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Diritti

L’Italia sono anche io?

Cittadinanza per i nati in Italia da genitori stranieri, diritto di voto alle amministrative: la società civile è più avanti di un Palazzo che non riesce a farsi interprete dei cambiamenti  _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 137 — Aprile 2012

La campagna “L’Italia sono anch’io” è dunque arrivata al compimento della sua prima fase, con la consegna al Parlamento di due leggi di iniziativa popolare sui diritti di cittadinanza e di voto amministrativo per gli stranieri residenti nel nostro Paese. Nata su iniziativa di un nutrito gruppo di associazioni, la campagna ha il grande merito di avere messo nero su bianco proposte concrete, con le quali è possibile misurarsi uscendo dalle astrazioni, dalle dichiarazioni di principio, dalle buone (o cattive) intenzioni prive di formulazioni pratiche.
La proposta di legge sulla cittadinanza introduce il principio dello “jus soli”: chi nasce in Italia e ha almeno un genitore soggiornante legalmente nel nostro Paese, acquisisce la cittadinanza italiana (purché il genitore ne faccia richiesta).
È un cambiamento molto forte rispetto alla legislazione attuale, ancorata allo “jus sanguinis”, con la cittadinanza trasmessa dai genitori ai figli a prescindere dalla residenza in Italia e quindi l’esclusione di chi nasce da genitori stranieri: è la normativa -anacronistica e ingiusta- che ha creato una legione di cittadini-non cittadini.
La proposta di “L’Italia sono anch’io” disciplina anche i numerosi casi di persone che crescono e vivono in Italia ma sono nate all’estero o sono nate in Italia da genitori privi di documenti di soggiorno: oggi vivono in un limbo normativo e con la prospettiva d’essere stranieri nella loro patria di fatto; la proposta prevede che possano ottenere la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età, facendone semplicemente richiesta. La proposta prevede poi di accorciare a cinque anni il tempo minimo di soggiorno legale (oggi sono dieci) per la richiesta della cittadinanza da parte degli adulti.
Non meno importante è il progetto di legge per il riconoscimento del diritto di voto alle elezioni amministrative per chiunque abbia maturato cinque anni di soggiorno legale in Italia, a prescindere da nazionalità e cittadinanza. Con una norma del genere, per milioni di persone cambierebbe il rapporto con le istituzioni democratiche, oggi pressoché nullo, e soprattutto cambierebbe -si presume- l’atteggiamento delle forze politiche nei loro confronti: da parafulmine populistico dei disagi sociali ed esistenziali diffusi, a potenziali elettori da condurre dalla propria parte.
La parola ora passa al Parlamento, o meglio passerebbe, perché le condizioni attuali del sistema politico italiano rendono poco probabile l’approvazione delle due proposte di legge. In Parlamento non esiste, al momento, una maggioranza di eletti favorevole a simili progetti, né il governo tecnico, che pure è sostenuto da una coalizione assai eterogenea e quindi potrebbe esercitare un’influenza notevole sui parlamentari (lo fa sistematicamente in materia economica), è intenzionato a premere affinché la doppia riforma sia approvata. Il ministro Andrea Riccardi, che è formalmente delegato all’“integrazione”, ha addirittura spostato il tiro, parlando di un superamento della contrapposizione fra “jus soli” e “jus sanguinis” in favore di un concetto nuovo: lo “jus culturae”. È difficile capire che cosa concretamente intenda, ma si tratta quanto meno di un’attenuazione (e un offuscamento) del chiaro principio dello “jus soli”.
Alla fine le decine di migliaia di firme raccolte dalla campagna “L’Italia sono anch’io” rischiano d’essere una nuova testimonianza della distanza che separa la cittadinanza attiva dal Palazzo. Chi vive nella società, a stretto contatto con le sue trasformazioni, riesce ancora ad elaborare proposte, indicare soluzioni e possibili azioni per allargare l’area dei diritti e della giustizia sociale. Chi vive nelle istituzioni stenta invece a concepire interventi davvero riformatori. Il Parlamento italiano, negli anni 70 e 80, fu una straordinaria arena di discussione e di mutamento normativo: riuscì ad approvare leggi fondamentali -dal divorzio all’obiezione di coscienza, dal servizio sanitario nazionale alla chiusura dei manicomi- a prescindere dalle posizioni assunte, sui singoli temi, dai governi del momento. Il parlamento riusciva così a farsi interprete dei cambiamenti dei costumi, dei nuovi bisogni, delle prospettive elaborate in seno alla società civile, grazie ad alleanze fra forze politiche poste su fronti opposti rispetto ai governi in carica.
Quella stagione è finita. L’isterilimento dei grandi filoni della cultura politica nazionale e la trasformazione del sistema istituzionale in senso maggioritario, hanno paralizzato la capacità riformatrice del parlamento. Vi è un rifiuto diffuso, nella parte più attiva della popolazione, per leggi anacronistiche e inique, come quella sulla cittadinanza. Governo e soprattutto parlamento non sembrano però pronti a recepire questo messaggio. —

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