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Malati di pubblicità

Il mercato delle inserzioni a pagamento preoccupa i media italiani più delle vendite in edicola. Intanto, chi acquista gli spazi è sempre più “editore occulto”

Tratto da Altreconomia 131 — Ottobre 2011

Il prodotto interno lordo stagnante è una brutta notizia per i mezzi d’informazione italiani.
Non solo perché quando non cresce se ne parla con parole preoccupate, ma anche perché da esso dipende il fatturato delle aziende editoriali. Ai primi di settembre Nielsen, la più importante società di consulenza pubblicitaria, ha reso noto un calo del 4,2% degli investimenti complessivi nel primo semestre del 2011 rispetto all’anno scorso. “Gli eventi di questa estate -hanno scritto gli analisti-, che hanno portato Osce e Fondo monetario a rivedere al ribasso le precedenti stime di crescita del Pil, freneranno molto probabilmente anche la ripresa del mercato pubblicitario auspicata per la seconda parte dell’anno”. Gli editori sono in allarme e le concessionarie di pubblicità dei mezzi di informazione sempre più sotto pressione. L’andamento del mercato pubblicitario preoccupa più delle vendite: è la benzina dell’informazione italiana. Secondo i dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), nel 2010 la “raccolta” è cresciuta del 2,7%, raggiungendo la cifra record di oltre 9,6 miliardi di euro.
Nel mezzo della crisi, che colpisce soprattutto l’editoria cartacea e l’intero settore della comunicazione pubblicitaria, è la voce più cospicua del fatturato dei media in Italia. Per la televisione copre una fetta pari al 48% dei ricavi -ma per Mediaset è più del 75%-, per la radio addirittura l’80,7%, per l’editoria il 45,8% (il 50% per i quotidiani). Su internet gli investimenti pubblicitari crescono a tassi record, il 22% nel 2010, ma devono scontare in Italia una forte arretratezza e molte diffidenze rispetto ad altri Paesi.
La pubblicità è un “azionista di maggioranza” ingombrante capace di dettare sempre di più le agende dell’informazione e di condizionarne i contenuti e l’autonomia tramite un’industria di comunicatori sempre in attività. Si stima che in Italia ci siano dai 20mila ai 50mila addetti alle pubbliche relazioni a servizio delle imprese, che dedicano ogni giorno il loro tempo a intrattenere rapporti con i giornalisti. I quali, costantemente sotto pressione, con i tempi di lavoro stretti e inondati di informazioni, si affidano ai pacchetti di notizie che arrivano dalle aziende e ne verificano sempre meno la veridicità e la rilevanza. Il risultato di questo fermento -che nel 2007 è costato più di due miliardi di euro di spese in attività di pubbliche relazioni, circa lo 0,15% del Pil- è sotto gli occhi di tutti: tolta la cronaca politica, lo spazio dedicato alle notizie del giorno, alle inchieste e agli approfondimenti è sempre più contratto e la gran parte delle notizie, ad uno sguardo critico è ben identificabile, arrivano da soggetti privati che hanno l’interesse a diffonderle. Diverse ricerche in ambito universitario hanno quantificato che il 60% delle notizie che vengono pubblicate provengono dall’attività di pubbliche relazioni messa in campo da aziende ed organizzazioni. A canalizzarle è spesso proprio l’investimento pubblicitario, come racconta un’originale ricerca svolta presso l’Università di Milano da Riccardo Puglisi e Marco Gambaro, intitolata “Who Ads Buy?” (Cosa compra la pubblicità?). I risultati sono sorprendenti perché “misurano” il fenomeno con dati alla mano. Analizzando tredici società medio-grandi quotate in Borsa e sei quotidiani italiani, Gambaro e Puglisi hanno scoperto che esiste “un legame positivo e significativo tra la pubblicità e la copertura mediatica”.
E lo hanno anche quantificato: ogni 50mila euro spesi in pubblicità le imprese guadagnano “gratuitamente”, in media, 13 articoli in più ogni mese. I dati che i ricercatori hanno messo sotto osservazione e incrociato sono la spesa delle 13 imprese (Campari, Edison, Enel, Eni, Fiat, Finmeccanica, Geox, Indesit, Luxottica, Mediolanum, Telecom Italia, Tiscali e Tod’s), la cadenza dei loro acquisti pubblicitari e delle conferenze stampa che organizzano, il numero di articoli in cui si parla di questi gruppi nei 6 quotidiani (Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Resto del Carlino, il Mattino di Padova e il Tirreno). Lo studio mette nero su bianco una tendenza che analisti e giornalisti rilevano da molto tempo e criticano come una delle cause principali del cattivo stato di salute dell’informazione italiana. “Abbiamo notato -spiega Riccardo Puglisi- una correlazione positiva, pur nella diversità dei giornali analizzati, fra copertura mediatica e pubblicità acquistata. L’idea sottostante è che in questi articoli non si parli in maniera negativa delle imprese, anche se questo aspetto non è stato ancora oggetto di studi approfonditi. I dati sono chiari e possiamo proporre due diverse interpretazioni di questo fenomeno: una è ‘benigna’, e parla di una specie di ‘effetto riflettore’ della pubblicità. Un’impresa che compare sovente sulle pagine, cioè, diventa più familiare al giornalista che è più incline a scrivere di una cosa che conosce. Dall’altra parte avanziamo anche un’interpretazione più ‘maliziosa’: la pubblicità non solo compra spazi pubblicitari, ma in maniera implicita rende più facile che il giornale parli dell’impresa. In pratica la catena del comando nelle redazioni, dal direttore ai giornalisti, sarebbe più invogliata a parlarne”.
Le aziende comprano pubblicità attraverso un canale e comunicano alacremente tramite un altro. Nell’arco temporale della ricerca, 2006-2007, Eni e Telecom hanno inviato 200 comunicati ai giornali con le relative campagne pubblicitarie contestuali, mentre Fiat ed Enel sono riuscite ad ottenere rispettivamente 19mila e 16mila articoli. “Esiste una sorta di ‘giornalismo di relazione’ -aggiunge Puglisi-, facilitato dal fatto che il costo di acquisire informazioni da imprese che si conoscono è più basso. Questo implica però una conseguenza: arrivando dalle imprese, è più facile che l’informazione sia partigiana, e che ciò favorisca un minor risalto per le notizie negative che riguardano tale impresa. È un problema di etica professionale e di responsabilità non direttamente sanzionata”.
L’influenza della pubblicità sull’informazione rimane comunque un’arma a doppio taglio. “Negli Stati Uniti d’America -spiega ancora Puglisi- la pubblicità ha storicamente svolto un ruolo importante nell’affermazione dell’economia di mercato e anche nella crescita dei media, nonché nel processo tramite il quale i media si sono resi indipendenti dal potere politico. Tutti gli aspetti sono connessi e alcuni circoli che paiono viziosi potrebbero anche essere virtuosi. In altre parole, la pubblicità si dirige verso i media che hanno maggiori lettori e fiducia, ma se c’è troppa influenza della pubblicità sui contenuti, il mezzo di informazione in questione può perdere la fiducia dei lettori e il meccanismo si può ‘avvitare’. D’altra parte, un giornale più credibile e con maggiore seguito avrà più vendite e maggiori introiti pubblicitari”.

Più pubblicità da alimentari e auto
Scorrendo i dati sui settori economici che investono in pubblicità si può ben capire quanto potere abbiano le aziende di influenzare l’informazione, anche facendo pressione per “rimuovere” notizie scomode. Quelli che pesano di più si contano sulle dita di poche mani: 50 inserzionisti (su oltre 16mila che comprano spazi nazionali) detengono il 40% del budget per la spesa pubblicitaria. Secondo i dati del rapporto 2011 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), un quarto di questa spesa è da ricondurre a due settori merceologici: gli alimentari e le automobili. Se consideriamo anche gli altri 4 settori più rilevanti (telecomunicazioni, abbigliamento, bevande/alcolici e media/editoria) si scopre che concentrano la metà degli investimenti di un mercato iniquo che assicura grandi ricavi alla televisione (più del 44% sul totale), che raggiunge un pubblico più vasto, e sempre meno all’editoria. L’unico segno negativo del 2010 rispetto al 2009 è infatti relativo ai giornali, che hanno visto una riduzione delle inserzioni di 74 milioni di euro (-2,6%). Secondo la Federazione italiana degli editori, i ricavi pubblicitari dei giornali sono diminuiti di un miliardo di euro dal 2008 al 2009 e il trend è negativo. In forte ascesa è invece il mercato pubblicitario su internet, che nel 2011 supererà il miliardo di euro e cresce grazie a investitori che tramite il web raggiungono bene i propri “target”: i servizi professionali, la fotografia e l’informatica, il tempo libero, la finanza e le assicurazioni.

Il gestore occulto
Una delle anomalie italiane è che la filiera pubblicitaria, il cui prodotto finale influenza e “tartassa” ogni giorno tutti i cittadini, vede il ruolo centrale di attori quasi sconosciuti, che concentrano su di sé gran parte dei servizi di intermediazione e non solo. Solo una minima quota degli spazi pubblicitari (l’Agcom stima dal 20 al 30%) viene acquistata dagli inserzionisti direttamente presso le concessionarie pubblicitarie dei media, mentre la fetta più cospicua è controllata dai “centri media”. Poche società in un mercato molto concentrato, semisconociute e per lo più transnazionali -basti ricordare che solo cinque di esse  gestiscono il 60% della comunicazione pubblicitaria mondiale-, che svolgono attività di pianificazione e di acquisto, sostituendo l’operato dei reparti media delle agenzie di pubblicità, cui rimane il compito di progettazione e realizzazione della campagna creativa. In Italia operano 6 gruppi societari internazionali (Aegis, Havas, Interpublic, WPP, Publicis, Omnicom) che afferiscono ad un network societario internazionale. Accanto a questi grandi gruppi esistono altri più piccoli centri media italiani indipendenti come Media Italia (Gruppo Armando Testa) e altri società come Piano! srl, OC&M Media e Communicazione srl, Strategy & Media Group, InMedia to srl, Waycomm srl, Waymedia srl, Fullsix spa. Il ruolo dei centri media -sviluppatisi negli anni 70 con la funzione di amministrare più clienti di diverse agenzie- è gestire il budget pubblicitario dell’inserzionista, selezionando la strategia di comunicazione e offrendo un “pacchetto” di servizi: la definizione della strategia media e del piano media ottimale -vale a dire la distribuzione degli investimenti fra le diverse piattaforme-; l’attività operativa che riguarda la negoziazione e l’acquisto degli spazi pubblicitari; la gestione amministrativa delle fatture, nel caso in cui siano intestate direttamente al centro media oppure la verifica della rispondenza fra spazi richiesti e spazi effettivamente resi disponibili dalla concessionaria quando le fatture sono intestate al cliente; il controllo ex post della effettiva realizzazione e dell’efficacia della campana pubblicitaria. Il centro media svolge anche una funzione di aggregatore della domanda da parte degli inserzionisti nei confronti delle concessionarie di pubblicità.

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