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Lotta alla fame, cosa abbiamo sbagliato – Ae 28

Numero 28, maggio 2002La “Dichiarazione di Roma” sottoscritta dopo lo scorso vertice della Fao (1996) iniziava con un solenne impegno dei governi: “Riaffermiamo il diritto di ciascuno ad avere accesso a cibo sano e nutriente, in coerenza con il diritto…

Tratto da Altreconomia 28 — Maggio 2002

Numero 28, maggio 2002

La “Dichiarazione di Roma” sottoscritta dopo lo scorso vertice della Fao (1996) iniziava con un solenne impegno dei governi: “Riaffermiamo il diritto di ciascuno ad avere accesso a cibo sano e nutriente, in coerenza con il diritto a un'alimentazione adeguata e con il diritto fondamentale di ciascuno a essere libero dalla fame”. “Riaffermiamo”: poiché il diritto a non morire di fame è già sancito da convenzioni internazionali come quella sui diritti economici, sociali e culturali del 1966. Ma perfino un diritto così ovvio appare ad alcuni scomodo. Perché comporta dei corrispondenti doveri. Così gli Stati Uniti, che non hanno firmato la Convenzione del 1966, al Summit del 1996 hanno detto: “il diritto al cibo va interpretato nel senso di obiettivo o aspirazione, da realizzare progressivamente e che non dà luogo a obblighi internazionali”. Contro quest'ipotesi di un diritto “senza denti”, oltre 800 organizzazioni non governative, su impulso di Fian (www.fian.org), hanno proposto, oltre a una convenzione sulla sicurezza alimentare, un Codice di condotta sul diritto all'alimentazione adeguata. Per sancire i corrispondenti obblighi degli Stati; alcuni dei quali (Cuba, Venezuela, Cile, Germania, Norvegia, Svizzera) sosterranno l'idea il prossimo giugno a Roma durante il Vertice mondiale sull'alimentazione organizzato dalla Fao.

Cos'è per voi il terrore?”. Una coltivatrice del Sahel, un senzaterra brasiliano, un olivicoltore palestinese, un contadino afghano, un'indigena nepalese, un senzatetto metropolitano risponderanno: “Non sapere se mangeremo domani “. E la sicurezza? “Non morire di fame”. Grandi numeri, gli 800 milioni di affamati del pianeta. Eppure, questo terrore e questa sicurezza sembrano l'ultimo pensiero dei grandi.

Giugno 2002: si tiene, finalmente, il “World Food Summit, 5 anni dopo”, della Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), programmato per l'autunno 2001 e poi rimandato a causa dell'emergenza terrorismo. I governi si chineranno sulla “Dichiarazione sulla sicurezza alimentare” e sul relativo “Piano d'azione” che decisero cinque anni e mezzo fa a Roma. Dove giurarono di sradicare la fame dal mondo e di dimezzare entro il 2015 il numero degli affamati, allora stimati in 840 milioni di bambini, donne, uomini. Movimenti di contadini e organizzazioni non governative giudicarono allora “molto moderato” quell'obiettivo. E il presidente cubano Fidel Castro disse: “Tanto vale dirci contenti di 400 milioni di affamati per decenni ancora!”.

Cosa succederà nelle sale della Fao a giugno? Cambiamenti nelle linee guida paiono difficili, mentre il documento preparatorio suggerisce solo alcuni elementi di discussione. Esempio: i governi del Sud si sono impegnati in conflitti affamanti e/o hanno perseguito politiche neoliberiste di crescita economica e tagli di bilancio. Occorre una riforma nel senso di investimenti per il miglioramento della sicurezza alimentare comunitaria e del reddito rurale, anche sugli aggiustamenti strutturali imposti dagli organismi internazionali. E i Paesi “donatori” hanno avuto un impatto negativo che andrà discusso: hanno elargito poco o nulla, hanno separato la lotta alla povertà da quella -non condotta- per la sicurezza alimentare. Il documento suggerisce al Nord del mondo di spendere di più in cooperazione, di incentivare il trasferimento a Sud di tecnologie adatte alle zone rurali, di favorire gli investimenti diretti, di smetterla con il dumping (riduzione del prezzo all'esportazione al di sotto del prezzo praticato per lo stesso prodotto nel mercato interno) e di aprire i propri mercati ai prodotti agricoli del Sud. Il programma provvisorio accenna solo a tre tavole rotonde (su “risultati ottenuti, ostacoli incontrati e mezzi per superarli”) e ad assemblee plenarie di dibattito tra i capi delegazione. Per quest'anno è prevista la presenza di un numero maggiore di capi di Stato rispetto al 1996, e la partecipazione di Kofi Annan.

Intanto, come sta andando l'obiettivo del dimezzamento? Il numero degli affamati è diminuito, ma anche tenendo conto dell'accrescimento demografico mondiale costituiscono ancora uno scandalo per l'umanità. Oggi sono 826 milioni (di cui 792 nei Paesi in via di sviluppo): di questo passo la meta della metà sarà raggiunta in 100 anni.

Mantenere gli impegni non è il forte dei governi né dell'Onu. Nel 1971, alla Conferenza mondiale sulla nutrizione, Henry Kissinger dichiarò: “Entro dieci anni nessun uomo, donna o bambino andrà a dormire affamato”. Perché da allora questo rosario doloroso di fallimenti? Il Comitato per la sicurezza alimentare della Fao parla di “mancanza di volontà politica e di risorse finanziarie”. “Però”, dubita Michael Windfurhm, autore di uno dei documenti preparatori del Forum parallelo della società civile mondiale, “investire più fondi nello stesso modello di sviluppo agricolo non cancellerà la fame dal mondo”. Parte dei vizi, quindi, stanno nel manico: nelle diagnosi e negli impegni di 5 anni fa.

Riconosce la Dichiarazione di Roma: “La disponibilità mondiale di alimenti è aumentata, ma l'accesso al cibo conosce molti limiti, come l'insufficienza dei redditi familiari e nazionali, l'instabilità dell'offerta e della domanda, e poi disastri naturali o provocati dagli umani”; dunque “la povertà è la maggior causa dell'insicurezza alimentare a livello individuale, nazionale e internazionale; vi si aggiungono i conflitti, la corruzione, il terrorismo e il degrado ambientale”. La Dichiarazione parla perfino della necessità di “eliminare i modelli di consumo e produzione insostenibili, soprattutto nei Paesi industrializzati”.

Peccato che gli impegni del 1996 contengano grosse contraddizioni. Per prima la fede nelle forze del mercato e del commercio internazionale. Per le multinazionali dell'agrobusiness il cibo è una merce ed è legittima l'invasione di derrate a basso prezzo prodotte in modo insostenibile nei mercati del Sud del mondo, a scapito dei produttori locali.

Ma i governi hanno lasciato cadere anche diverse parti “buone” della Dichiarazione e del Piano d'azione. “Equo accesso alle risorse produttive -terra, acqua, credito- così da massimizzare il reddito dei poveri”? Il Venezuela ha scelto la riforma agraria e ha rischiato un golpe; gli altri provano invece il “mercato della terra” e ogni sorta di privatizzazione. “Investimenti per l'agricoltura sostenibile e il mondo rurale”? Debito estero, programmi di aggiustamento strutturale, corruzione governativa certo non aiutano a dirottare fondi ed energie verso i coltivatori perché lavorino meglio, con meno fatica e con più sicurezza. “Produrre qui e ora” per “nutrire tutti in modo socialmente ed ecologicamente compatibile”, con un uso ottimale delle risorse naturali? Ma sono in pieno boom gli alimenti prodotti lontano, insostenibili nel modello produttivo e insalubri nel risultato finale, oltre che irrispettosi delle tradizioni alimentari. “Pace durevole”? I Paesi africani più ricchi continuano a essere dilaniati da conflitti e quindi colmi di affamati.

“Sicurezza alimentare comunitaria e programmi di nutrizione”? Forse, giusto qualche mensa in più nelle scuole… “Rifiuto delle guerre e dell'arma alimentare”? Sulla testa dei contadini più disgraziati piovono bombe addobbate da pacchi di aiuti alimentari; milioni di persone sono sotto sanzioni devastanti; milioni di altre sono affamate da occupazioni tollerate. “Politiche commerciali eque e favorevoli alla sicurezza alimentare”? Le sovvenzioni all'esportazione caratterizzano la politica dell'Unione Europea; per non dir degli Usa.

Non sembra per domani, ad esempio, la riforma della Pac (Politica agricola comunitaria) verso l'autosufficienza, la vocazione al mercato interno e la solidarietà con il Sud.

Per Antonio Onorati, dell'associazione Crocevia e coordinatore del Comitato internazionale di preparazione del Forum della società civile, forse il risultato meno trascurabile sarà “l'idea di un'Alleanza globale contro la malnutrizione proposta dal governo tedesco, chiamando i governi a una maggiore e concreta responsabilità politica e finanziaria”. A proposito: l'Italia ha stanziato in favore della Fao circa 50 milioni di Euro, per farsi perdonare diverse défaillances; i piani di spesa vanno ancora definiti.!!pagebreak!!

Via Campesina, globalizziamo la speranza
I tre quarti degli affamati sono contadini: senza terra, marginali, negletti dai governi, boicottati dalle multinazionali, sfavoriti dal clima. Il protagonismo contadino è la base per la riscossa, e molti contadini parteciperanno a Roma al Forum sulla sovranità alimentare. Via Campesina, nata nel 1992 a Managua (Nicaragua), sede centrale in Honduras, è un movimento rurale internazionale che vuole “globalizzare la speranza”. Aderiscono il movimento Sem Terra del Brasile, coordinamenti di contadini e braccianti latinoamericani, l'associazione Winfa dei piccoli coltivatori caraibici protagonisti di una lotta contro il potere delle multinazionali bananiere, movimenti asiatici di massa come il filippino Kmp e l'indiano Krrs in guerra con Monsanto e le catene di fast food; ma anche la National Family Farm Coalition dei piccoli coltivatori statunitensi e i sindacati agricoli contadini riuniti nella Coordination Paysanne Européenne a cui aderisce il sindacato di José Bové.

Via Campesina riunisce piccoli e medi coltivatori, braccianti, donne, popoli indigeni che “lottano contro la globalizzazione e la fame, conseguenza del modello neoliberista, per ricostruire un movimento rurale forte e solidale”. Propone una campagna contro le importazioni ed esportazioni a prezzi sottocosto (grossi produttori multinazionali invadono i mercati del Sud del mondo con alimenti a prezzi stracciati, rovinando i produttori locali, mentre a Sud terre agricole sono sottratte ai piccoli coltivatori, e foreste sono azzerate per far posto all'export).

Via Campesina propone invece: “produzione locale per il consumo locale”, con alleanze produttori/ consumatori; compatibilità ambientale dell'agricoltura; riforme agrarie.

Carne, quando il mondo diventa una grande stalla
Secondo le stime dell'Istituto di ricerca agricola internazionale Ifpri, nel 2020 la domanda mondiale di carne sarà doppia rispetto al 1995; dunque, dovranno aumentare le stalle industriali. Una prospettiva ritenuta folle dall'Alleanza globale contro la fame (Gha: www.globalhunger.net), rete di 80 movimenti e associazioni da 30 Paesi, costituitasi nel 2001 contro l'avanzata globale degli allevamenti intensivi industriali. Le grosse imprese e le multinazionali del settore zootecnico amministrano disinvoltamente un viavai mondiale di animali vivi, carni e mangimi. L'Europa compra ogni anno, anche da Paesi “ricchi di affamati”, 50 milioni di tonnellate di mangimi: per produrli occorre una superficie pari a sette volte quella europea. La carne non combatte la fame, anzi. Un mondo come grande stalla e grande macello è insostenibile: troppo inquinante, troppo sprecone di acqua e di energia, e soprattutto, come si legge nel documento base della Gha: “Nel processo di conversione dagli alimenti vegetali (grano, mais, soia) agli alimenti animali si perdono il 90% delle proteine, il 99% dei carboidrati, il 100% delle fibre”. Un individuo a dieta occidentale -molto carnivora- consuma tante risorse quanto venti vegetariani.

Diversi governi incoraggiano l'espansione della zootecnia intensiva. “Vogliamo che i cinesi mangino carne bovina americana” ha detto il giovane Bush. La Gha sostiene: “Vogliamo che i cinesi e gli altri popoli del mondo, a Sud e a Nord, seguano le diete sane, bilanciate e prevalentemente vegetali che li hanno nutriti per secoli. La soluzione al problema della fame è basata sui vegetali, secondo la Global Hunger Alliance: “La coltivazione sostenibile di cereali, legumi, frutta e ortaggi per il consumo locale e regionale è la sola soluzione alla fame e alle deficienze alimentari”. Ma “i governi avranno la volontà politica di mettere questo obiettivo prima degli interessi dell'agribusiness?”.

Il Forum delle Ong: cibo come diritto
Se è alimentare, la sovranità non ha nulla di monarchico, anzi riassume proposte e richieste di democrazia dal basso: tanto che i governi non ne parlano; mentre sarà il focus del “Forum della società civile e delle organizzazioni non governative” (all'inglese: Cso/Ngo Forum) che si svolgerà a Roma dal 9 al 13 giugno (chiunque può entrare, nei pomeriggi dedicati ai seminari, accreditandosi (info: www. forumfoodsovereignity.org, oppure 06-39.37.77.64). E non sarà l'unico evento. I social forum italiani terranno un'assemblea nei giorni 7 e 8 giugno “per la sovranità alimentare, contro la guerra, la fame e la povertà”. E poi la marcia: l'8 giugno pomeriggio, per le strade di Roma, per il diritto al cibo.

Da oltre un anno un Comitato internazionale (Ipc) prepara il Forum. L'organizzazione è affidata al Comitato preparatore italiano cui aderiscono decine di sigle e che è anche incaricato di pungolare l'Unione Europea rispetto alla riforma della Pac (politica agricola comunitaria).

Al “Forum per la sovranità alimentare”, 601 delegati in rappresentanza soprattutto di produttori e movimenti del Sud del mondo discuteranno di strategie future e metteranno a punto un documento da presentare ai capi di stato all'apertura del Vertice (cui saranno presenti come osservatori). Il meccanismo, infatti, è “partecipativo”. La Fao copre le spese del Forum e ha permesso la partecipazione di movimenti e associazioni alle conferenze governative regionali in corso per preparare il Vertice di giugno. Il Forum non è un “controvertice”; ma ai governi darà battaglia, come è già successo nei forum regionali.

Le critiche, va bene. Ma le proposte? La sovranità alimentare anzitutto. Secondo la “Dichiarazione dell'Avana” (settembre 2001), “sovranità alimentare è il diritto dei Paesi a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di alimenti che garantiscano il diritto all'alimentazione per tutta la popolazione, sulla base della piccola e media produzione”. All'interno dei Paesi, i contadini dovrebbero essere sovrani nelle decisioni produttive e commerciali, oltre che sulle sementi che hanno sviluppato nei secoli e che adesso rischiano di dover cedere a mani multinazionali, per colpa del sistema “brevetto selvaggio”.

Sottolinea Steve Suppen, esperto di un istituto di ricerca non profit, “solo il 10% della produzione alimentare è commercializzato all'estero, mentre sono gli agricoltori di sussistenza a garantire il grosso della sicurezza alimentare nei Paesi poveri, spesso senza crediti né sussidi. Allora perché la politica agricola è sempre più affidata a chi si occupa di commercio agricolo globale?”. Una domanda che si pongono anche i piccoli coltivatori europei, eliminati a decine ogni minuto -spiega la Coordination Paysanne Européenne (Cpe)- da una politica che sostiene con denaro sonante l'import-export dei grossi produttori anziché la produzione per l'autosufficienza nazionale o comunitaria da parte di medi e piccoli.

Via Campesina afferma che “i prezzi degli alimenti, nei mercati nazionali e internazionali debbono riflettere il vero costo di produzione”, compreso quello ecologico e sociale. Così i cibi dell'agricoltura industriale, soprattutto se di origine animale, sarebbero costosissimi e invendibili! E il commercio internazionale, anziché free, cioè libero e senza regole, sarebbe fair, cioè equo.

Invece, sia l'Organizzazione mondiale del commercio che le politiche di Unione Europea, Stati Uniti e colossi agroalimentari non hanno affatto l'obiettivo della sicurezza alimentare -e nemmeno della salubrità degli alimenti- e impediscono le politiche di autosufficienza alimentare a Sud (e anche a casa propria) favorendo, con sussidi e incentivi pubblici, il dumping: esportazioni sottocosto “rovina-contadini-poveri”. I movimenti, quindi, propongono con la sovranità un modo diverso di garantire la sicurezza; anche nelle emergenze, costituendo riserve regionali di derrate di base.

“Vogliamo farla finita con la fame? La strategia dunque è: sovranità alimentare, cibo come diritto umano, modelli alternativi di agricoltura”, propone e ammonisce il documento preparatorio di base del Comitato per il Forum. Che punta il dito contro “le politiche di concentrazione della ricchezza e del potere, minaccia per la sicurezza alimentare, per la diversità culturale e gli ecosistemi”. Bisogna parlare di “diritti umani” (al cibo, agli strumenti per produrlo, al rispetto dei lavoratori e dei popoli indigeni), con i relativi “obblighi statuali” (e per le multinazionali). Se “l'agricoltura industriale, l'allevamento intensivo, l'iper pesca distruggono i modelli agricoli e l'ambiente”, i produttori e la società civile hanno già fior di alternative da mostrare.!!pagebreak!!

Se 826 milioni di affamati vi sembrano pochi…

Chi non mangia e chi mangia
– Stima degli individui in stato di sottoalimentazione calorica: 826 milioni nel 2000 (di cui 792 nei Paesi in via di sviluppo); erano 840 milioni nel '96

– Stima degli individui in stato di insufficienza vitaminica e minerale: 2 miliardi

– I tre quarti degli affamati nel mondo sono contadini

– Anche nei paesi a basso reddito aumenta il numero degli obesi (nelle città e per il passaggio a modelli alimentari importati)

– Nel 2025 il numero di diabetici da iperalimentazione raddoppierà giungendo a 300 milioni di persone

Chi produce
– Nel mondo il 95% degli alimenti di base è prodotto da piccoli contadini

– 400 milioni di contadini vivono su terre aride

– In Europa sparisce un'azienda contadina al minuto (in Italia ogni due ore)

Chi ci guadagna

– Solo l'1% della produzione agricola totale circola a livello internazionale, ma sono le imprese globalizzate a fare le politiche agricole

– In Europa il 20% delle aziende (quelle più grandi, cosiddette “competitive”) riceve l'80% dei sussidi pubblici.

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