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L’India sempre più ostile verso le minoranze

Dagli anni 90 le organizzazioni della destra hinduista e il discorso identitario hanno assunto maggiore legittimazione, diventando sempre più influenti nel panorama politico. La Corte Suprema, un tempo sentinella dei diritti civili, sembra allinearsi all’esecutivo di Narendra Modi e del Bharatiya Janata Party. Il caso della moschea Babri Masjid e del contestato Registro Nazionale dei Cittadini

“Che cosa succede a una democrazia quando il potere giudiziario agisce come braccio dell’esecutivo?”, chiede Harsh Mander, noto attivista indiano per i diritti umani. Lo scorso 9 novembre la Corte Suprema Indiana si è pronunciata su un caso molto sensibile che dovrebbe mettere fine a decenni di controversie tra le due maggiori confessioni del Paese. Il verdetto riguarda il terreno sul quale sorgeva la Babri Masjid, la moschea distrutta nel 1992 da una folla inferocita di estremisti hindu. La disputa per un pezzo di terra – sacro agli hindu quanto ai musulmani – nella cittadina di Ayodhya in Uttar Pradesh ha assunto un’enorme valenza emotiva nel dibattito politico-religioso che dalla fine degli anni 80 è diventato il simbolo del revanchismo e dell’estremismo hinduista. Il verdetto ha infine aggiudicato la proprietà del terreno agli stessi soggetti che nel 1992 orchestrano la demolizione della moschea.

Per capire il valore della sentenza bisogna partire da quel giorno di 27 anni fa che ha cambiato per sempre la storia dell’India segnando un punto di non ritorno tra la comunità musulmana e la maggioranza hinduista. Il 6 dicembre del 1992 un comizio politico promosso dalle sigle dell’estremismo hindu e appoggiato da L.K. Advani, allora presidente del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito oggi al governo, aveva riunito 150mila fedeli hindu e kar sevak (i volontari della causa), venuti ad Ayodhya da tutta l’India per il Ram Rath Yatra. Il pellegrinaggio aveva lo scopo di reclamare la terra dove allora sorgeva la Babri Masjid che gli hindu credevano (e credono ancora) fosse stata eretta nel luogo in cui nacque il dio Rama e dove un tempo sorgeva il Ram Mandir, il tempio a lui dedicato. Allora come oggi, l’obiettivo della destra hinduista è ricostruire quel tempio.

Nonostante le promesse che la Babri Masjid sarebbe rimasta intatta e un cordone di polizia schierato a sua protezione, il comizio prese una piega violenta e in poche ore la moschea eretta per l’Imperatore Babur nel XVI secolo fu demolita dalla folla. Non vi sono evidenze storiche a riprova che la moschea fosse stata costruita sulle macerie del Ram Mandir e che questo fosse stato distrutto durante la dominazione moghul in India, anche se la storia è comune a molti luoghi di culto del subcontinente, dove le dominazioni e i loro simboli si sono spesso sovrapposti, anche fisicamente. La demolizione della moschea, un atto di vandalismo politico-religioso senza eguali nella storia dell’India repubblicana, innescò una serie di scontri su base settaria in tutto il Paese che fecero oltre duemila morti. La miccia dell’odio inter-religioso, riaccesa ad Ayodhya, non tardò a fare altre vittime tra rivolte settarie e attentati terroristici (nel 1993), fino ad arrivare ai pogrom anti-musulmani che (nel 2002) insanguinarono il Gujarat, quando l’attuale primo ministro indiano, Narendra Modi -cresciuto nelle file dell’organizzazione paramilitare Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS)- era governatore dello Stato.

Dagli anni 90 le organizzazioni della destra hinduista e il discorso identitario hanno assunto maggiore legittimazione, diventando sempre più influenti nel panorama politico nazionale. Anche se in passato la Corte Suprema aveva condannato la demolizione della moschea e gli organizzatori del comizio giudicati colpevoli, la sentenza dello scorso 9 novembre, pur dichiarando di non voler scendere nel merito storico-religioso (tutt’oggi dibattuto), ha infine riconosciuto la proprietà del terreno al governo Statale (governato dal BJP) che affiderà la gestione del terreno a una fondazione hindu, ossia ai mandanti che nel 1992 orchestrarono la demolizione della moschea, aprendo le porte alla costruzione del Ram Mandir. La sentenza è un’enorme vittoria per Modi e per l’estrema destra hinduista che ha fatto della questione di Ayodhya e della ricostruzione del Ram Mandir un nodo centrale del suo manifesto politico e delle sue promesse elettorali.

La decisione della Corte, approvata all’unanimità da un pool di cinque giudici, ha di fatto legittimato l’ascesa del fanatismo nazionalista hindu e di un’India violenta, in cui la politica si interseca sempre più con la religione. Il BJP ha più volte dimostrato di voler prendere le distanze dall’identità secolare che i padri fondatori avevano immaginato per la neonata nazione. La sua idea di India è filtrata dalla lente dell’Hindutva, la dottrina che vuole fare del subcontinente un’Hindu Rashtra, uno Stato hinduista. “L’India è sempre stata molto fiera dell’indipendenza del suo massimo organo giudiziario, ma quest’indipendenza sembra essere ormai in pericolo”, spiega Harsh Mander ad Altreconomia, “stiamo progressivamente virando verso uno Stato maggioritario”. La Corte Suprema, lungi dall’essere una briglia per l’esecutivo, è diventata uno strumento di questa trasformazione. La prospettiva è terrificante per le minoranze del Paese, in primis quella musulmana, che conta 200 milioni di persone in tutto il subcontinente e negli ultimi cinque anni ha visto progressivamente ridurre il proprio spazio nella società.

I passi verso la costruzione di uno Stato sempre più ostile verso le minoranze si stanno gradualmente compiendo. Nello Stato di Assam, nel Nord-Est indiano, l’aggiornamento del Registro Nazionale dei Cittadini (NRC), una lista che contiene i nomi di tutti i residenti considerati “autentici” -creata nel 1951 per contrastare l’immigrazione illegale dal vicino Bangladesh, a maggioranza musulmana- ha escluso circa 2 milioni di cittadini, che rischiano quindi di diventare apolidi. Il risentimento verso gli immigrati bangladesi ha origini profonde in Assam, che con il Bangladesh condivide tratti di confine e ha accolto diverse ondate migratorie, in epoca coloniale ma anche negli anni della guerra tra India e Pakistan che portarono il Pakistan Orientale, oggi Bangladesh, a diventare indipendente nel 1971. Ed è proprio questa la data scelta come discriminante: solo chi è entrato in India prima del 1971 può essere considerato “indiano”.

L’operazione ha preso le mosse dalla convinzione, smentita dai fatti, che in Assam ci fossero decine di milioni di immigrati irregolari di origine bangladese. Inoltre, dei quasi due milioni di persone escluse dalla lista, solo 400mila risultano essere musulmani, il resto sono hindu e comunità tribali indigene: escluderle dall’NRC sarebbe un suicido politico per il BJP. Il partito ha sostenuto il movimento identitario in Assam, che governa da 2016, sin dalle prime ore e ha più volte rimarcato la distinzione tra “infiltrati” (musulmani) e “rifugiati” (hindu, sikh, buddisti e jainisti). Ed è sulla base di questa distinzione che Amit Shah, braccio destro di Modi e ministro dell’interno dell’attuale governo, ha promesso di correggere le storture del NRC modificando la legge sulla cittadinanza. Il Citizenship Amendment Bill (CAB), che mira a garantire la cittadinanza indiana agli immigrati irregolari di fede non-musulmana, renderebbe il progetto del NRC replicabile anche in altri Stati indiani.

“L’emendamento della cittadinanza è una violazione dei principi su cui si fonda la Costituzione indiana. Ribaltando l’idea di India come nazione secolare, il credo religioso diventerebbe quindi garanzia di cittadinanza”, spiega ancora Harsh Mander, che ha seguito molti casi di persone arrestate in Assam. Non è chiaro che cosa succederà alle persone escluse dall’NRC. Il governo sta costruendo 10 centri di detenzione per “stranieri” in Assam, ma pensare di imprigionare tutti quelli che sono stati esclusi dall’NRC è impossibile. “Probabilmente continueranno a vivere nella comunità ma privati dei diritti civili: saranno ridotti a cittadini di seconda classe, spinti ai margini, costretti a vivere una vita di semi-illegalità ed esposti a violenza”, spiega ancora Harsh Mander, “È una prospettiva terrificante e la cosa più spaventosa è che il governo vuole applicare l’NRC a tutta l’India. Anche qui, la Corte Suprema ha guidato tutto il processo: ha ordinato l’aggiornamento del Registro, ha addossato l’onere della prova agli accusati, ha prescritto le procedure, ha fissato le scadenze”. La Corte Suprema Indiana, che negli anni era un baluardo di indipendenza e la sentinella dei diritti civili, è oggi sempre più allineata all’agenda di un esecutivo divisivo che ha virato verso una pericolosa deriva maggioritaria. L’unanimità della sentenza di sabato, con tutto il suo carico emotivo e simbolico, è un affondo nell’anima secolare del Paese e, dopo il Kashmir, un’altra enorme vittoria politica per Modi.

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