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Finanza / Opinioni

La lira, e l’Italia, non galleggerebbero da sole nell’economia globale

Bastano piccoli “scostamenti” sui mercati, come il rialzo dello 0,25% dei tassi d’interesse deciso dalla Federal Reserve, per colpire le valute più deboli, come la sterlina, già in difficoltà dopo la Brexit. Ecco perché il ritorno alla moneta nazionale, o una doppia circolazione euro/lira, non sarebbe auspicabile per l’Italia

Ci possiamo permettere una moneta nazionale o, più modestamente, concepire una doppia circolazione euro/lira come soluzione alla crisi economica del nostro Paese? La risposta più plausibile è “No”, anche alla luce degli ultimi avvenimenti internazionali.

La Federal Reserve, la banca centrale americana, ha messo mano ai tassi di interesse ritoccandoli verso l’alto di 0,25 punti. Si tratta di un piccolo scostamento, molto tattico e ben poco strategico, che non rappresenta un reale cambio di rotta rispetto alle gigantesche politiche espansive degli ultimi anni, ma costituisce comunque un segnale che la stagione del denaro facile e delle inondazioni di liquidità potrebbe volgere al termine in tempi non troppo lunghi. Se ciò avvenisse, allora, la concorrenza fra le varie monete e soprattutto le difficoltà nel finanziamento dei debiti pubblici nazionali comincerebbero a prendere forma. La prima moneta che pare risentire di questi sintomi di cambiamento è la sterlina, in evidente affanno dopo la parziale ripresa di gennaio 2017, a testimonianza che le valute “nazionali” subiscono molto più di altre le ricadute delle tensioni esterne e pagano a caro prezzo le contraddizioni interne. È bastata la voce della stretta da parte della Fed, unita alla possibilità della richiesta di un referendum per l’indipendenza dall’Inghilterra promosso dal primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, per scatenare nuove tensioni sulla sterlina, già angustiata dalla Brexit. Non è vero dunque che il ripristino della “piena sovranità monetaria” fornisce la migliore garanzia di indipendenza valutaria e il più efficace rifugio rispetto alle tempeste globali. Anzi, proprio il carattere nazionale opera da moltiplicatore delle criticità intestine che diventano decisive per la credibilità del Paese, sulle cui spalle gravano, al contempo, le pressioni esterne.

Le tensioni, come accennato, non riguardano poi solo la moneta ma coinvolgono il debito pubblico dei singoli Stati che, con una moneta nazionale debole e poco affidabile, dovrebbero farsi carico quasi per intero della copertura del suo finanziamento; una prospettiva tutt’altro che semplice. Nel caso italiano, fatto pari a 100 il debito pubblico complessivo, una quota che oscilla fra il 35 e il 40% è nelle mani di “non residenti”, quindi al di fuori del nostro paese, un’altra, intorno al 50%, è posseduta da istituzioni finanziarie e monetarie, mentre la Banca d’Italia detiene circa il 5% e una percentuale analoga è nelle mani delle famiglie italiane.

Nel panorama europeo, peraltro, l’Italia è un Paese in cui la percentuale di debito pubblico in possesso di “non residenti” è tra le più basse, risultando inferiore rispetto a quelle di Germania e di Francia, dove si attesta al di sopra del 60%, e a quella della Spagna, realtà in cui oscilla tra il 40 e il 50%. È molto probabile che questa minore percentuale di possessori esteri del debito italiano rispetto ad altri Stati dipenda dalla minore attrattività del nostro debito, non certo misurabile solo in termini di rendimento, perché se questo fosse l’unico parametro non si capirebbe l’alta percentuale “straniera” di acquisto dei titoli tedeschi, caratterizzati da rendimenti marcatamente negativi. Pesano invece le condizioni complessive della nostra economia e, più in generale, del Paese che, per l’Italia, sono “mitigate” proprio dall’ombrello dell’euro, senza il quale probabilmente sarebbe molto più difficile trovare compratori esteri.

Non è davvero facile immaginare un debito da oltre 2.200 miliardi di euro trasformato in lire e coperto dai soli “residenti”, sia che si tratti di famiglie sia che si coinvolgano anche le istituzioni finanziarie, necessariamente attente alla solidità dei propri impieghi. Dunque le nostalgie “sovraniste” rischiano di avere una debole fattibilità e di immaginare un mondo in cui nella competizione fra le singole realtà “autarchiche” vinceranno sempre e solo le economie più forti, in possesso di grandi risorse naturali, di capacità produttive e tecnologiche decisamente avanzate,  molto popolate, e soprattutto poco dipendenti dai mercati internazionali. In tale scenario l’Italia, non avendo simili caratteristiche, non potrebbe appartenere al ristretto  gruppetto dei vincenti e sarebbe costretta ad abbandonare la logica della “specializzazione”, in grado di alimentare il preziosissimo apporto delle esportazioni, da cui dipende una buona fetta del nostro Pil, per impegnarsi in una costosissima, del tutto anacronistica e impossibile “sostituzione delle importazioni”, responsabile nel recente passato del fallimento di molti Stati. In estrema sintesi, sarebbe costretta a ripercorrere formule economiche già ben conosciute, e sperimentate in molte economie deboli, che hanno generato quasi sempre un marcato impoverimento, che comincia dalle fasce più deboli della popolazione.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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