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Economia

L’italia è una “bazar economy”

Giocattoli, casalinghi, scarpe: basta un giro tra i negozi di vicinato per capire che tutto ciò che è venduto è stato prodotto all’estero

Tratto da Altreconomia 139 — Giugno 2012

All’ultimo Carnevale, travestirsi da “capitan Schettino”, l’ex comandante indagato per il naufragio della Costa Concordia, costava 40 euro. Il costume da ufficiale di marina, confezionato a basso costo in Cina, ha attraversato i continenti, fino alla bottega Torriani, che da oltre 30 anni vende articoli di carnevale nel centro di Milano. “Ogni anno ti ritrovi una moda diversa. A febbraio scorso tutti volevano vestirsi ‘da Schettino’. L’importante è che il costume costi poco, tanto dopo una notte si butta”. E Ivan, 35 anni, 12 dei quali trascorsi in negozio, sa bene che spesso la merce che costa meno è quella che viene da più lontano.
Il commercio internazionale è in crescita costante da decenni. Nell’ultimo, fra il 2001 e il 2010, il valore complessivo delle esportazioni mondiali è passato da 6.191 miliardi di dollari a 15.238, con una crescita media annua oltre il 5%, secondo l’Istituto per il commercio estero (Ice). L’unico inciampo si è avuto con la crisi finanziaria, con un calo del 12% nel 2009, più che recuperato negli anni seguenti: più 14,5% nel 2010, più 5% nel 2011, oltre a una crescita stimata per il 2012 del 3,7% (dati dell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto). Nonostante le difficoltà economiche strutturali, l’Italia è un ingranaggio funzionale della globalizzazione economica, come raccontano i dati dell’interscambio commerciale con l’estero (import più export), in crescita costante dal dopoguerra e passato da 224 miliardi di euro nel 1991, a 776 nel 2011 (Istat, valori correnti).
Della crescente integrazione italiana nella globalizzazione i commercianti storici sono state le vedette: nei decenni hanno visto trasformarsi merci, etichette e bolle di consegna, così come le forme della concorrenza. “Fu quando mio nonno Carlo Torriani, storico proprietario della bottega, vide arrivare i prodotti cinesi e la grande distribuzione che scelse di passare dai giocattoli agli articoli di carnevale -racconta Ivan-. Pensi che in Lombardia a quel tempo esisteva anche un distretto produttivo di giocattoli e bambole, occupava circa 15mila persone, ma in breve finì tutto”.
Oggi anche Torriani vende merce globale: “Per il 90%”, dice Ivan, impugnando un finto elmetto da pompiere. “Vede? Ditta belga, produzione cinese, come anche questi occhialoni rosa”. Le maschere di gomma di orchi e mostri vengono da Sri Lanka, Mauritius, o ancora dalla Cina.
“La varietà dei prodotti oggi è quadruplicata. Tante aziende straniere sono arrivate da noi con le loro cose, spesso facendo concorrenza sul prezzo. Mio nonno a suo tempo si forniva da due o tre aziende italiane, e tutto finiva lì”.
“Nel 2001 abbiamo accolto con grande disinvoltura nella Wto un Paese dalle potenzialità enormi come la Cina, e poi ci siamo trovati inondati dalla loro concorrenza, che ha messo in ginocchio tanti settori della produzione italiana -spiega Fabrizio Onida, docente di Economia internazionale all’Università Bocconi di Milano-. Probabilmente una politica internazionale che avesse ridotto la velocità di penetrazione commerciale dei cinesi sarebbe stata più sana. Di fatto, la Cina ha portato la propria quota di export sul mercato internazionale dal 5%dei primi anni Novanta al 20% di oggi. Una progressione paragonabile solo a quella di altre ‘tigri asiatiche’, come Indonesia o Filippine: l’Estremo Oriente oggi nel complesso arriva al 29%”.
Così, nel risiko commerciale degli ultimi vent’anni, a perdere forza sono stati soprattutto i Paesi europei. La quota italiana sulle esportazioni mondiali è calata dal 4,7% del 1996 al 3,0%del 2010, mentre le importazioni sono diminuite “solo” dal 3,8% al 3,0% (secondo dati del ministero dello Sviluppo economico). Anche la bilancia commerciale del 2011 è stata negativa per oltre 24 miliardi di euro (pesa soprattutto il saldo energetico). L’Italia si trova, dunque, dal lato sbagliato della globalizzazione, e il dato che ne riassume i motivi è la comparazione del costo del lavoro: da noi un’ora di manodopera costava in media, nel 2008, 34,94 dollari, incluse tasse e previdenza; in Cina solo 1,36 (Bureau of Labor Statistics del governo americano). I dati non sono del tutto armonizzati e la forbice è in lieve calo negli ultimi anni, ma il divario spiega in buona parte le trasformazioni del commercio internazionale nell’ultimo ventennio.
Il declino della manifattura. “Ci hanno messo in crisi gli orientali -racconta Roberto, 53 anni, figlio del fondatore di Sintolvox, rivenditore e riparatore di televisori e componentistica aperto nel 1954 a Milano-. Anche la nostra attività è in declino. Cinesi e giapponesi fanno prodotti talmente economici che ormai conviene comprare il nuovo e non riparare più il vecchio. Un lettore dvd può costare 45 euro. Se si rompe l’ottica, che ne vale 20, e ne aggiungiamo altri 20 per un’ora di manodopera, ha già finito di fare i calcoli”. Roberto ha assistito anche alla quasi scomparsa dell’industria dei televisori in Italia: “Una ventina d’anni fa c’erano una decina di aziende che realizzavano ottimi televisori, eravamo più bravi dei tedeschi. Oggi hanno chiuso quasi tutte: è rimasta solo la Mivar, che però è passata da 200 dipendenti a una cinquantina scarsa, mentre marchi come Sinudyne, Formenti, Geloso, Brionvega o Phonola non esistono più”.
Il mercato del “bruno” -nel gergo del settore, gli elettrodomestici spesso votati all’intrattenimento e di colore scuro- è oggi in gran parte nelle mani di giapponesi, coreani e cinesi. Ma è soprattutto nel “bianco” -i grandi elettrodomestici per la casa- che l’Italia rischia di perdere un ruolo storico da primatista. La produzione complessiva nel 2011 è tornata sui livelli del 1990, a 17 milioni di unità (fra il 2002 e il 2006 il solo comparto frigoriferi ha prodotto circa 3 milioni di pezzi in meno, quasi dimezzandosi; dati Ceced-Confindustria).
Il settore subisce la competizione dell’Estremo Oriente e dell’Est Europa: fra il 1990 e il 2006 Cina e Corea del Sud insieme sono passate dal 3% al 18% del commercio internazionale, mentre due Paesi come Turchia e Polonia, partendo da zero hanno raggiunto il 10%. Nello stesso periodo l’Italia è calata dal 28% al 16%, nonostante molti grandi marchi (Candy, per esempio, ma oggi c’è anche Indesit che pensa alla Polonia) abbiano trasferito la produzione nei Paesi a minor costo del lavoro, spesso gli stessi che erodono le nostre quote di mercato.
Ma è tutta l’industria in Italia a soffrire: fra 2000 e 2009 siamo passati dal 4,1% al 3,9% della produzione mondiale, pur restando la quinta nazione manifatturiera. Nello stesso periodo la Cina è volata in testa alla classifica passando dall’8,3% al 21,5% (nel mezzo si trovano Usa e Giappone, le cui quote sono calate di un oltre terzo, e la Germania, che ha tenuto). “L’Italia in passato ha avuto un modello di specializzazione ad alta intensità di lavoro -spiega Luca De Benedictis, docente di Teoria economica all’Università di Macerata-. Le scuole tecniche italiane erano molto buone e siamo diventati bravi nella produzione a medio e a basso contenuto tecnologico. Negli ultimi vent’anni si è rafforzata la concorrenza internazionale e qualcosa è cambiato. Le produzioni di medio livello, come la meccanica strumentale, sono rimaste e costituiscono ancora la parte maggiore del nostro export. Mentre quelle a basso contenuto tecnologico -come elettrodomestici, tessile, calzature- hanno sofferto di più. Coloro che concorrevano sul prezzo senza innovare hanno dovuto chiudere”.
Intanto, l’Italia è rimasta sguarnita nelle produzioni high-tech: oggi queste esportazioni sono calate al 6,4% del totale nazionale, siamo 21esimi al mondo (dati Ice). Ma è anche una questione di dimensioni industriali: fra gli anni Ottanta e Novanta si completava “la sostanziale scomparsa della grande impresa italiana, pubblica e privata -ricorda Onida-. Oggi oltre la metà dei lavoratori è collocato in aziende sotto i 20 dipendenti, circa il doppio della media europea. Ma in imprese così piccole è difficile produrre innovazione per competere sui mercati globali”. Non a caso l’Italia si è trovata al 24° posto su 26 nazioni considerate in una classifica dell’Ocse sulla capacità dei Paesi di “reggere” gli effetti della globalizzazione. “La classifica teneva in considerazione aspetti strutturali del sistema-Paese: giustizia civile, burocrazia, infrastrutture, ricerca, istruzione. Abbiamo perso troppo terreno, erodendo la nostra competitività”.
Delocalizzazioni versus lavoro. “Queste espadrillas vengono dalla Spagna, ma lì hanno fatto solo la lavorazione della paglia: le pelli vengono dall’Italia, mentre lo stampo di gomma lo realizzano in Brasile”. Simone ha 29 anni e lavora da “Luca”, spazioso negozio di scarpe in una via dello shopping milanese. L’estensione delle filiere internazionali riguarda anche le merci italiane di qualità, spiega: “Da noi si tirano le fila della produzione, ma ci sono pezzi che vengono fatti sempre all’estero, specie per i modelli da donna”. Produrre una scarpa per intero in Italia è diventato difficilissimo, come sa bene la famiglia di Simone. Vent’anni fa suo padre Vincenzo, oggi settantaduenne, aveva affiancato al punto vendita anche una piccola fabbrica: “Ci lavoravano sei persone. Realizzavamo scarpe molto semplici, che con gli anni non hanno più retto la concorrenza estera e così abbiamo chiuso”.
La delocalizzazione e la subfornitura sono ormai prassi anche in molti altri settori della manifattura, come nel caso tipico dell’abbigliamento. A parte l’Estremo Oriente, ci sono molte soluzioni: “Spesso si sceglie l’Est europeo, dove il lavoro costa cinque volte meno e l’impresa ha il suo tornaconto anche incorporando i costi dei trasporti delle merci intermedie”, spiega De Benedictis. Ma fornire una misura d’insieme della frammentazione della produzione è molto difficile.
Una stima di lungo periodo delle delocalizzazioni italiane nel manifatturiero si trova sul n. 2/2007 di “Gnosis”, pubblicazione dell’Aisi, i servizi segreti interni. Nel 1986 le “delocalizzazioni attive” (aziende italiane che spostano la produzione all’estero) erano 700, mentre nel 2006 risultavano circa 5.500, con una crescita media annua del 55%, sorpassando di gran lunga quelle “passive” (gli stabilimenti aperti in Italia da aziende straniere) che nel frattempo erano cresciute solo del 4% all’anno (da 1.200 circa a poco più di 2mila). Anche i riflessi occupazionali appaiono chiari: in conseguenza delle delocalizzazioni passive i nuovi salariati italiani sono stati 50mila, mentre quelle attive hanno generato 630mila nuovi posti di lavoro all’estero.
La rincorsa alla qualità. “Le scarpe di fascia bassa ormai vengono tutte dall’Asia, quelle appena migliori da Turchia o Brasile -riprende Simone-, ma anche chi si dedica al segmento medio o alto, soprattutto se produce grandi numeri, spesso ricorre alla subfornitura”.  Il settore calzaturiero italiano nel complesso tiene meglio di altri, ma anche qui sono calati i livelli produttivi (in valore, da 8,2 miliardi di euro nel 2000, a 6,7 nel 2010; dati Anci-Confindustria) e occupazionali (da 113mila addetti nel 2000, a 80mila nel 2010). “Ma è l’intero settore della moda (che include anche tessile, abbigliamento e pelli) che negli ultimi dieci anni ha subito sconvolgimenti radicali -spiega Clemente Tartaglione, economista dell’istituto di ricerca Ares 2.0-. In Italia in questo periodo abbiamo perso 285mila posti di lavoro. L’80% erano donne e quasi nessuna ha potuto rientrare nel settore”. Per spiegare cosa succede a uno dei più qualificanti comparti dell’economia italiana, Tartaglione scompone il prezzo di una scarpa da donna di fascia media: “Poniamo che costi 120 euro. Di questi, circa 70 se ne vanno fra tasse, negoziante e costi di commercializzazione, un aspetto che da anni cresce d’importanza. Dei rimanenti 50 euro legati ai diversi aspetti della produzione, ne bastano fra i 10 e i 20 per pagare il costo effettivo della fabbricazione, tra materiali e manodopera. Questo non impedisce anche a marchi importanti  di andare a produrre i loro grandi volumi all’estero, ma il vero guadagno si fa a valle della fabbricazione”. Dice De Benedictis: “Sono gli elementi simbolici o di design, che costituiscono gran parte del valore aggiunto, a consentire alla moda italiana di risultare ancora vincente”. Secondo l’Ice, dal ‘95 a oggi la dinamica dei valori medi unitari delle esportazioni complessive è stata quasi sempre positiva: il valore di ciascun bene esportato aumentava, a fronte di volumi che calavano nettamente. In altre parole, i produttori italiani hanno cercato di competere migliorando la qualità o il valore simbolico delle proprie merci. Questa tendenza non interessa solo il settore della moda, ma, per esempio, “anche quello degli elettrodomestici, dove sempre più l’Italia punta sul design, o sul miglioramento dell’efficienza energetica -spiega De Benedictis-. Ciascun Paese diventa una piattaforma produttiva specializzata”. Che siano ortaggi, microchip o design, ciascuno fa il suo nella filiera globale.
“Negli ultimi vent’anni abbiamo cominciato a vendere in proporzione molte meno merci italiane” conferma Roberto Fiore, figlio dello storico fondatore del negozio di casalinghi di Milano che ne porta il cognome. Il signor Fiorenzo nel dopoguerra era stato un inconsapevole ingranaggio della globalizzazione, quando ha iniziato a importare i primi rasoi elettrici dagli Stati Uniti. Roberto ha visto cambiare tante cose: “Chi va a produrre in Cina, spesso lo fa per abbassare i costi; questo non si traduce in un calo del prezzo, ma in margine. Oppure in spese di comunicazione, look, o promozioni. Perché è questo che paghiamo ormai”. Lo stesso scenario industriale è mutato, “e l’Italia ci ha perso -commenta Roberto-. Prenda Lagostina, che fa pentole: l’hanno comprata i francesi della Tefal, che perlomeno hanno mantenuto il marchio. Ma se devono licenziare operai francesi o italiani, secondo lei a chi tocca prima? Poi c’è Tontarelli, che fa pattumiere e credo produca in Cina, o Bormioli che fa bicchieri ed è andata in Turchia. Un esempio positivo, se vuole, sono le cercamiche della Caleca, fatte in Sicilia e decorate a mano, e poi esportate anche negli Stati Uniti. Ecco, su queste nicchie di tipo artistico possiamo ancora permetterci di produrre qua”. Dunque, l’Italia è in bilico fra la storica vocazione manifatturiera che perde lentamente quota e un ipotetico rilancio come piattaforma produttiva della qualità, materiale e non. Ma capire se il valore aggiunto del saper vivere italiano compensi la ricchezza persa nella produzione tradizionale è difficile. “L’Italia sempre più pare funzionare come una ‘bazar economy’ -dice De Benedictis, usando un’espressione emersa nel dibattito recente-. In un bazar non si fa niente -spiega-, semplicemente si raggruppano prodotti che vengono da luoghi diversi, al limite li si assembla, e li si rivende. È un’economia che produce ben poco”. —

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