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Opinioni

L’Italia sul ring europeo

La politica economica e ancora più specificamente il nodo dei conti pubblici stanno diventando, più di ogni altra questione, il terreno del conflitto all’interno degli scenari del Vecchio Continente. Anche nel nostro Paese, è palese il rischio di una delegittimazione delle istituzioni -anche quelle nazionali- che "alimenti" il terreno del partito del non voto

La Commissione europea ha rimandato l’Italia a marzo. Questo è il senso delle dichiarazioni della cancelliera tedesca Angela Merkel e delle prese di posizione del presidente della Commissione Jena Claude Juncker, la cui fermezza “politica” in realtà stride con la debolezza della sua posizione personale, travolta dallo scandalo fiscale emerso con l’inchiesta giornalistica LuxLeaks.
Il commissario agli Affari economici Moscovici ha persino anticipato a gennaio la data di presentazione delle “integrazioni” italiane. Alla luce delle esternazioni delle ultime settimane è evidente, infatti, che l’approvazione dello schema del bilancio italiano, avvenuta a fine ottobre, presentasse numerose riserve, forse un po’ sottovalutate nell’interpretazione proveniente dal governo. Il tema di fondo resta quello dell’imponente mole di debito pubblico che grava sulle spalle degli italiani; i falchi tedeschi -e non solo loro- continuano a richiamare l’esecutivo Renzi alla cruda concretezza dei numeri che lievitano con rapidità a fronte di un andamento del Pil ormai congelato da tempo.

Con una crescita inferiore all’uno per cento è evidente che nessuna manovra di finanza pubblica può essere al contempo in grado di ridurre il debito e di risultare socialmente e politicamente sostenibile. Anzi, in assenza di una ripresa del reddito nazionale, un legge di stabilità fondata sui tagli rischierebbe di diventare ancora più recessiva. D’altra parte gli effetti delle riforme di “struttura” avviate dal premier -questa pare essere la convinzione diffusa nell’opinione dei tedeschi- non si produrranno a breve. Se a ciò si aggiungono il rischio di una nuova esplosione della crisi della Grecia, a cui non ha dato alcun sollievo l’onerosa “ristrutturazione” del debito, e il rallentamento dell’economia mondiale, a partire dalla Cina che stenta a svolgere funzioni di locomotiva planetaria, allora le preoccupazioni dei “rigoristi europei” diventano massime, tanto da considerare un atto blasfemo qualsiasi ipotesi, sia pur solo ventilata, di sforamento del limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil.

Tali preoccupazioni acquisiscono persino i toni dello scontro di politica estera, come è avvenuto nelle settimane scorse, con forti fibrillazioni tra le cancellerie europee che hanno agitato non poco anche il presidente Napolitano. In questo senso, la politica economica e ancora più specificamente il nodo dei conti pubblici stanno diventando, più di ogni altra questione, il terreno del conflitto all’interno degli scenari del Vecchio Continente, dove il ruolo del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è decisamente più pesante di quello del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni proprio nelle vicende della politica estera in quanto tale.
In estrema sintesi, l’Italia è stata rimandata a marzo con una mezza bocciatura e la presa di coscienza di una simile situazione ha generato una profonda tensione con la Germania e, più in generale, con una certa idea di Europa che può produrre alcune conseguenze importanti.

1) L’effetto delle politiche rigoriste della Germania porta alla formazione, in Italia ma non solo, di un sentimento di patriottismo anti-europeo, fondato sulla convinzione che sia in atto una consistente erosione di sovranità da parte dei “burocrati” di Bruxelles e della Banca centrale europea, con la perfida regia della cancelliera Merkel, a cui si potrà porre fine solo con l’uscita dall’euro; un paradigma molto semplicistico e decisamente pericoloso perché tende a ri-articolare gli schieramenti politici all’interno dei vari Paesi sulla base di una visione “referendaria” che rischia di travolgere ogni complessità e ogni sfumatura. Il grande quesito su cui costruire le appartenenze diventa infatti il sì o il no all’euro, come sintesi di una idea di Europa ridotta ad un fatto meramente economico, fondato sul rispetto di vincoli e parametri pressoché impossibili; se prevale questa impostazione, è palmare che non esisterà più alcuno spazio reale per realizzare una dimensione politica dell’Europa in cui abbiano cittadinanza visioni ben più complessive.

2) Una simile radicalizzazione in chiave economico finanziaria delle tensioni europee tende a facilitare la diffusione di posizioni a sostegno di economie e Paesi in conflitto con l’Europa stessa, come dimostra il caso delle sempre maggiori simpatie filorusse coltivate dai diversi populismi nazionalistici. In tale ottica, è molto avvertibile una scivolosa deriva che, in nome della rivolta “popolare” contro l’Europa dei burocrati, tende ad alimentare relazioni con governi ben poco democratici, riabilitati in toto e senza troppe distinizioni: in altre parole, l’errata identificazione del patrimonio liberale e democratico europeo con il feticcio del Trattato di Maastricht e con le rigidità tedesche finisce per generare la liquidazione della parte migliore della cultura di questo pianeta a vantaggio di pericolose autocrazie.

3) Nel caso italiano, il diffondersi di questo sentimento di “patriottismo antieuropeo” può trovare nuovo alimento proprio dalla necessità di ulteriori, costose correzioni alla legge di stabilità per sottomettersi alle politiche del rigore, con la prospettiva di una saldatura forte tra protesta sociale delle piazze, disgusto per i grandi scandali e più generale delegittimazione delle istituzioni, in grado di alimentare il partito del non voto; un pericoloso circuito vizioso da cui è molto difficile uscire. 

* Università di Pisa

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