’Italia. Poi iniziamo a girare: dall’Ucraina al Nagorno Karabakh, dal Kurdistan alla Siria, dall’Egitto alla Libia, dalla Nigeria al Mali. Dal 2011, come mai è accaduto prima, l’Italia è circondata da conflitti. Siamo davvero convinti che si possa “risolvere” tutto questo smettendo di soccorrere i migranti in mare? Lo vietano sia la Costituzione -che garantisce il diritto di asilo nel territorio italiano ad ogni straniero a cui nel proprio Paese è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche-, sia le norme del diritto internazionale.

Quali scenari si immagina?
PB Il problema è che i flussi migratori si spostano, ma certo non cessano, perché non cessano le cause di espulsione dai Paesi di origine o di transito come la Libia, nella quale la guerra civile imperversa e nessuno riesce da anni ad impedire che accadano atrocità e violenze; lì sono intrappolate centinaia di migliaia di migranti . Non escludo di poter assistere allo sbarco di due gigantesche navi come accadde per i migranti che arrivavano dall’Albania oltre vent’anni fa.

Sentiamo dire ancora “Aiutiamoli a casa loro” o non precisati annunci di un “Piano Marshall” per l’Africa. Che cosa ne pensa?
PB Mi piacerebbe sapere se chi annuncia il “Piano Marshall” lo abbia mai studiato davvero. Chi era coinvolto? Gli Stati Uniti e 6 Paesi democratici dell’Europa occidentale distrutti dopo la Seconda guerra mondiale. Punto. Oggi abbiamo a che fare invece con la gran parte degli Stati (spesso non democratici) dell’intero continente africano. Le risorse da investire dovrebbero essere immense, mille volte più grandi di quelle del Piano Marshall, e quali Paesi del mondo le avrebbero davvero? Non sanno quel che dicono. Governa l’approssimazione, la scarsa lungimiranza, la mistificazione. Si dice Piano Marshall e poi si finisce invece per finanziare -come hanno fatto l’Ue e l’Italia- misure che vanno a rinforzare la sicurezza dei Paesi di origine e di transito e l’accoglienza dei migranti, cioè misure che da un lato aiutano le élite politico-amministrative (spesso inefficienti e corrotte) e dall’altro aiutano a risolvere problemi che interessano soprattutto i Paesi finanziatori e non certo le economie e la società di quei Paesi. Ciò spiega perché simili interventi non servono a impedire le cause socio-economiche delle migrazioni, che perciò non cesseranno, ma finiranno per cambiare direzione.

Dove suggerisce di guardare, oggi?
PB Ad esempio a un progetto iniziato 35 anni fa e di cui pochi sanno. E cioè alle grande strada transahariana al cui completamento mancano appena 30 chilometri d’asfalto. Un’autostrada in mezzo al deserto tra Niger e Algeria. Quando tra pochi mesi sarà conclusa, nessuno più sarà così pazzo da attraversare un deserto inospitale e senza strade come quello che separa il Niger dalla Libia, ma dal Niger con quella strada si svolterà in Algeria, verso una via asfaltata molto più sicura. Uno scenario globale che esige intelligenza, conoscenze geopolitiche e non soltanto iniziative normative nazionali o europee. I flussi migratori si sposteranno subito ed anzi già l’hanno fatto.

Verso i Paesi di quella zona, invece, l’Unione europea investe risorse per “controllare” i flussi e contenerli. Dal Niger al Mali, fino alla Libia.
PB L’OIM ricorda che la Libia è il Paese che separa due aree in cui vige una moneta comune e la libera circolazione e soggiorno, i cui cittadini possono liberamente circolare, soggiornare e trovarsi un lavoro: da un lato vi è l’Unione europea e l’Euro, dall’altra vi è la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale e il franco CFA. Ad esempio un senegalese, un ivoriano, un maliano, un nigeriano, può liberamente circolare fino ad Agadez, in Niger, per cercarsi un lavoro e solo da quel luogo poi se vuole andare altrove, fuori della Comunità, rischia di fare un’immigrazione illegale affidata a trafficanti di persone. Allora si può ipotizzare che poiché i migranti che giungono illegalmente nell’Ue vengono per i tre quarti da quelle aree, sarebbe assai più razionale per prevenire l’immigrazione illegale stipulare accordi bilaterali per quote preferenziali di migrazioni regolari e sicure, investendo in quei Paesi anche con politiche culturali. È il caso degli istituti italiani di cultura. A Sud del Sahara ve ne sono soltanto a Dakar, ad Asmara e ad Addis Abeba. Significa che se un cittadino nigeriano, ghanese o camerunese volesse venire in Italia non potrebbe trovare un luogo dove imparare l’italiano prima di partire, il che favorirebbe l’arrivo in Italia di un’immigrazione meno improvvisata e più integrabile, così come da più di cinquanta anni fa la Francia.

Tra gli insegnamenti del master c’è anche la Sociologia delle migrazioni. Perché?
PB La scelta di migrare è complessa, comporta diversi fattori che nascono da decisioni personali e si congiungono a scelte collettive. Pensare che cambiando quelle collettive si possano influenzare quelle personali significa non aver capito nulla. La Sociologia delle migrazioni ci spiega da tempo che è diverso l’intento migratorio di chi fugge da una guerra o dall’oppressione politica, rispetto a chi cerca di migliorare la propria vita e trovare un lavoro.
Nei primi due casi si scappa all’ultimo secondo, controvoglia, in modo rocambolesco, senza un passaporto. È una migrazione difficile che ritroviamo nelle storie dei richiedenti asilo. Persone che vivono una vita rinchiusa all’indietro. E che spesso quello che hanno subito impedisce loro la possibilità di un futuro, date le lesioni psicologiche e fisiche fortissime, talvolta indelebili. Diversa è l’altra migrazione, quella per motivi economici o culturali: in tali casi la scelta di partire dipende da altri fattori. Partono i più attrezzati, nel senso di coloro che hanno un’aspirazione non soddisfatta nel loro Paese. Ma non basta. Chi parte tendenzialmente sa che esiste un altro Paese in cui quell’aspirazione può essere soddisfatta. Ma non basta ancora. Occorre avere fatto una valutazione costi-benefici e aver concluso che i disagi saranno inferiori rispetto ai benefici. E bisogna poter contare anche su mezzi economici per il viaggio e il primo soggiorno e avere i primi documenti per uscire dai Paesi. Questo spiega perché non partono certo i più poveri e perché ad esempio in una famiglia uno parte e quattro no. Con comunità e famiglie che investono sulla base di informazioni, talvolta false o ingigantite dalla catena migratoria. E così via.

Che è poi la storia italiana. 
PB Ai nostri studenti ricordiamo che siamo il secondo Paese al mondo per emigrazione. E lo si fa per “normalizzare” noi stessi, uscire dall’isteria di chi è terrorizzato dalla migrazione, che invece è un fenomeno ordinario nella vita dell’umanità e delle nostre società e famiglie, proprio come la pioggia. È un investimento per la formazione che serve a preparare persone non solo in accoglienza o progettazione di politiche migratorie o di gestione di servizi sociali e giuridici a vari livelli, ma anche nell’informazione corretta.

Il master prevede anche delle uscite “didattiche”. Una tappa è la basilica di S. Ambrogio e il battistero del Duomo di Milano. Perché? 
PB Perché Ambrogio, nato in Germania, battezza Agostino, originario dell’attuale Algeria proprio nel battistero del Duomo di Milano. È un modo per ribadire come l’identità italiana sia proprio questo: migrazione e accoglienza, non è altro che incontro. In fondo la Lombardia prende il nome da una grande migrazione che ha riguardato i tre quarti d’Italia e ogni Regione ha nel suo passato antico e recente enorme migrazioni interne ed esterne. Noi stessi siamo il frutto di quelle migrazioni, di cui dunque non si deve avere paura. Occorre dunque capire e governare un fenomeno ordinario con mezzi ordinari: accoglienza e conoscenza, appunto. Ma anche interazione con le persone, conoscenza approfondita di tutte le norme per potere capire le regole della reciproca convivenza di diritti e di doveri, per svolgere professioni legali e sociali, per gestire pubbliche amministrazioni, servizi pubblici e del terzo settore in modo lungimirante.

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