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Lo spettro dei tagli che rischiano di zittire le fondazioni liriche

Una norma della scorsa estate impone il pareggio economico agli enti, pena la riduzione degli artisti, il “declassamento” e la sospensione dei fondi statali. Ma in questo modo non si riconosce il valore sociale dei teatri e delle orchestre

Tratto da Altreconomia 189 — Gennaio 2017
Un sit-in del Comitato nazionale dei lavoratori delle Fondazioni lirico sinfoniche di fronte al Teatro La Fenice di Venezia in occasione dell'opera Aquagranda, per il 50° anniversario dell’alluvione del 1966 - © Sara Michieletto

Al Teatro Massimo di Palermo, lo spettacolo “Babbelish” stava per cominciare. Un incastro sbagliato dei turni dei macchinisti che lavorano alla Fondazione, però, ha rischiato di combinare un disastro. “Erano i primi di dicembre e non c’era nessuno che potesse sollevare il sipario”, racconta Antonio Barbagallo, artista del coro del Teatro Massimo. Il problema non è il turno ma il numero dei macchinisti. “Dodici -spiega Barbagallo- a fronte di una pianta organica che ne richiederebbe almeno il doppio in una struttura che dal 1992 non bandisce un concorso”. Conseguenza: nel 1998 gli assunti erano 516, oggi poco più di 300 unità compresi gli scritturati. Palermo è una delle 14 Fondazioni lirico sinfoniche italiane, avamposto culturale che occupa circa 4.500 persone nel Paese. Si tratta del Teatro alla Scala di Milano, il “Comunale” di Bologna, il Teatro del Maggio musicale fiorentino, il “Carlo Felice” di Genova, il “San Carlo” di Napoli, il Teatro Massimo di Palermo, quello dell’Opera di Roma Capitale, il Teatro Regio di Torino, il “Lirico Giuseppe Verdi” di Trieste, “La Fenice” di Venezia, l’Arena di Verona, il “Lirico” di Cagliari, il Petruzzelli di Bari e l’Accademia nazionale di Santa Cecilia (Roma). Barbagallo usa un’espressione emblematica: “In questo settore, chi sta meglio non sta bene”. Pur non essendo nelle condizioni dei teatri di Bologna, Firenze, Bari e Verona, anche Palermo fa parte delle otto Fondazioni che hanno “aderito” ai cosiddetti “Piani di risanamento” relativi alla “Legge Bray” dell’ottobre 2013 (dal nome dell’allora ministro dei Beni culturali), intervenuta sulla carta per “far fronte allo stato di grave crisi del settore”.
In questi ultimi tre anni e mezzo, però, la “grave crisi” delle Fondazioni non è passata, nonostante il “risanamento” avviato in otto Fondazioni, tanto che nell’agosto 2016 il legislatore è tornato ad occuparsi, o “accanirsi”, secondo il Sovrintendente del Teatro Regio di Torino, Walter Vergnano, degli istituti. Generando nuove preoccupazioni tra i lavoratori. L’ha fatto con un decreto (il 113) convertito poi nella legge 160. Il principio di fondo -già sperimentato in passato- è il seguente: le Fondazioni lirico sinfoniche devono raggiungere il “pareggio economico” e un “tendenziale equilibrio patrimoniale e finanziario” (art. 24 del decreto) entro l’esercizio 2018. Pena, tra le altre cose, la riduzione dell’attività, la chiusura temporanea o stagionale, la “trasformazione temporanea del rapporto di lavoro del personale da tempo pieno a tempo parziale”.
Un principio che per il Sovrintendente del “Regio” di Torino è “inaccettabile”: “È un modo per dire che i colpevoli del non funzionamento dei teatri sono i lavoratori -spiega ad Altreconomia-. E trovo sbagliato che in una legge dello Stato si autorizzi a produrre di meno per affrontare i problemi di bilancio. Se un teatro deve produrre di meno, allora non ha senso tenerlo in vita. È come se in un ospedale si tenessero fuori i malati”.

“Le Fondazioni lirico sinfoniche non sono aziende normali. Una persona che suona il violino è sì colui che ‘produce il prodotto’ ma è anche il ‘prodotto’ stesso” (Mattia Cipolli)

Fatto sta che chi non s’adegua mette ancora più a rischio i fondi pubblici del contributo FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo). Un decreto di metà ottobre 2016 a firma di Onofrio Cutaia, direttore generale della DG “Spettacolo” presso il ministero dei Beni e delle attività culturali e del turimo (Mibact), fa rendere conto di quante risorse oggi lo Stato investa nelle Fondazioni lirico sinfoniche: 182.272.058,30 euro, il 44,8% dello stanziamento complessivo del FUS del 2016, 406,8 milioni di euro -che va a finanziare anche le attività musicali, teatrali, di danza, cinematografiche, circensi-. Dei 182,2 milioni, 29 sono solo per la “Scala” di Milano, che insieme all’Accademia nazionale di Santa Cecilia è dotata di “forma organizzativa speciale”. Alle altre 12 spettano invece 141,3 milioni di euro. 50 milioni di euro in meno dei 192 che il nostro Paese investe in spese militari (dati dell’Osservatorio MIL€X alla mano, http://milex.org/). Ma non in un anno, in tre giorni. Il taglio progressivo del FUS è in linea con i dati fotografati da Eurostat nel 2014. L’Italia è il penultimo Paese dell’Unione europea per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,4% contro la media Ue del 2,1%). Riferendola al Prodotto interno lordo, la quota scende allo 0,7% (la Grecia è allo 0,6%). Guido Giannuzzi, fagotto nell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, ha firmato a metà dicembre di quest’anno un contributo per “L’Ape musicale”, rivista di musica, arti, cultura, per smontare “l’apparente stabilità” del FUS. “Il suo ammontare -scrive Giannuzzi- è passato dai 357.480.000 euro iniziali (valore convertito rispetto alle lire dell’epoca) ai 406.800.000 euro del 2016. Se nel 1985 il rapporto FUS/Pil era dello 0,083 %, nel 2016 si è ridotto allo 0,025%. Vale a dire, un calo di circa due terzi: se il rapporto fosse rimasto immutato nei 30 anni di vita del finanziamento statale, adesso il suo valore ammonterebbe a circa 1.300 milioni di euro”.

Ma l’imperativo nazionale è “risanare”, come sintetizza il titolo della “Relazione del Commissario straordinario del Governo sul monitoraggio semestrale dello stato di attuazione dei piani di risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche” datata 31 ottobre 2016 e firmata dal commissario Gianluca Sole. Il contesto è di “Grave sotto-patrimonializzazione (per usare un eufemismo) e forte indebitamento, sia corrente che strutturale”. Tra le interessate c’è anche la Fondazione del “Comunale” di Bologna. Il giudizio del commissario del Governo è netto: “La Fondazione presenta numerosi elementi di criticità che nel corso del 2015 non sono stati gestiti in modo da invertire la tendenza negativa registrata dei precedenti rapporti di monitoraggio”. Criticità che “contribuiscono ad una dinamica negativa anche della situazione debitoria, che raggiunge i 24.915.625,00 di euro”. Tra i motivi che il commissario Sole individua ce n’è uno che preoccupa particolarmente Mattia Cipolli, violoncellista dell’orchestra: l’“incidenza sproporzionata dei costi del personale”. “Quando parliamo del costo del personale a proposito delle Fondazioni lirico sinfoniche -ragiona Cipolli- va tenuta in considerazione una differenza evidente rispetto a un’azienda normale. Una persona che suona il violino è sì colui che ‘produce il prodotto’ ma contemporaneamente è anche il ‘prodotto’ stesso, come in ogni attività culturale”.

Gli artisti e i dipendenti delle Fondazioni Lirico Sinfoniche manifestano il 20 novembre a Verona per protestare contro la chiusura del corpo di ballo dell’Arena e il licenziamento dei suoi ballerini - sosfondazionearenaverona.blogspot.it
Gli artisti e i dipendenti delle Fondazioni Lirico Sinfoniche manifestano il 20 novembre a Verona per protestare contro la chiusura del corpo di ballo dell’Arena e il licenziamento dei suoi ballerini – sosfondazionearenaverona.blogspot.it

Bologna è una delle Fondazioni più esposte. Poco prima di rispondere al telefono, Cipolli è stato ricevuto dal direttore dello “Spettacolo” presso il Mibact. Al “Comunale”, infatti, si prefigurano 30 esuberi su una pianta organica attuale di 230 persone. A Verona è già saltato il corpo di ballo composto da 21 persone. E Cipolli sa che cosa significa “tagliare” i costi del personale in un teatro lirico sinfonico: “Per l’orchestra la conseguenza immediata è un abbassamento del livello. Otto violoncelli che suonano insieme maturano lo stesso repertorio, potendo sempre contare su persone fisse. Per il coro significa che i 50 chiamati a fare il lavoro di 80 urleranno come babbuini, con i baritoni che fanno i tenori e i tenori che fanno i bassi. I tecnici ne risentiranno per la sicurezza o per i movimenti scenici”.
“La Fenice” di Venezia ha chiuso il bilancio 2015 con 33,8 milioni di euro di ricavi (oltre il 65% dei quali finanziamenti pubblici). “Venezia è stata capace di sfruttare il turismo -riconosce Marco Trentin, violoncellista del Teatro dal 1991, dopo aver vinto un concorso internazionale-. Il bacino di utenza dei cittadini è abbastanza irrisorio dunque la maggior parte del pubblico presente è composto da turisti. La fortuna si basa su operazioni popolari, facciamo tra le 30 e le 40 recite de La Traviata, riproponendo titoli che fanno molta cassetta”. Come tutte le altre Fondazioni, anche Venezia ha aperto un canale di finanziamento “privato” sulla piattaforma online dell’Art Bonus (artbonus.gov.it), misura introdotta nel 2014 per incentivare erogazioni liberali a beneficiari “artistici”. Nelle intenzioni governative, questa avrebbe dovuto progressivamente affiancare e poi sostituire l’“impegno” pubblico. Su 566 milioni di euro di “costo complessivo interventi” messi a budget a metà dicembre, però, risultano erogazioni per soli 54,4 milioni di euro. Meno del 10%, tanto che lo stesso commissario governativo Sole ha scritto nella sua relazione semestrale che “sarà necessario verificare quali elementi deprimano l’efficacia dell’incentivazione”.
Il ruolo dei privati può essere problematico. Lo spiega Pierluigi Filagna, che nell’orchestra del Teatro Regio di Torino (165mila presenze paganti nel 2015) suona il corno, stabilizzato nel personale nel 2008. “Tra le principali funzioni delle Fondazioni lirico sinfoniche c’è certamente quella sociale verso la città in cui ricade, collaborando con le istituzioni, diffondendo la musica, portando la nostra cultura all’estero, facendo tournée e dando spazio ai nuovi compositori emergenti per descrivere con la musica i nostri tempi, cosa che si fa difficilmente. È raro infatti che si dia spazio ai compositori italiani contemporanei. Lo sponsor privato, di norma, vuole i ‘classici’”. Il teatro “è come la sanità e la scuola, non deve prioritariamente generare reddito” -per citare Lorella Pieralli, cantante del coro dell’Opera di Roma e segretaria del Federazione italiana autonoma lavoratori dello spettacolo (Fials)-. Ma il nostro Paese ha scelto la formula “Fuori tutti!”, che è poi lo slogan di un volantino che il Comitato nazionale dei lavoratori delle Fondazioni lirico sinfoniche ha distribuito fuori da “La Fenice” il 4 novembre scorso, in occasione della prima assoluta dell’opera Aquagranda, per il 50esimo anniversario dell’alluvione del 1966. “Piano di risanamento, ultimi 300 pezzi”. La “conduzione maggiormente imprenditoriale di tali imprese culturali” -come ha scritto il commissario governativo Sole- non può più aspettare. Con buona pace di quella “riforma organica” auspicata da Vergnano che nessun ministro ha ancora immaginato.

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