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Marghera ci ri-guarda – Ae 58

Numero 58, febbraio 2005Si specchiano l’una di fronte all’altro, la serenissima Venezia, e il suo porto industriale. Sembrano sfidarsi, ma sono come le facce del futuro: il business sopra tutto, oppure la centralità dell’uomo e dell’ambiente Marghera nasce sulla carta nel…

Tratto da Altreconomia 58 — Febbraio 2005

Numero 58, febbraio 2005

Si specchiano l’una di fronte all’altro, la serenissima Venezia, e il suo porto industriale. Sembrano sfidarsi, ma sono come le facce del futuro: il business sopra tutto, oppure la centralità dell’uomo e dell’ambiente
 
Marghera nasce sulla carta nel 1917 quando il conte Volpi, ricco nobile veneziano, costituisce un sindacato di imprese elettrometallurgiche e navali e progetta sulla terraferma di fronte a Venezia l’area industriale della città lagunare; in una settimana ottiene l’approvazione dal ministero romano e concorda con il Comune che questo si impegnerà a costruire un quartiere di abitazioni nelle immediate vicinanze del polo industriale predisponendo servizi pubblici e viabilità. Tre mesi dopo però si ha il cedimento sul fronte austriaco nella grande guerra, c’è la sconfitta di Caporetto e tutto sarà riavviato nel 1919.

Volpi riesce a mettere a frutto i profitti eccezionali ottenuti con la guerra dalle principali imprese energetiche e metallurgiche italiane: da quei soldi impregnati di morte nasce il futuro di un’ampia area territoriale. Nascono il nuovo porto merci, poi i cantieri navali Breda, la raffineria Agip, la centrale elettrica, le industrie chimiche dei concimi. Nel 1924 ci sono già 27 stabilimenti.
Negli anni ‘30 le mire espansionistiche dell’Italia fascista, ove Volpi è diventato un ministro pluripotenziario e gode della fiducia di Mussolini, danno un ulteriore sviluppo industriale; il bisogno di navi da guerra fa ampliare i cantieri Breda ai quali viene affiancata la siderurgia. Poi altre industrie metallurgiche per lavorare l’alluminio (Sava), il cromo (SanMarco) e il piombo (La piombo e zinco). Si insedia anche la Montecatini con alcune fabbriche di prodotti minerari e chimici. Nel 1940 le industrie sono circa 100 con 17.000 addetti, la zona industriale raggiunge un’ampiezza di 53 chilometri quadrati.

Nel dopoguerra la prima zona industriale si sviluppa notevolmente con il comparto chimico: è la Sicedison con la collaborazione tecnica dei gruppi americani Monsanto e Union Carbide che inizia la concorrenza alla Montecatini. Sul fronte lagunare sorgono impianti del cloro, della trielina, dell’acetilene, del cloruro di vinile monomero (CVM) che dà il via all’era della plastica. E con i rifiuti solidi delle aziende si riempiono le barene della laguna (acquitrini salmastri con poche decine di centimetri d’acqua) sottraendo ampie superfici all’acqua e si creano altri terreni in cui sorgono nuove industrie.
Dopo le unificazioni di Montecatini e Edison a fine anni ‘60, nasce la seconda zona industriale con il craking della nafta che produce etilene e propilene da inviare con enormi tubazioni a Ferrara, Ravenna e Mantova dove si producono le plastiche: il polietilene e il polipropilene. Poi il nuovo impianto del cloro e quello del toluendiisocianato per produrre altre plastiche, i poliuretani, e un’enorme centrale termoelettrica a nafta poi riconvertita a carbone, e ancora fabbriche di alluminio finanziate dallo Stato. E si strappano alle acque altri pezzi di laguna, sempre colmandole con rifiuti inquinantissimi, fino a preparare la terza zona industriale che però per fortuna non verrà mai edificata. Dalla fine degli anni ‘70 comincia la fase di decrescita con una contrazione costante di produzioni ma soprattutto di occupati. Dai quasi 40.000 occupati, picco massimo della seconda metà degli anni ’60, si arriva ai 12.000 attuali di cui 4.000 solo nella chimica.

Intanto si è frammentato il sistema di proprietà delle imprese ed è aumentato il ricorso al lavoro in appalto e subappalto; se prima la chimica era governata dall’Eni ora tutto è stato venduto a imprese per lo più estere ( EVC, Dow, Elf Atochem, Solvay oltre a Syndial e Polimeri Europa create da Eni) per cui non c’è più una convenienza nella interconnessioni; infatti la peculiarità del polo chimico era che i servizi erano comuni (centrali termiche, vigili del fuoco, aria compressa, depuratori, ecc) e che gli scarti di una produzione erano materie prime per un’altra produzione. Ora ad ogni passaggio bisogna pagare i prodotti/rifiuti ed è difficile anche concordare la ripartizione delle spese comuni.
Contro questa crisi nel ‘98 si firma un Accordo di programma per la chimica che è sottoscritto da governo e sindacati e come garante industriale da Eni, che poco dopo venderà però tutti gli impianti. L’accordo prevedeva grossi investimenti per migliorare l’impatto ambientale delle centrali termiche e di alcuni impianti chimici, oltre che la bonifica di vaste aree industriali dismesse e un sistema di controllo pubblico dell’inquinamento dell’aria e del rischio industriale. Quel programma finora è stato quasi del tutto inattuato.
Bisogna sottolineare che la riduzione occupazionale non ha alcuna relazione con le problematiche ambientali che si sono affacciate sulla scena locale agli inizi degli anni ‘80. Le chiusure anche più recenti degli impianti di Butadiene e Caprolattame mai contestati dal punto di vista ambientale, sono frutto di accordi internazionali e di spartizioni di mercati.

Ma l’industria lascia il segno. Il Piano regolatore generale del Comune di Venezia del 1962 prevedeva all’art. 15 “nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori”. E questo articolo è stato abrogato solo nel 1990!
Dagli anni ‘20 a oggi vengono scaricate migliaia di tonnellate di sostanze tossiche.
L’ambiente e l’uomo vengono sacrificati al dio denaro, alla produzione industriale governata dalle regole ferree della concorrenza per cui si risparmia sulle manutenzioni, sulla sicurezza sul lavoro, sulla tutela ambientale.
Le prime lotte significative per l’ambiente sono dell’84 e prendono di mira le navi che scaricano ogni giorno in Adriatico 4.000 tonnellate di gessi, frutto della lavorazione del fosforo e dell’acido fluoridrico e che sono tra le cause principali della fioritura di alghe in Adriatico mettendo a rischio il turismo estivo sulle spiagge del Veneto e dell’Emilia. I lavoratori e i sindacati si sentono attaccati da tutti e difendono l’esistente e l’operato delle imprese. I gessi però vengono riconvertiti e riutilizzati per l’edilizia, gli impianti più vecchi vengono chiusi e i lavoratori spostati in altri reparti. Poi nell’88 un’altra battaglia a risonanza nazionale, contro le navi di rifiuti tossici che partivano da Marghera e andavano a scaricare in Africa (vedi anche il servizio su Ilaria Alpi, nelle pagine seguenti, ndr), nei campi della Nigeria; anche quel traffico fu bloccato e i rifiuti trattati in loco in modo corretto e controllato.!!pagebreak!!
 
Qui si inserisce la vicenda che nasce dalla sensibilità umana/ambientale e dalla testardaggine di un operaio: Gabriele Bortolozzo. Lavoratore del CVM si era accorto che tutti i suoi ex compagni di lavoro erano morti di tumore e da solo inizia a contattare i parenti di quelli in pensione; studia le loro malattie e le cause di morte e trova che 84 lavoratori del reparto CVM, tra addetti e insaccatori in appalto, sono morti, 68 di tumore. Dato che il CVM è una sostanza riconosciuta cancerogena dall’Organizzazione mondiale della sanità stende un’analisi epidemiologica con confronti con dati nazionali assieme a Medicina democratica e nell’agosto ‘94 deposita un esposto alla magistratura.
Il caso finisce al giudice Casson che apre un’inchiesta, fa un appello sui giornali per raccogliere tutti i casi di lavoratori del petrolchimico deceduti o malati per malattie correlabili con le sostanze usate e così trova 546 casi di operai affetti da patologie diverse fra cui circa 200 casi di tumore accertati. Rinvia a giudizio per omicidio colposo multiplo e disastro ambientale i 28 direttori e amministratori del petrolchimico di Marghera, praticamente i vertici della chimica italiana degli ultimi 30 anni.
Alla fine, in un triste giorno dei morti, il 2 novembre 2001, la sentenza assolve tutti gli imputati da ogni colpa sia sanitaria sia ambientale perché le vicende societarie e le loro scatole cinesi non consentono una chiara responsabilità individuale, le leggi esistenti al tempo dei misfatti erano permissive, la cancerogenicità del CVM fu nota solo dopo il 1973 e da quella data furono prese opportune precauzioni.
Il processo inizia il 13 marzo ‘98, con osservatori da tutto il mondo perché è un caso esemplare di processo penale (negli altri casi simili vi erano state solo cause civili per ottenere rimborsi e risarcimenti); il processo si snoda in 150 udienze con la presentazione di immani volumi di perizie e controperizie che portano alla luce le quantità enormi di sostanze cancerogene scaricate in aria, i danni all’ecosistema lagunare e alla sua fauna che poi ha riportato nel ciclo alimentare tutte le sostanze tossiche scaricate in acqua, la devastazione del territorio con discariche autorizzate ed abusive -120 quelle abusive con 5 milioni di metri cubi di rifiuti- che coprono non solo la zona industriale, ma vaste aree del territorio della provincia veneziana e che, per essere bonificate, richiedono somme ingentissime valutate attorno ai 70.000 miliardi di vecchie lire.
Con 1000 pagine i giudici di primo grado giustificano la loro sentenza e con altre mille pagine Casson giustifica il suo ricorso in appello (si possono tutte leggere su www.petrolchimico.it). Secondo lui la cancerogenicità del CVM era nota all’azienda dal 1970 e i pochi produttori mondiali avevano sottoscritto un accordo per tener nascosto questi effetti al mondo scientifico e civile (di questo portò le prove riprese dal libro di Bettin e Danese); inoltre numerose leggi dal 1956 costringevano le aziende comunque ad evitare l’esposizione dei lavoratori a sostanze nocive, com’era il CVM.
 
Il processo d’appello è ripartito il 20 gennaio 2004 e il 15 dicembre scorso c’è stata la sentenza storica che ha rovesciato sostanzialmente quella di primo grado riconoscendo le responsabili penali di molti imputati anche se in realtà quasi tutti sono stati assolti perché i reati sono caduti in prescrizione. Forse ci sarà un ultimo grado di giudizio in Cassazione, ma intanto è stata riconosciuta la connessione tra il petrolchimico e i suoi disastrosi effetti sanitari ed ambientali, e i familiari delle vittime ora potranno intentare cause civili in relazione ai reati riconosciuti dalla sentenza, anche se prescritti.
 
Intanto fuori dalle aule del processo sono avvenute molte cose.
 – L’associazione G.Bortolozzo nata dopo la morte di Gabriele nel ‘95, ha raccolto i dati, autodichiarati dalle aziende, delle emissioni di cancerogeni a camino (1500 sono i camini industriali censiti a Marghera ) e i dati di mortalità per tumore nelle Uls e nella provincia di Venezia mettendo in luce come i tumori polmonari e al fegato raggiungono record di incidenza nazionali e mondiali nelle zone sottovento rispetto ai venti prevalenti che soffiano sul petrolchimico; hanno così ottenuto assieme alle associazioni ambientaliste che Provincia e Comune realizzassero un’indagine epidemiologica, tuttora in corso, sulle morti da tumori nella popolazione che è vissuta e vive attorno all’area industriale.
– Negli stabilimenti si sono susseguiti incidenti, incendi, scoppi e fughe di gas che hanno causato allarmi chimici e inquinamenti e poi processi, conclusi sempre con la condanna delle direzioni aziendali e pesanti sanzioni pecuniarie. Alcuni processi sono ancora in corso; nel novembre 2004 è iniziato il processo per le decine di morti per l’amianto ai cantieri navali di Marghera (pubblico ministero ancora Casson) e in febbraio inizierà quello relativo al più grave incidente accaduto a Marghera, quello del 28 novembre 2002 quando esplosero due serbatoi di peci clorurate a circa 20 metri dal serbatoio con 15 tonnellate di fosgene, un gas molto tossico. Quella notte si sfiorò in Italia un’altra Bophal.
– La EVC ha chiesto di raddoppiare gli impianti per la produzione di CVM, ma la Regione a metà 2004 ha proposto al ministero dell’Ambiente di non autorizzare il potenziamento degli impianti ma solo di migliorare gli abbattimenti in aria e acqua; ora la parola è al il ministero. Contemporaneamente è stata proposta la costruzione di un nuovo impianto di cloro in sostituzione di quello esistente obsoleto ed inquinante, perché usa ancora il mercurio come intermedio. Su questo punto le associazioni ambientaliste hanno chiesto la bocciatura del progetto. La Regione, in commissione Valutazione impato ambientale, ha approvato il progetto malgrado in città sia partita una raccolta di firme per un referendum consultivo. Ma sarà ancora il ministero dell’Ambiente a decidere.
A livello politico sociale lo scontro è aperto in vista anche delle prossime elezioni regionali e comunali a Venezia: le posizioni sono trasversali perché sia nel polo che nel centrosinistra vi sono partiti o frazioni di partito favorevoli al nuovo impianto di cloro e altri contrari.
Si tratta di decidere se iniziare a riconvertire l’area industriale eliminando la chimica più pericolosa, quella del cloro, che occupa circa 550 addetti, e costruire per Venezia e il suo hinterland un futuro diverso bonificando i terreni e installando aziende rispettose della salute umana e dell’ambiente (cantieristica, nanotecnologie, logistica e portualità, ecc) favorendo le vocazioni naturali di quest’area che è porta di accesso tra Est ed Ovest europeo, tra Mediterraneo e centro Europa, tra terraferma e acqua. Magari aprendo un bel museo di archeologia industriale per mostrare ai nostri figli come evitare certi errori che intere generazioni hanno pagato anche con la vita. 
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Soldi contro giustizia, ma il processo non si fermò
Alcuni mesi dopo l’avvio del processo di primo grado per i morti da CVM le aziende proposero un indennizzo alle famiglie dei defunti e ai malati sopravvissuti e sborsarono 68 miliardi di vecchie lire per circa 500 persone. Questo servì a far calare l’attenzione attorno al processo: giornali e giudici erano impressionati dalla folta partecipazione al dibattimento. Il processo però andò avanti perché alcuni lavoratori, tutte le associazioni, i sindacati e gli enti pubblici (Stato, Regione, Provincia, Comune) non accettarono indennizzi. Solo per la sentenza finale l’aula bunker di Mestre si riempì di nuovo di pubblico.
Il giorno prima della sentenza di primo grado avvenne un altro fatto curioso: la Montedison patteggiò con l’avvocato dello Stato un esborso di 525 miliardi di lire per indennizzo dei danni ambientali prodotti e così venne esclusa dalla sentenza. L’accusa aveva chiesto danni ambientali di migliaia di miliardi; la Montedison sperava di risparmiare, non sapendo che invece il giorno dopo le imprese sarebbero state tutte assolte.
Su questi miliardi è nata una polemica perché non si sa bene se, a 4 anni di distanza, siano stati versati al ministero dell’Ambiente e come siano stati spesi.
A Marghera la Regione ha approvato il master plan per le bonifiche della aree altamente inquinate, ma non si trovano i fondi per fare i lavori: le aziende che  hanno inquinato infatti, essendo state assolte per questa voce, non pagano; inoltre hanno cambiato nome decine di volte negli ultimi decenni, per cui i responsabili sono irrintracciabili. Così si cercano fondi pubblici e, paradosso nel paradosso, per eseguire i lavori si presentano raggruppamenti di grandi industrie chimiche che sono le stesse che hanno inquinato. Il cerchio si chiude: chi ha inquinato guadagna anche sul disinquinamento.
 
Quel che nasce dal coraggio di un uomo
La storia dell’industrializzazione di Porto Marghera è uno di quei pezzi di storia italiana che meritano di essere conosciuti. I libri non mancano. Ne consigliamo uno in particolare, che è anche la storia di un uomo, Gabriele Bortolozzo (nella foto). Da semplice operaio ha amato la verità e la giustizia: se il processo per le morti di Marghera si è celebrato lo si deve a lui, che ora non c’è più, al suo incredibile lavoro di ricerca e di denuncia.
beatricebortolozzo@hotmail.com
 
Un Paese ad alto rischio: sono 1.300 i siti industriali pericolosi
Non c'è solo Marghera con la sua concentrazione di tumori tra operai ed abitanti dei quartieri vicini: nella cartina sono indicati una ventina di siti industriali chimici ad alto rischio, molti lungo le coste, i più vecchi localizzati al Nord, i più recenti (anni ‘50 e seguenti) al Sud.  Le aziende ad alto ed altissimo rischio, secondo le definizioni degli art. 6 e 8 della “legge Seveso” ultima versione (la 334 del 1999) sono circa 1300 (l’elenco è reperibile nel sito www.miniambiente.it).
Ogni anno in queste aziende si verificano circa 15 incidenti gravi, con una media di 10 morti, molti feriti, intossicati e danni ambientali. Ecco chi produce, oltre a Marghera, la plastica PVC dal gas cancerogeno CVM (cloruro di vinile): Ravenna, Brindisi, Porto Torres,  Ferrara, Samarate (Va). Fino a qualche anno fa erano attive anche le industrie di Terni, Villadossola (No), Rosignano, Ferrandina (Mt), Assemini (Ca) e BorgaroT. (To).
 
C'è  da precisare che non è solo il CVM ad essere cancerogeno. Lo sono anche vari solventi (tri-cloroetilene, per-cloroetilene, ecc) prodotti nelle industrie chimiche, ed utilizzati da officine meccaniche, autoriparazioni, metallurgiche ecc. per lo sgrassaggio dei pezzi. Come lo sono vari altri solventi chimici usati, per esempio, nell'industria delle vernici o nella stampa offset.
In tutti questi settori è possibile sostituire i processi produttivi cancerogeni con altri molto meno nocivi: sgrassaggio con soluzioni acquose alcaline, vernici ad acqua, pulizia macchine stampa con olii vegetali. Così si volta pagina e si salvano molte vite umane.
Michele Boato, Direttore Ecoistituto del Veneto “Alex Langer”
 
Rischio Bophal e i cittadini si risvegliano
Il 28 novembre 2002 l’Italia rischia una tragedia simile a quella di Bophal: all'impianto TDI di Dow Chemical di Marghera esplodono due serbatoi di peci clorurate a circa 20 metri dal serbatoio con 15 tonnellate di fosgene, lo stesso gas di Bophal: pochi microgrammi bastano per uccidere. Attorno al petrolchimico, tra Venezia, Mestre e Marghera, vivono circa 200.000 persone. L’incidente risveglia le coscienze di molti cittadini che danno vita ad un movimento e all’Assemblea permanente (www.margheraonline.it).
Si scopre che il fosgene è stoccato in città in quantità rilevanti, in condizioni di sicurezza discutibili. C si rende inoltre conto dell'inquinamento persistente da sostanze tossiche e cancerogene connesse al cloro: diossine, clorovinile monomero (CVM), dicloroetano (DCE). È una presa di coscienza collettiva. Nel secondo anniversario dall'incidente, a fine 2004, l'Assemblea inizia la raccolta di firme per un  Referendum consultivo comunale: in soli due giorni si raccolgono oltre 5.000 firme, quasi la metà delle 11500 necessarie (pari al  5% degli elettori aventi diritto). La raccolta è tuttora in corso.
 
Per conoscere e approfondire:
Verbali e sentenze del megaprocesso di Porto Marghera sono tutti pubblicati su www.petrolchimico.it
Tra i libri: G.Bettin, N.Benatelli “Petrolkimico”, Baldini e Castoldi 1998
Ass. Bortolozzo Acqua, terra, aria, Ass.Bortolozzo 2001
G.Bettin, M.Dianese Petrolkiller,  Feltrinelli 2003
F.Fabbri “Porto Marghera e la laguna di Venezia: vita,morte e miracoli”, Jacabook 2003
F.Rigosi “Marghera ieri, oggi e domani”, EcoistitutoVeneto 1999
M.Boato Stop ai fanghi Montedison in Adriatico, Ecoistituto veneto 1989
M.Vianello “Un’ isola del tesoro”, Marsilio 2004

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