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Ambiente / Attualità

La rete di ricercatori che mappa le relazioni sotterranee tra gli alberi

In duecento hanno mappato oltre un milione di ecosistemi in 70 Paesi -dalle foreste tropicali a quelle italiane- per indagare lo scambio del carbonio. E come questo potrebbe cambiare a causa dei cambiamenti climatici

Tratto da Altreconomia 217 — Luglio/Agosto 2019
I lavori per preparare i plot della vegetazione nelle foreste tropicali del parco nazionale dei monti Udzungwa, in Tanzania - © Francesco Rovero

Quante diverse specie arboree riuscite a contare in un ettaro del bosco più vicino alla vostra casa? Immaginate che la risposta si moltiplichi per oltre un milione di ecosistemi forestali in 70 Paesi del mondo, dove si trovano 28mila specie di alberi: è quello che hanno fatto oltre 200 ricercatori per raccogliere i dati confluiti nella ricerca scientifica sulle relazioni simbiotiche nei suoli forestali che è stata pubblicata in copertina nel numero 569 di Nature, lo scorso maggio: “Tree dimension”, titolava la rivista internazionale di scienze. “In gergo li chiamiamo plot, quadrati di 100 metri per 100, entro cui misuriamo gli alberi e raccogliamo informazioni dettagliate sull’ambiente naturale”, spiega Francesco Rovero, ricercatore e docente al dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Firenze e collaboratore del Museo delle Scienze di Trento. Con altri sette colleghi, Rovero ha selezionato e analizzato sei diversi plot nelle foreste del parco nazionale dei monti Udzungwa, in Tanzania, per contribuire alla ricerca che ha indagato, dentro e intorno alle radici dei suoli forestali, quel “mercato naturale globale” -come l’hanno chiamato i ricercatori-, in cui funghi e batteri scambiano nutrienti con le piante, in cambio di carbonio. Un lavoro che richiede molto tempo dedicato a misurare gli alberi, marcarli, riconoscerli -nelle foreste della Tanzania, “in un solo plot di 100 metri quadri ci sono circa 600 alberi, tra 20 e 40 specie diverse”, dice Rovero-, prelevare i campioni per poi fare un erbario con la consulenza di un esperto e quindi inserire queste informazioni in una banca dati, su cui condurre le analisi. Un lento lavoro che deve essere svolto, nella giusta stagione, direttamente sul campo. “Abbiamo a disposizione le tecnologie più avanzate -riflette Rovero-, ma la precisione dei dati raccolti a terra non è paragonabile a quella dei satelliti, grazie ai quali possiamo osservare la copertura della foresta, l’altezza degli alberi e farci un’idea della complessità”. Ma per poter dare un nome alle specie -come la “Milicia excelsa, chiamata localmente Iroko, che ha un legno duro largamente esportato per farne parquet e mobili pregiati”, racconta- bisogna essere sul campo, in mezzo agli alberi.

La ricerca nella foresta di Udzungwa è stata un’occasione per raccogliere dati sistematici anche da ecosistemi meno studiati. Quelli usati oggi dai ricercatori per lo studio delle foreste tropicali, infatti, vengono soprattutto dall’emisfero boreale – © Francesco Rovero

E così hanno fatto centinaia di altri ricercatori a diverse latitudini, fino a creare un database su cui la Stanford University -in collaborazione con la rete internazionale “Global Forest Biodiversity Initiative, nata nel 2015- ha coordinato la ricerca e generato delle mappe che rendono visibili queste relazioni sotterranee nelle foreste del mondo e spiegano in che modo i cambiamenti climatici potrebbero mutarle. Il gruppo di ricerca, infatti, “ha usato i dati delle mappe per predire come le simbiosi potrebbero cambiare entro il 2070 se le attuali emissioni di carbonio continuassero inalterate”, spiegano i ricercatori del Museo delle Scienze di Trento. Uno scenario che “comporterebbe una riduzione del 10% nella biomassa delle specie di alberi associati con un particolare tipo di funghi che si trova primariamente nelle regioni fredde del Pianeta”. La ricerca è stata l’occasione per raccogliere dati sistematici anche dagli ecosistemi meno studiati, come le foreste tropicali di cui si occupa Francesco Rovero, su cui finora i dati erano “drammaticamente scarsi e frammentati”. “I dati globali su cui studiamo le foreste provengono per lo più dall’emisfero boreale, dove c’è una lunga tradizione di studi e la ricerca è più semplice -spiega-. In confronto, i rilievi forestali in aree tropicali sono dei ‘puntini’: qui ci sono meno progetti di ricerca e abbiamo a disposizione pochi dati confrontabili”. Anche per questo il contributo dalle foreste dei monti Udzungwa -un contesto ricco di biodiversità e specie endemiche dove il Muse conduce ricerche da molti anni- è unico nel suo genere. “Il bioma della foresta tropicale è il più importante per la biodiversità e le specie presenti, e quindi per le conseguenti funzioni di assorbimento della CO2 -spiega il ricercatore-. D’altra parte queste sono le foreste più erose del Pianeta e costantemente minacciate: non solo nelle zone non controllate, ma anche in alcune aree protette, le comunità cacciano e causano degrado delle foreste mentre le multinazionali coltivano intensivamente o estraggono legname, causando l’erosione e il frazionamento degli habitat naturali”.

“Il bioma della foresta tropicale è il più importante per la biodiversità e le specie presenti, e quindi per le funzioni di assorbimento della CO2” – Francesco Rovero

Anche il professor Filippo Bussotti del dipartimento di Scienze e tecnologie agrarie, ambientali e forestali dell’Università degli Studi di Firenze, conferma che, su scala globale, “la perdita della biodiversità forestale avviene in gran parte nelle zone tropicali, per un cambio nell’uso del suolo”. Bussotti ha contribuito alla ricerca sulla biodiversità forestale nell’ambito del settimo Programma Quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, con l’Università di Friburgo e altri quattro Paesi europei. Con la sua squadra, Bussotti ha raccolto dati nelle colline metallifere della Toscana meridionale, in una fascia di transizione tra la macchia mediterranea e quella continentale, dove si trovano le foreste decidue. “Qui abbiamo scelto di studiare la presenza di cinque specie -roverella, cerro, leccio, carpino e castagno- e indagarne i suoli, la flora erbacea e il bilancio idrico”, spiega. Con l’obiettivo finale di osservare in che modo la diversità forestale influisce sulla funzionalità dell’ecosistema. “Le ricerche condotte in diverse zone ci confermano che la presenza di tante, diverse specie vegetali è garanzia di una migliore funzionalità”, spiega. “Nel nostro piccolo -aggiunge il professore-, possiamo osservare con l’innalzamento delle temperature dei cambiamenti nella distribuzione delle specie arboree: in questo senso non è detto che ci sia una perdita, ma c’è uno spostamento e una redistribuzione della biodiversità. Ma in zone dove la diversità delle specie è già ridotta, come in Italia, il loro spostamento in risposta a un’alterazione del clima può causare altri problemi, per esempio nella gestione del taglio del bosco”. E anche dove esistono delle leggi che tutelano questi ecosistemi, “la manodopera non ha una preparazione tale da concretizzare una difesa reale”, sottolinea Bussotti.

Un campionamento fogliare con tree climbers nelle foreste decidue sulle colline metallifere della Toscana meridionale, in una fascia di transizione tra la macchia mediterranea e quella continentale – © Filippo Bussotti

Sia che si tratti delle foreste italiane, che di quelle africane, il pregio dei dati raccolti dalla ricerca coordinata dalla Stanford University è proprio poterli confrontare e mettere a sistema in un’ottica globale. La metodologia innovativa adottata nella ricerca, infatti, ha saputo connettere i programmi di ricerca di diverse università, musei e fondazioni: un caso virtuoso piuttosto raro, come spiega anche Bussotti. “Spesso i ricercatori lavorano ancora in modo isolato e raramente condividono le proprie analisi con i colleghi. Questa ricerca ha invece avuto il pregio di connettere i dati raccolti da tanti studiosi, proponendo un cambio di prospettiva importante che ci ha portati ad avere a disposizione, per usare un termine attuale, dei big data sugli ecosistemi forestali”. Per creare queste grandi raccolte di dati “sono necessarie regole condivise e ben definite, per garantirne la comparabilità e la condivisione”, aggiunge Bussotti. “Ma la collaborazione tra realtà che si occupano dello stesso ambito di ricerca è fondamentale e deve essere quotidiana: non è più possibile lavorare in maniera isolata. Le sfide su cui ci interroghiamo, infatti, sono globali ed è necessario creare reti internazionali di conoscenza sempre più diffuse”. Ora l’Università di Firenze è al lavoro per studiare gli effetti delle condizioni climatiche estreme sulle foreste, come nel caso delle forti siccità che ci sono state in Toscana nel 2017, e la reazione degli ecosistemi a questi fenomeni. “È un problema crescente nei Paesi mediterranei, ma che va osservato nel lungo periodo, nell’arco di 10 o 20 anni -spiega-. Nel nostro Paese sono fenomeni ancora rari, ma quando la ricorrenza aumenta viene superata la resilienza della foresta. Il nostro obiettivo è capire qual è questo limite, superato il quale i danni sono irreversibili, per evitare che questo accada”, conclude. 

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