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Economia

Macchinine in testacoda – Ae 67

Proprio sotto Natale finisce la storia di Bburago, l’azienda “made in Brianza” delle mitiche automobiline, riproduzioni perfette delle quattroruote più famose. Una storia tutta italiana di debiti, errori di gestione, beghe familiari ma anche di delocalizzazione e dell’immancabile concorrenza “made…

Tratto da Altreconomia 67 — Dicembre 2005

Proprio sotto Natale finisce la storia di Bburago, l’azienda “made in Brianza” delle mitiche automobiline, riproduzioni perfette delle quattroruote più famose.
Una storia tutta italiana di debiti, errori di gestione, beghe familiari ma anche di delocalizzazione

e dell’immancabile concorrenza “made in China”

“Spedizione. Chargement. Goods out. Abholung”. È fin troppo silenziosa, vista da fuori, la sede di quest’azienda in stand by, sull’orlo di un abisso di cui, per ora, non si distingue il fondo. È deserto il piazzale riservato al carico merci, meta dei Tir che, ancora pochi mesi fa, da mezza Europa arrivavano qui -estremo lembo di Brianza a una trentina di chilometri da Milano- a ritirare bancali di automobiline colorate che, fedeli anche nei dettagli agli originali, avrebbero invaso i negozi di giocattoli in tutto il mondo.

È fallita a ottobre Bburago, uno dei leader incontrastati del settore, marchio che ha sfornato sogni a quattroruote per l’infanzia e l’immaginario collettivo degli ultimi trent’anni. È caduta dall’Olimpo dei balocchi travolta da debiti, errori di gestione, dalla concorrenza a basso prezzo dell’inevitabile made in China, e anche, raccontano, da beghe familiari.

Sì, perché Bburago -che oggi si chiama, in realtà, Industria briantea giocattoli (Ibg)-, capofila di un gruppo di 11 aziende, con uffici commerciali in Francia, Germania e Stati Uniti, ecco, questa Bburago, è in realtà un esempio tipico di azienda nel più puro “Brianza-style”: conduzione familiare e zero sindacati. Mario Besana la fonda nel 1974 come Martoys e si converte al più famoso logo appena due anni più tardi prendendo in prestito il nome dal paese in cui ha sede lo stabilimento: Burago di Molgora. Ancora oggi sono gli stessi Besana a gestire l’azienda insieme con le 10 “sorelle”, nate nel tempo. Una realtà produttiva in gran parte italiana che, a breve, potrebbe sparire o mutare del tutto fisionomia, e un’organizzazione del lavoro insolita -che Massimo Rovelli di Cgil Brianza non esita a definire “una follia”- composta da realtà aziendali diverse tra loro ma inscindibili, dal momento che ognuna si occupa soltanto di una parte del processo produttivo. Una struttura complessa e intricata, com’è la storia recente del gruppo, con l’unico vantaggio apparente di avere -8 aziende su 11- meno di 15 dipendenti, che risultano così meno tutelati sul fronte sindacale.

Gli affari per Bburago giravano male da tempo. Per una serie di motivi: l’invasione di macchinine a basso costo prodotte dai concorrenti (di qualità inferiore, d’accordo, questo te lo raccontano tutti, ma un bambino non va poi tanto per il sottile), la decisione di non puntare esclusivamente sul collezionismo, anche se i suoi modelli avrebbero avuto i numeri per farlo, la decisione di non produrre giocattoli di altro tipo, elettronici per esempio: “I gusti dei bambini sono cambiati”, considera Cristiano Poponcini, uno dei curatori fallimentari che ha oggi in mano l’azienda per conto del Tribunale. Da non sottovalutare la rottura -a favore della rivale Mattel- dell’accordo con la Ferrari per la riproduzione delle sue fuoriserie: “Una licenza che, da sola -dice Poponcini- garantiva il 30-33% del suo fatturato”. E certo non hanno aiutato i dissidi tra i due fratelli Paolo e Marco Besana. A loro il cavalier Besana (il fondatore, che in paese tutti chiamano semplicemente così da quando, nel 1994, gli venne conferita l’onorificenza) ritirandosi a vita privata aveva lasciato Bburago, pur mantenendo la carica di presidente. Divisione salomonica: a Paolo gli immobili, cioè le sedi delle aziende, a Marco l’attività e il marchio. E oggi, tra i debiti che sommergono Bburago, Marco Besana risulta anche moroso nei confronti del fratello.

Per reperire fondi, a luglio dell’anno scorso, proprio il glorioso marchio e azioni delle varie società sono stati dati in pegno a un gruppo di banche (Unicredit Banca d’Impresa, Banca Intesa, Banca nazionale del lavoro, San Paolo Imi, Monte dei Paschi di Siena, Popolare di Milano, Popolare di Novara e Verona), ottenendo 23,5 milioni di euro tra finanziamenti diretti (7 milioni) e conversione di fidi preesistenti da breve a medio termine. Ma evidentemente l’iniezione di liquidi non è bastata, anzi, è andata ad aggravare i conti di Bburago (a proposito dei quali la Procura ha aperto di recente un fascicolo con l’ipotesi di falso in bilancio).

La discesa lungo la china, come spesso accade  in questi casi, è stata rapidissima: lo scorso giugno Bburago è stata messa in liquidazione e a luglio la proprietà ha e ottenuto dal Tribunale competente, quello di Monza, il concordato preventivo: una procedura che permette di evitare il fallimento nel caso in cui si riesca a dimostrare di poter pagare i creditori. In questo caso l’ipotesi era quella di trovare un acquirente e un mese dopo è “spuntata” la Techtoys, una srl fondata ad hoc con un capitale sociale iniziale di appena 10 mila euro (poi ricapitalizzata) cui sono state date le aziende del gruppo in comodato d’uso fino al 21 novembre. Questo ha permesso di sfoltire il personale, ridotto a un terzo, e di mantenere l’attività a livelli minimi per non far perdere valore all’azienda. Paolo Vailetti, amministratore unico di Techtoys, ha sempre dichiarato di agire per conto di investitori inglesi, senza mai scoprire davvero le carte, e molti hanno voluto vedere dietro di lui gli stessi Besana. Techtoys ha presentato un’offerta da 20 milioni di euro per rilevare l’azienda, ma l’ha poi ritirata, costringendo così il Tribunale a indire un’asta di vendita con una base di 21,5 milioni di euro. Ma non sono arrivate offerte e l’azienda ha dovuto dichiarare fallimento. La prima asta fallimentare, deserta anch’essa, è andata in scena il 17 novembre. Intanto il prezzo del gruppo (che si cerca di vendere in blocco per garantirne la sopravvivenza) sta scendendo e, se nessuno dovesse farsi avanti, si rischia lo smembramento.

In tutto questo, quello che conta, quello può far davvero gola a eventuali pretendenti, non è tanto l’azienda quanto il marchio, che da solo è stato valutato 3,7 milioni di euro. E allora il futuro, incerto per definizione, questa volta potrebbe non essere così difficile da prevedere: nulla vieta a una Mattel o a una Smoby Majorette di turno -per dire- di comprare Bburago (o una sua parte), di vendere i macchinari (mantenendo però i preziosi stampi), licenziare i dipendenti superstiti e spostare la produzione in Asia. O forse no, forse questa è solo un’ipotesi campata per aria. Forse c’è ancora una speranza per Bburago, perché le operazioni per portarla dall’altra parte del mondo sono troppo complicate.

Massimo Rovelli, sindacalista Cgil, alza le sopracciglia: “In realtà -dice- non più di tanto”.

Un nome, 11 società, milioni di debiti

Un nome conosciuto in tutto il mondo, quello di Bburago, ma partito dalla provincia. All’inizio soltanto un capannone perso nella provincia milanese, oggi un sistema di aziende indivisibili.

Le 11 società del gruppo, con sedi sparse nel territorio circostante a una manciata di chilometri l’una dell’altra, non possono sopravvivere se non insieme a tutte le altre, ognuna singolo anello della stessa catena: a livello operativo Ibg è la società principale, con attività di produzione, movimentazione merci e spedizione, Img (già Polistil) svolge attività commerciale, Micropress e Ibr si occupano dello “stampaggio in pressofusione” dei componenti metallici delle automobiline, Texta stampa i pezzi in plastica, Sipa sforna gli stampi, Agb (l’unica a lavorare anche per clienti esterni) realizza le confezioni, i depliant pubblicitari e i cataloghi, Mmonza confeziona i modelli e li imballa, Cama “fornisce supporto logistico”.

Il tutto controllato dalle due holding Bemafin (la capogruppo) e Ifem.

Ed esiste anche una società ungherese,

la Momocar Kft, per l’assemblaggio dei pezzi.

I dipendenti complessivi, fino a pochi mesi fa, erano 130 (ma erano stati anche 200 nei periodi di maggiore sviluppo), ma sono stati ridotti a un terzo con il concordato preventivo, 31 licenziati all’inizio di settembre (con un incentivo di 10 mila euro a testa) e altri 41 in cassa integrazione straordinaria. Oggi il gruppo ha debiti tra i  50 e i 100 milioni di euro (le autorità ne stanno accertando l’entità).

Di Bburago è ancora attivo il sito, se volete farvi un’idea sulle fasi di produzione delle automobiline:
www.bburago.com

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