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Diritti / Varie

Lo zucchero che affamerà la Tanzania

Un’inchiesta sul campo di Action Aid evidenzia il rischio di land grabbing che si nasconderebbere dietro l’investimento di una società svedese, che nel Paese africano ha ottenuto in concessione oltre 20mila ettari per coltivare canna. Le comunità locali non sarebbero state adeguatamente informate. La ong lancia una petizione diretta al governo tanżaniano chiedendo di sospender il progetto

Actionaid ha appena lanciato una petizione internazionale per chiedere al governo della Tanzania di sospendere l’investimento della EcoEnergy, un’azienda svedese che si è aggiudicata una licenza di 99 anni su  20.347 ettari di terra per coltivare canna da zucchero. 
L’area del progetto è situata a 70 chilometri a nord dalla capitale Dar Es Salaam, nel distretto di Bagamoyo. A causa di questo investimento, 1.300 persone perderanno la loro terra, e 300 di essi anche la propria abitazione, mentre diverse altre centinaia subiranno la stessa sorte nella fasi successive dell’investimento. Nel primo periodo, l’azienda prevede di coltivare direttamente su 7.800 ettari e di approvvigionarsi da altri 3mila attraverso contratti esclusivi di acquisto con contadini locali. Le persone colpite dal progetto della EcoEnergy sono in maggioranza piccoli agricoltori che producono mais, riso, cassava, frutti. Settanta sono i pastori che allevano mucche e capre facendole pascolare su parte di quelle terre in virtù di una consuetudine millenaria. L’area in questione apparteneva in precedenza a una azienda agricola di Stato, Razaba Farm, chiusa dal 1993. Da allora su questi terreni le comunità locali hanno esercitato un diritto di uso che adesso viene negato, perché il governo li ha ceduti in affitto alla EcoEnergy.

Secondo l’azienda il progetto “mira a diventare un modello [capace] di  promuovere sostenibilità ambientale e sviluppo sociale nella regione”.

L’inchiesta indipendente. Per ActionAid, che ha realizzato una ricerca sul campo, intervistando oltre 150 persone, i benefici per le comunità locali sono sovrastimati e i rischi non tenuti adeguatamente in considerazione. Secondo la ong, si tratta di un caso di accaparramento di terra (land grabbing): la scarsa trasparenza sulle informazioni relative al progetto ha viziato una consultazione delle comunità locali realizzata in modo inadeguato e senza fornire una vera e propria scelta. Inoltre, l’investimento mette a serio rischio la sicurezza alimentare delle comunità locali, colpendo in maniera particolare le donne, configurando una violazioni di importanti diritti umani come quello al cibo e alla casa. Le donne, il fulcro dell’alimentazione delle famiglie, subiranno in maniera particolare le conseguenze negative di questo progetto. Già adesso l’incertezza rispetto all’accesso alla loro terra le ha già portate a ridurre gli investimenti con conseguenze negative sulla disponibilità di cibo nel brevissimo periodo.

Uno degli aspetti più controversi del progetto riguarda il consenso e la consultazione delle comunità. I residenti intervistati da ActionAid, ad esempio, hanno affermato che non è stata data loro l’opportunità di scegliere se rimanere o meno, ma soltanto se ricevere compensazioni in denaro o in altra terra. 185 famiglie (350-500 persone) che vivono in una zona del progetto chiamata Gam Makaani, hanno rifiutato le compensazioni aprendo quindi una causa legale con l’azienda. Incerto anche il futuro dei pastori indigeni Barabaig, ai quali l’azienda ha fornito un’area di circa 2.400 ettari fuori dalla zona del progetto, senza però garantire alcun diritto di uso permanente e rendendo quindi molto fragile la loro posizione di fronte alla potenziale revoca di accesso che la stessa aziende potrebbe decidere.



Con la cessione delle terre alla EcoEnergy il governo tanzanese non riconoscerebbe i diritti di uso della terra delle comunità locali. Tale atteggiamento violerebbe delle Direttive volontarie sulla governance responsabile dei regimi fondiari (TGs), adottate dalla comunità internazionale nel 2012. In esse, infatti, si stabilisce che per promuovere l’accesso alla terra è necessario riconoscere e tutelare anche i diritti legittimi di uso della terra e non solo quelli di proprietà. Inoltre, l’azienda non ha ottenuto il consenso previo, libero ed informato da parte delle comunità locali, anch’esso previsto previsto dalle TGs, che stabilisce il diritto delle persone a scegliere, negoziare e decidere sulle attività e le scelte che riguardano il loro territorio, e la possibilità di opporsi.

L’accordo di investimento tra governo e azienda non è stato reso pubblico, non è quindi dato sapere quali sono gli impegni assunti dalle parti. Dalle informazioni raccolte da ActionAid, ad esempio, sembra che il governo abbia garantito alla EcoEnergy dieci anni di esenzione fiscale. Secondo l’analisi di ActionAid, basata sui pochi dati disponibili, l’azienda sembrerebbe sovrastimare i reali benefici economici portati dall’investimento. Infatti, la ricchezza generata dall’investimento dovrebbe aggirarsi tra  gli 8.56 e gli 11,5 milioni di dollari all’anno. Ben al di sotto della cifra fornita dalla EcoEnergy, che parla di 45-50 milioni di dollari all’anno. Tuttavia questi dati non tengono in considerazione i costi sociali e di sviluppo dell’investimento, che trasformerebbe completamente le dinamiche socio-economiche e ambientali di quei territori rurali con impatti negativi di lungo periodo imponderabili. Infatti, oltre al modello di coltivazione diretta sugli ettari in concessione, trasformati in monocoltura da canna da zucchero, impiegando direttamente 2mila lavoratori, la EcoEnergy prevede di dare lavoro ad altri 1.500 contadini attraverso i contratti di acquisto (outgrowing schemes). Tra i vari business model che caratterizzano gli investimenti agricoli, l’agricoltura a contratto (outgrowing schemes) presenta rischi e opportunità che devono essere presi adeguatamente in considerazione cosa che non sembra emergere dalle informazioni fornite dalla EcoEnergy. Pur non prevedendo un controllo diretto della terra, che rimane nelle mani dei singoli contadini, l’agricoltura basata su contratti può configurarsi come una accaparramento de facto, in quanto può arrivare a esercitare un controllo capestro sulla produzione limitando notevolmente la libertà del contadino fino a creare una vera e propria forma di totale sudditanza e sfruttamento. 
La EcoEnergy prevede di  rifornirsi di 300-400mila tonnellate di zucchero di canna all’anno da 1.500 famiglie che produrranno su circa 3mila ettari di terra organizzate in 25-35 “outgrowing companies”, che prevedono in media 50 produttori e occupano ognuna un’area che oscilla tra i 75 e i 150 ettari. Per entrare in questa partita, i piccoli produttori devono assumersi un grosso rischio finanziario sulla base di ritorni di investimento incerti e sovrastimati. Infatti è previsto che ogni “outgrower company” debba contrarre un prestito di circa 800mila dollari, 16mila a persona. Bisogna considerare che il reddito minimo annuo in Tanzania è di 528 dollari, vale a dire trenta volte meno il livello di indebitamento individuale necessario per partecipare al progetto di outgrowing della EcoEnergy. Comparato al reddito minimo in Svezia, ciò equivarrebbe a un indebitamento individuale di 1.8 milioni di euro. 
Un tale livello di indebitamento metterebbe a serio rischio i piccoli produttori che se non fosse in grado di onorare il debito potrebbero perdere la propria terra. Inoltre, fino a che il prestito non verrà restituito l’unica fonte di guadagno per i produttori sarà data dal salario che percepiranno all’interno di ogni singola impresa, che rischia di essere al di sotto del minimo mensile stabilito nel settore agricolo, di 44 dollari. 
ActionAid considera che questo modello contrattuale ponga i contadini in una posizione di debolezza nei confronti delle banche, con il rischio di contrarre condizioni di prestito peggiori, e del compratore, la EcoEnergy, che opererebbe in una situazione di monopsonio, ovvero unico acquirente del prodotto, quindi con una forza contrattuale sui prezzi di acquisto molto maggiore di quella dei produttori. Il modello di agricoltura a contratto, infine, rischia di aumentare le iniquità di genere. Uno studio del 2008 condotto dalla FAO su un progetto in Swaziland che ha ispirato il modello proposto dalla EcoEnergy ha rilevato come si sia verificata una riduzione di reddito generato dalle donne rispetto a quello degli uomini.

La EcoEnergy sta cercando anche di acquisire terra al di fuori della zona precedentemente appartenuta alla Razaba Farm, più precisamente nell’area di Biga West (sul cui status legale della terra si è originato una controversia tra due villaggi che ne rivendicano il controllo: Fukayosi e Matipwili). L’azienda afferma di aver ottenuto 2mila ettari di terra in concessione nel maggio 2013, ma non ha fornito ad ActionAid alcun documento di prova in merito. I funzionari del distretto competente sull’area avrebbero cambiato lo status legale dei terreni spostando la denominazione da "terra dei villaggi", e quindi gestita dalle autorità locali, a "terra generale", e quindi di competenza delle autorità governative sulla base di un accordo raggiunto nel 2011 con le autorità di Fukayosi, ma senza il consenso di quelle di Matipwili, che hanno deciso di dare in concessione i 2.000 ettari alla EcoEnergy sulla base di una serie di condizioni molte delle quali non rispettate. Il caso Biga West mostra come l’azione dell’azienda abbia generato conflitti locali sulla terra, causando una complessiva maggiore fragilità dei diritti di accesso e insieme un aumento dei rischi per la sicurezza alimentare relativi a tale debolezza.

La cooperazione pubblico-privato. 

Quello della  EcoEnergy è considerato uno “progetto bandiera” della cooperazione pubblico-privato, nuovo paradigma della cooperazione allo sviluppo internazionale. Infatti, il progetto gode dei finanziamenti della Banca africana di sviluppo (500 milioni di dollari), dell’International Fund for Agriculture and development (IFAD) e dei fondi della cooperazione svedese (Swedish International Development Agency). Anche il governo tanzanese ha degli interessi diretti nell’investimento possedendo il 5% della AgroEcoEnergy Tanzania attraverso la sua controllata Tanzanian  Petroleum Development Company (TPDC). Non solo, il progetto fa parte anche New Alliance for Food Security and Nutritionovvero una partnership nata tra i Paesi del G8 e diversi Stati africani che ha lo scopo di convogliare investimenti privati a sostengo dei piani di sviluppo agricolo. Obiettivo della New Alliance è quello di guidare una “crescita sostenuta ed inclusiva” del settore agricolo africano, puntando  su una accelerazione dei flussi di capitali privati diretti all’agricoltura e permettendo così “l’uscita dalla povertà” di 50 milioni di persone entro il 2025.  
In occasione del lancio della New Alliance,  oltre quaranta imprese, di cui più della metà multinazionali, si sono impegnate ad investire 3 miliardi di dollari nel settore agricolo. Tra  queste ci sono giganti dell’agri-business quali Cargill, Monsanto Syngenta e Yara. Anche l’Italia partecipa alla New Alliance, in Senegal, Etiopia e Mozambico. Insomma, in nome dello “sviluppo” e della  “cooperazione” una nuova cordata composta di attori pubblici e privati si sta accaparrando la terra in Africa .
ActionAid ha lanciato una petizione internazionale rivolta al presidente della Tanzania che chiede di sospendere il progetto e di avviare un nuovo processo di consultazioni con la comunità. La consultazione dovrà fornire alle comunità locali le informazioni sull’impatto complessivo del progetto e dovrà includere la possibilità da parte delle comunità di decidere liberamente se accettare o meno il ricollocamento, oppure al contrario di considerare delle alternative rispetto al progetto proposto dall’azienda.

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