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Ambiente / Intervista

“Marmolada: il nostro approccio alla montagna deve cambiare. Come il monitoraggio”

Marmolada, Canazei © Luca Trassini - Unsplash

Che cosa è successo il 3 luglio, quali sono gli effetti dei cambiamenti climatici e quale l’importanza dei controlli sul campo. Intervista alla professoressa Guglielmina Diolaiuti della Statale di Milano che da anni studia i 903 corpi glaciali italiani e non solo: “Siamo a un punto di non ritorno e ignorare la crisi non è accettabile”

“A maggior ragione dopo i drammatici fatti della Marmolada deve cambiare il nostro approccio alla montagna, così come le nostre attività di monitoraggio”. Guglielmina Diolaiuti è professore associato presso il Dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano. Da anni studia i 903 corpi glaciali presenti in Italia oltre a numerosi ghiacciai alpini ed extra alpini, le acque superficiali e la climatologia. Si è occupata delle Alpi italiane ma anche del Karakorum, dell’Himalaya, delle Ande e dell’Antartide. Le abbiamo chiesto di aiutarci a capire che cosa è successo il 3 luglio sulla Marmolada e quali scenari ci attendono.

Professoressa Diolaiuti, partiamo dai fatti di domenica.
GD Quello che è accaduto sulla Marmolada in questi giorni è qualcosa che sinceramente non era prevedibile. È un ghiacciaio che, erroneamente, consideravamo accessibile, semplice. Mi spiego meglio: era ipotizzabile che una cosa del genere potesse accadere prima o poi sulle Alpi, a causa dei cambiamenti climatici che stanno devastando i nostri ghiacciai, li assottigliano, li frammentano e ne fanno crollare porzioni. Ma non era prevedibile lì.

Si dice: “È venuto giù un seracco”. È corretto?
GD No, non c’erano seracchi. Il seracco è la parte turrita del ghiacciaio e si forma quando questo, muovendosi, supera un dislivello roccioso. Il ghiaccio ha un comportamento plastico ma per superare un cambio di pendenza può spaccarsi in gradonate, i seracchi appunto. Sono sezioni che possono crollare e instabili. Ma nel caso della Marmolada c’erano dei crepacci, non dei seracchi. Un crepaccio è una frattura nel ghiacciaio causata dal fatto che un ghiacciaio si muove, è un corpo dinamico, e gli sforzi deformano il ghiaccio e lo fratturano. I crepacci hanno una loro naturale evoluzione, lenta. Nel caso della Marmolada il crepaccio si è allargato rapidamente per azione dell’acqua di fusione rimasta intrappolata all’interno. Si è allargato al punto da vedere il distacco della porzione di ghiaccio a valle che è crollata colpendo le due cordate di alpinisti. Se ci fosse stato un seracco instabile non avrebbero fatto accedere le persone, invece l’azione dell’acqua è drammaticamente meno visibile, lavora da dentro, e senza chiari segnali premonitori si è avuto il crollo.

Lei richiama l’attenzione sui “fori” dei ghiacciai. In che senso?
GD I nostri ghiacciai sono ridotti, anneriti, assottigliati e appunto forati. L’abbondante acqua di fusione che c’è nelle estati torride, invece di scorrere via, scava dei tunnel al loro interno e li rende molto più rischiosi. Ricorro al termine “rischio” come si fa in geologia: ovvero quando c’è la possibilità che avvenga un evento che determini danni alle persone e alle loro opere.

Sabato 2 luglio lo 0 termico era a 4.700 metri. Vuol dire che tutto, neve, ghiaccio, sotto quella quota era in fusione.
GD Sì, è stata la giornata decisiva. Il crollo che abbiamo visto nei video terribili che sono circolati è frutto dell’allargamento di un crepaccio a opera di acqua di fusione intrappolata all’interno dello stesso. Questo fenomeno, in inglese crevasses spreading, avviene normalmente nei ghiacciai posti al livello del mare, con le fronti soggette al distacco di iceberg proprio per l’allargamento dei crepacci sino al crollo di una porzione di ghiaccio. Una tale quantità di acqua dentro un crepaccio a 3.200 metri di quota, come è avvenuto sulla Marmolada, è un evento estremo. Non doveva esserci tutta quell’acqua a quella quota. E il ghiaccio crollato ha portato con sé nella caduta anche tutto il detrito presente alla superficie del ghiacciaio amplificando gli effetti di questo terribile evento.

Il nostro approccio alla montagna deve cambiare?
GD Inevitabilmente. Il caldo torrido rende territori di questa natura non esenti da rischi elevati. Occorre essere molto prudenti nella frequentazione, valutando quali ghiacciai sono accessibili e quali no, e soprattutto a quale ora della giornata recarvisi. Un tempo gli alpinisti esperti andavano in quota di notte o nella prima mattina. E c’era un senso: i ponti di neve oltre una certa ora non tenevano. Adesso che la neve sui ghiacciai non c’è più, a causa dei cambiamenti climatici, abbiamo perso questo tipo di abitudine. Ma nelle ore più calde l’acqua è davvero tanta e come abbiamo visto può portare a situazioni drammatiche.

Dal 2012 al 2014, con diverse ripubblicazioni, ha coordinato insieme al professor Claudio Smiraglia il progetto che ha portato alla pubblicazione del “Nuovo catasto dei ghiacciai italiani”. Avrebbe potuto in qualche modo prevedere i fatti della Marmolada?
GD I catasti, anche ravvicinati, offrono l’informazione chiave per dirci quanta superficie di ghiaccio perdiamo ogni anno a causa dei cambiamenti climatici. Ma questi si fanno “comodamente” con il telerilevamento dai nostri laboratori. Non significa che non possano evidenziare condizioni di rischio, penso ai laghi sopra glaciali del Karakorum che si vedono anche da satellite e vanno monitorati per il rischio di svuotamenti improvvisi ad “effetto Vajont”. Ma nel caso dell’evento drammatico della Marmolada non avremmo visto niente “dall’alto”, solo un monitoraggio di campo, da terra, avrebbe potuto fornire elementi utili.

Quindi occorre un cambiamento anche nell’attività di monitoraggio?
GD Senza dubbio. È impossibile fare monitoraggi “stretti” per tutti i corpi glaciali italiani (903) ma ci possono essere degli “osservati speciali”. Tra i 10 e i 30 ghiacciai più frequentati, specie quelli dove è possibile giungere in quota con impianti di risalita. Circostanza che, a torto, ci fa credere di aver “addomesticato” quegli ambienti naturali.

Che cosa dovremmo fare adesso, operativamente?
GD Occorre istituire un tavolo tecnico a livello nazionale in cui i maggiori esperti di ghiacciai, per i vari settori delle Alpi, siano in grado di dialogare con i gestori dei territori e con i gestori degli impianti. Valutiamo i casi di frequentazione alta, mettiamo in piedi un sistema di controllo e monitoraggio. A patto però che poi qualcuno l’accesso lo regoli. E poi agiamo con sensoristica fissa e sopralluoghi di personale formato.

Ha coordinato in passato il Tavolo permanente Biosfera e territorio istituito dal fu ministero per le Autonomie regionali. Come è andata a finire?
GD Le legislature cambiano e attualmente non ho notizie del tavolo, noi esperti però siamo sempre qui disponibili a collaborare con il governo centrale e con quelli dei territori.

Questa vicenda evidenzia ancora una volta l’urgenza della crisi climatica e la centralità della ricerca. Ricordo che nel 2015 mi disse la miseria del contributo pubblico destinato dal ministero per le vostre attività: 20mila euro ogni due anni in media, dal 2001 al 2011.
GD Non mi stancherò di ripetere che i cambiamenti climatici non sono l’oggetto di ricerche speculative di qualche scienziato originale. Siamo a un punto di non ritorno e ignorare la crisi non è accettabile.

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