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È l’ingiustizia sociale la principale causa di morte al mondo

Una “clinica mobile” di Medici Senza Frontiere a Pavlopil, in Ucraina

Nell’Unione europea le disuguaglianze comporterebbero fino a 707mila morti all’anno, e riducono l’aspettativa di vita più dell’eccesso di alcol. Non sono l’effetto di stili di vita sbagliati, ma di una precarizzazione di ogni tipo di relazione

Tratto da Altreconomia 193 — Maggio 2017

Giacomo ha 41 anni e fa il commesso in un supermercato. È precario e lavora per lo più a chiamata facendo turni anche di notte. Non sa che con la sua condizione lavorativa e con un reddito basso ha il 42% di possibilità in più di morire prematuramente rispetto al suo datore di lavoro. L’Organizzazione mondiale della salute (OMS) ha individuato in alcol, fumo, obesità, diabete, sedentarietà, alto consumo di sale e ipertensione le principali cause di malattie non trasmissibili, come tumore e infarto. Eppure esiste un’altra causa, per lo più ignorata dalle politiche sociosanitarie, che è alla base di questi fattori di rischio: lo status socio-economico. A seconda della classe sociale di appartenenza, una persona possiede una serie di caratteristiche che influenzano direttamente la sua salute: la maggiore o minore disponibilità di denaro, di risorse, il prestigio e le relazioni sociali.

“L’appartenenza a una classe sociale svantaggiata genera vulnerabilità nell’individuo e determina disuguaglianze sociali di salute” (Joan Benach)

All’Universitat “Pompeu Fabra” di Barcellona, il professor Joan Benach, a capo del gruppo di ricerca sulle disuguaglianze in salute, da anni studia la relazione tra malattia e fattori socio-economici: “L’appartenenza a una classe sociale svantaggiata, insieme al genere, all’età, all’etnia, a fattori come il basso titolo di studio e il territorio di provenienza generano vulnerabilità nell’individuo e determinano quelle che in letteratura sono definite disuguaglianze sociali di salute”, ha spiegato ad Altreconomia. Ad ispirare le ricerche del professor Benach sono stati i risultati dello studio Whitehall, condotto a partire dagli anni Ottanta da Michael Marmot, professore di Epidemiologia e salute pubblica all’University College di Londra, che portarono alla scoperta di una corrispondenza tra posizione lavorativa e condizione di salute. In relazione a questi studi, l’Onu ha istituito nel 2005 una Commissione internazionale sui determinanti sociali di salute, presieduta dallo stesso Marmot, il cui rapporto finale del 2008, “Closing the gap in a generation: Health equity through action on the social determinants of health”, è arrivato a concludere che la principale causa di morte nel mondo è l’ingiustizia sociale.
Le nuove generazioni di studi sulle disuguaglianze continuano il lavoro iniziato da Marmot, aggiungendo maggiori evidenze che confermano questa relazione. Come il progetto internazionale LIFEPATH, uno dei maggiori studi realizzati sul nesso tra stato sociale e vulnerabilità.

I risultati, pubblicati a fine gennaio 2017 sulla rivista The Lancet, hanno dimostrato che le condizioni socio-economiche avverse possono aumentare la possibilità di morte prematura. La ricerca ha messo insieme i dati di 48 studi realizzati in 7 Paesi (Regno Unito, Francia, Svizzera, Italia, Portogallo, USA e Australia) raggruppando un campione di 1,7 milioni di persone. Se il fumo accorcia la vita di 4,8 anni, il diabete di 3,9, l’inattività fisica di 2,4 e l’eccessivo consumo di alcol di quasi 1, secondo la ricerca, lo status socio-economico riduce l’aspettativa di vita di 2,1 anni. Per questo i 31 autori dello studio chiedono all’OMS di aggiungerlo all’elenco delle altre 7 cause di malattie non trasmissibili nel programma di riduzione della mortalità “25×25”. Ad Altreconomia Silvia Stringhini, ricercatrice all’Università di Losanna e prima autrice dello studio, ha sottolineato la necessità di “porre l’attenzione sulle condizioni socio-economiche perché non solo sono un fattore di rischio per la salute ma rappresentano anche il determinante, la causa alla base, degli altri fattori”.

In Italia, sia per lo scarso interesse da parte delle istituzioni sia per la mancanza cronica di fondi destinati alla ricerca, ci sono meno dati rispetto agli altri Paesi, anche se gli studi compiuti finora confermano la tendenza internazionale. I dati dell’ultimo rapporto “Osservasalute”, pubblicato ad aprile 2017, lasciano emergere una situazione che riflette il divario sociale presente all’interno del nostro Paese: la prevalenza di malattie croniche nella classe di età 25-44 anni è pari al 4%, ma mentre tra i laureati è del 3,4%, nella popolazione con un livello di istruzione più basso sale al 5,7%. Dalle ricerche svolte dal professor Giuseppe Costa, epidemiologo all’Università di Torino, e raccolte nel volume del 2014 “L’equità nella salute in Italia”, risulta che la condizione occupazionale è uno degli aspetti che maggiormente spiega le disuguaglianze di salute: perdere il lavoro è uno degli eventi che ha più effetti sulla salute sia mentale sia fisica di un individuo. “Nel nostro Paese -dichiara Costa ad Altreconomia- la mortalità praticamente raddoppia o triplica in presenza di disoccupazione e questo vale per tutte le cause, da quelle cardiovascolari ai tumori”. Anche altri fattori riducono il benessere individuale: la condizione precaria ad esempio è causa di stress e insicurezza legata alla paura della perdita del lavoro. E la qualità del lavoro gioca un ruolo importante, svantaggio che ancora una volta riguarda soprattutto le classi disagiate. I lavori manuali o a bassa qualifica sono generalmente più esposti al rischio di incidenti o infortuni fisici e chimici. La differenza nella speranza di vita tra operai e dirigenti è di 5 anni e mezzo, e diminuisce all’aumentare della qualifica professionale. Lo stesso vale per il rischio di morte per malattia: rispetto a un dirigente d’azienda, un operaio non qualificato ha il doppio delle probabilità di morire di tumore, un operaio qualificato poco meno del doppio e un dipendente amministrativo “solo” una metà in più. Una tendenza che si ripete per tutte le cause di malattia.
Mancanza di reddito, percezione di uno scarso controllo della propria vita e del proprio lavoro, insoddisfazione e perdita di reti sociali sono la causa del peggioramento delle condizioni psicologiche.
Lo studio di questi legami è stato al centro delle ricerche del professor Costa: “Abbiamo riscontrato che, tra i lavoratori precari il rischio di un peggioramento della salute mentale è maggiore di un terzo rispetto ai lavoratori stabili, rischio che raddoppia tra i disoccupati. Si può dire, quindi, che la disoccupazione fa male alla salute”.

Se il fumo accorcia la vita di 4,8 anni, l’inattività fisica di 2,4 e l’eccessivo consumo di alcol di quasi 1, lo status socio-economico riduce l’aspettativa di vita di 2,1 anni

Un quadro che si completa se si prendono in considerazione i dati sul mercato del lavoro in Italia: al tasso di disoccupazione del 11,5% si aggiunge un 34,8% di inattivi, ossia coloro che non lavorano e non cercano un’occupazione, il +4% nei licenziamenti, +32% di utilizzo dei voucher e un’incidenza di occupati con contratti a termine che rappresenta il 14% dei dipendenti, al suo massimo dal 1993. Le politiche sanitarie ad oggi non hanno saputo fronteggiare questa emergenza e collaborare con i settori in cui è maggiore la necessità di intervento, cioè le politiche del lavoro, economiche e di inclusione sociale. “Paradossalmente hanno prodotto più benefici interventi di sostegno al lavoratore come la cassa integrazione che il sistema sanitario, che non ha reagito di fronte a queste situazioni. I dipartimenti di salute mentale non sono stati in grado di intervenire nei confronti di pazienti che, a causa della recessione, hanno cominciato a sviluppare sintomi e problemi che potrebbero essere prevenuti” conclude Costa. L’obiettivo di questi studi è spostare l’attenzione sulle cause strutturali da cui derivano queste disuguaglianze, in opposizione alla tendenza dominante che fa dipendere i problemi di salute solo dalla libera scelta degli individui, colpevoli di adottare stili di vita sbagliati. Le criticità del sistema di assistenza sanitaria italiano sono state evidenziate nel 2016 dallo studio “Health at a glance Europe” dell’OCSE, che ha sottolineato disuguaglianze tra i cittadini.

A causa di costi eccessivi, distanza geografica e tempi di attesa troppo lunghi, le esigenze sanitarie insoddisfatte sono passate dal 5% nel 2009 al 7% nel 2014. E la percentuale raddoppia tra i gruppi a reddito più basso (14%). Per contrastare problemi come questo l’epidemiologia Silvia Stringhini è convinta che sia necessario adottare politiche universalistiche: “Interventi come l’asilo nido gratuito per le famiglie a basso reddito, politiche in materia di sicurezza sul lavoro o il reddito di cittadinanza sono esempi di politiche efficaci”. Anche perché le disuguaglianze di salute, oltre ad essere evitabili, sono costose per il Paese: uno studio del 2011, basato sui dati raccolti dall’European Community Household Panel (ECHP), ha calcolato come l’impatto delle disuguaglianze sia rilevante, sia in termini umani che economici. Le stime sono state effettuate ipotizzando che le persone meno istruite abbiano lo stesso tasso di mortalità delle persone con un più alto livello d’istruzione. Nell’Unione europea, il costo in vite umane attribuito alle disuguaglianze è stimato intorno a 707mila morti, per un totale di anni di vita persi per morte e malattia pari a 11,4 milioni. Perdite che hanno un costo economico, dovuto alla diminuzione della produttività per l’uscita precoce dal mondo del lavoro, alla perdita di introiti per tasse e contributi e ai costi aggiuntivi per il sistema sanitario. Lo studio ha calcolato che la “perdita di salute” dovuta alle disuguaglianze equivale al 20% delle spese del sistema sanitario europeo ed eliminare la mortalità dovuta a questa causa comporterebbe un risparmio di 610 miliardi di euro. La perdita di produttività economica poi ammonterebbe a 14 miliardi di euro, con un impatto sul prodotto interno lordo europeo dell’1,4%.

“Nel nostro Paese la mortalità praticamente raddoppia o triplica in presenza di disoccupazione e questo vale per tutte le cause” (Giuseppe Costa)

L’inequità in salute è un fenomeno che coinvolge varie sfere della società, da quella economica alle politiche socio-sanitarie, e colpisce i singoli individui condizionandone la situazione personale. Il lavoro è solo una parte di questo fenomeno perché le disuguaglianze rendono precari tutti gli aspetti della vita. Per questo secondo Joan Benach della “Pompeu Fabra” parlare di precarietà, generalmente associata solo al concetto di contratto, è limitativo: “Io credo che bisognerebbe parlare di precarizzazione, che comprende insieme varie cose. Essere precario significa essere più vulnerabile, avere minore protezione sociale, meno diritti e un salario più basso. Significa vedere i propri progetti falliti e non avere la possibilità di programmare un futuro. Si vive da esiliati, esiliati economici”.

* Francesco Sparano è ricercatore e data manager presso l’unità di Qualità di Vita della Fondazione GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto)

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