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Diritti / Opinioni

L’Italia è ostaggio di una sottocultura che non conosce l’empatia

Spesso non è la cattiveria a dettare “frasi fatte” contro i migranti. Ma reagire è difficile, anche per un medico e operatore umanitario. “Il volo a pedali”, la rubrica di Luigi Montagnini

Tratto da Altreconomia 189 — Gennaio 2017
Profughi in arrivo nella stazione di Ventimiglia, in Liguria

“È una ragazzina così carina, peccato che non sia pulita, sì che a questa età dovrebbero insegnarle come lavarsi” (in sala operatoria, preparando una giovane paziente proveniente dal Nord Africa per un intervento). “Ma come è possibile che la mamma di questo bimbo che è ricoverato qui da due mesi non capisca ancora una parola di italiano?” (in reparto, parlando di una donna dell’Europa dell’Est). “Meno male che ha vinto il ‘No’, altrimenti con questo governo saremmo stati invasi dai musulmani. Non sappiamo più dove metterli, sono dappertutto, a me fanno paura” (in sala operatoria, all’indomani del Referendum). “Dottore, non abbiamo trovato nessun mediatore culturale, però guardi, io sono riuscita a farmi capire, se parla piano capiscono” (in ambulatorio, durante la visita del figlio di una famiglia sudamericana). “Aspetto fuori, con quell’odore dentro non riesco a stare, ma questa gente non si lava?” (dopo l’ingresso in sala di attesa di una famiglia mediorientale). “Se tenessi veramente alla mia famiglia, anziché scappare io rimarrei lì a combattere” (durante la pausa caffè, parlando dei profughi siriani). “State solo facilitando il loro arrivo in Europa. Vengono qui per motivi economici, sono tutti giovani, io capisco che abbiano bisogno di un lavoro, ma non ce n’è per noi” (alla sera, davanti a una birra, commentando le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo). “Anch’io vivevo lì prima, poi mi sono spostato ad Albaro, c’era troppa malavita, sono tutti quelli che arrivano sui barconi” (negli spogliatoi della sala operatoria, a proposito di “dove vivi?”). “Io capisco che siano malati e che vengano qui perché se no da loro morirebbero, ma sono ospiti, non possono comandare loro, qui si fa come diciamo noi” (in reparto, lamentandosi del comportamento di un padre di una famiglia mediorientale). “Ma ti è capitato di prendere un qualsiasi treno regionale negli ultimi tempi? Ormai sono solo extracomunitari sbarcati il giorno prima” (in stazione, in attesa di un Intercity).

757. È il numero dei medici e dei sanitari uccisi in Siria tra marzo 2011 e giugno 2016, per bombardamenti, armi da fuoco, torture ed esecuzioni (fonte: Physicians for Human Rights)

Sono alcune delle frasi che sento, ogni giorno, da parte delle persone con cui lavoro. Non c’è cattiveria, qualche volta forse stanchezza o frustrazione, la maggior parte solo superficialità. Sono di medici e infermieri che vedo compiere il proprio lavoro con passione e premura. Non è razzismo. Lavoro in un ospedale che accoglie ammalati da ogni parte di Italia e del mondo. Vedo la stessa professionalità, lo stesso affetto e la stessa abnegazione verso tutti i pazienti e le loro famiglie, indipendentemente dalla loro provenienza geografica o dalla loro etnia. Il problema è l’incapacità di immaginare che la realtà vissuta da chi ci troviamo di fronte possa essere diversa dalla nostra. È mancanza di cultura, figlia di campagne mediatiche e di narrazioni bugiarde. Ogni giorno sentiamo ripetere le stesse frasi dall’uomo della strada come dal politico. È un’ignoranza trasversale che genera paura e che si nutre di paura. I migranti ci toccano nella nostra quotidianità e pongono questioni che non possono essere lasciate tra le mani dei predicatori dell’odio.

Io mi interrogo su quale debba essere il mio ruolo di operatore umanitario che, oltre alla responsabilità di prendersi cura dei pazienti e delle loro famiglie, ha anche quella di creare cultura e fornire elementi che sappiano alimentare dibattiti giusti. Talvolta mi arrendo: è più facile lavorare in zone di guerra che cambiare la testa alla gente. Una soluzione ce la suggerisce Giulia, 4 anni, figlia di amici: “Se stai in casa, non vedi niente”.

* Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere

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