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Ambiente / Opinioni

Lotta alla crisi climatica: nessun Paese al primo posto

Gli indici sulle performance degli Stati nelle politiche di contrasto al climate change mostrano ritardi generalizzati. La rubrica a cura del prof. Stefano Caserini

Tratto da Altreconomia 223 — Febbraio 2020
© Alto Crew - Unsplash

Chi sta facendo di più per contrastare la crisi climatica? Chi sta facendo di meno? Chi non sta facendo abbastanza? Sono domande ricorrenti nel dibattito sul cambiamento climatico. Delle tre, la più facile è la terza: tutti non stanno facendo abbastanza, con poche eccezioni. Non è invece affatto facile fare la classifica dei bravi e dei cattivi nell’azione sul clima. A tutti, ai media in particolare, piacerebbe avere una divisione tipo quella dei film western, con da un lato i cattivi (Trump o Bolsonaro) e dall’altro i buoni (Obama o l’Europa). Ad uno sguardo più in profondità, le cose si complicano assai: il confine fra i due schieramenti si fa labile a favore di una terza categoria, che richiama la zona grigia di Primo Levi e il girone dantesco degli ignavi “che visser sanza infamia e sanza lodo”. Non è facile confrontare l’azione già messa in campo da diversi Paesi o l’ambizione degli impegni per azioni future: sono diverse le condizioni di partenza e i criteri con cui potrebbero essere giudicate. Chi consuma poca energia fossile, e ne ha consumata ancora meno nell’ultimo secolo, chiede giustamente di tenerne conto. Alcuni gruppi di ricerca hanno provato a definire criteri standardizzati, a discuterli apertamente, a raccogliere dati e informazioni per stimare una classifica. L’indice più importante sulla performance nella lotta ai cambiamenti climatici dei principali emettitori mondiali è quello realizzato da NewClimate Institute, Germanwatch e Climate Action Network, ormai da diversi anni. Un indice composto da quattro sezioni: le emissioni di gas serra (pesa per il 40%), l’uso di energia, la produzione di energia rinnovabile, l’esistenza di una legislazione sul tema dei cambiamenti climatici (20% di peso per ognuno). Ogni sezione è composta da sottoindicatori (ad esempio le emissioni pro capite, trend delle emissioni, riduzione avvenute rispetto agli obiettivi già sottoscritti). I punteggi dei 14 sottoindicatori sono per l’80% basati su dati raccolti presso agenzie autorevoli, per il resto basate su valutazioni di diversi esperti locali (io mando la mia sull’Italia), confrontate e validate con altre informazioni. La classifica presentata alla COP25 di Madrid vede vuoti i primi tre posti: nessuno dei 57 Stati valutati ha ricevuto una valutazione di performance “molto alta”. Ed è stato così anche nelle passate edizioni.

26. La posizione occupata dall’Italia nella classifica del Climate Change Perfomance Index

Una valutazione “alta” è stata assegnata a 14 Stati con fra i primi Svezia, Danimarca, Marocco. Ma è da notare la presenza in questo gruppo dell’India. L’Italia è nel gruppo successivo, quello con una valutazione “media”, e precisamente al 26esimo posto, dopo Francia, Brasile e Germania, e poco prima di Olanda e Cina. Nei 16 Paesi con performance bassa si trovano grandi Paesi come Indonesia o Messico, ma anche Austria e Spagna. Nel gruppo con valutazione bassa si trovano Turchia, Polonia, Giappone, Russia, Canada, Australia, Iran. Gli ultimi due sono Arabia Saudita e Stati Uniti.

Tutti gli indici sono per definizioni discutibili, imperfetti, migliorabili. Ma è indubbio che una differenza importante c’è fra chi sta nel primo e nell’ultimo gruppo.Nel complesso la performance dell’Unione europea è “media”, poco superiore a quella dell’Italia da sola. L’Italia è al 22esimo posto come emissioni di gas serra e politica sul clima, al 29esimo per la produzione di energia rinnovabile, al 25esimo posto per uso di energia. “Si può osare di più, senza essere eroi” cantavano Morandi, Tozzi e Ruggeri nel 1987. Cinque anni dopo a Rio de Janeiro veniva firmata la Convenzione sul Clima.

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2019)

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