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Economia / Inchiesta

L’identità dell’aceto balsamico: perché non è solo quello di Modena

Una goccia di Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia Dop prodotto dall’Acetaia San Giacomo di Novellara (RE) che ogni anno imbottiglia circa 1.500 ampolline da 100 millilitri © Luca Martinelli

La ricetta della tradizione è stata piegata a una logica industriale: l’Aceto balsamico di Modena Igp deve sostare a Modena o Reggio Emilia solo due mesi e non c’è trasparenza sulle materie prime. Un esempio di “gastronazionalismo”

Tratto da Altreconomia 243 — Dicembre 2021

L’ingresso in un’acetaia, di quelle in cui si produce l’aceto Balsamico tradizionale, lascia senza parole: la luce che filtra dall’alto illumina le batterie di botticelle, file di legni curvi dove il mosto cotto affina almeno 12 anni e fino a oltre 25, prima di essere imbottigliato in ampolle di vetro da 100 millilitri. Le batterie dell’Acetaia San Giacomo stanno nella soffitta di una cascina di Novellara, a una ventina di chilometri a Nord di Reggio Emilia. Non ci sono finestre né strumenti di controllo delle temperature, l’escursione termica (in inverno come in estate) favorisce l’evaporazione e la naturale concentrazione del mosto, che col tempo diventa Balsamico tradizionale. 

Questa stanza è un punto d’osservazione privilegiato per comprendere il conflitto tra identità artigiana e prodotto industriale di massa, quello tra Aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio Emilia, riconosciuti come Denominazione di origine protetta (Dop) dalla Commissione europea nel 2000, e Aceto balsamico di Modena (Abm), che dal 2009 può rivendicare l’Indicazione geografica protetta (Igp). Il tema è rilevante: il mercato dell’Abm vale un miliardo di euro per il 90% circa concentrato nell’export. Anche se il balsamico del supermercato non è il prodotto della tradizione, la cui storia rimanda al X secolo, un fatturato così porta l’Italia a ringhiare ogni volta che qualcuno sembri attentare alla nostra identità, come accade nel 2021 con la Slovenia: un esempio perfetto di “gastronazionalismo”, una forma di nazionalismo applicato al cibo. Il problema, forse, è che ci svegliamo fuori tempo: l’industria, di fatto, ha già cannibalizzato il prodotto artigiano, quello tradizionale. Per arrivare a capire come, facciamo un salto indietro di vent’anni: alla fine degli anni Novanta Andrea Bezzecchi decide di fare dell’aceto il suo lavoro e fonda l’Acetaia San Giacomo, a partire dalle 110 botticelle ereditate dal padre che, come tanti, produceva balsamico per uso familiare e per regalarne agli amici. L’anno dopo l’aceto Balsamico tradizionale di Reggio Emilia diventa Dop. Il disciplinare di produzione è molto vincolante: l’unico ingrediente ammesso è il mosto cotto; le uve devono appartenere a sette varietà -Lambrusco, Ancellotta, Trebbiano, Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta- ed essere coltivate nella zona di produzione; l’affinamento deve durare almeno 12 anni. 

Il disciplinare dell’Igp, approvato nel 2009, è invece un’altra cosa: si tratta di un “balsamico a metà” la cui origine risale all’Ottocento, dall’esigenza di avere un prodotto più facile e a buon mercato. Tra gli ingredienti ci sono il mosto cotto -prodotto con le sette varietà di uva tradizionale- ma anche quello concentrato, ottenuto mediante la separazione della parte liquida, ma che non ha necessariamente origine locale. Nella ricetta figura anche l’aceto di vino, che si ottiene con procedimenti industriali in 24/48 ore. In più, può essere aggiunto caramello (fino al 2%) ed è previsto l’uso di un’aliquota indefinita di “aceto vecchio di almeno dieci anni”. Soprattutto, l’affinamento dura 60 giorni, cioè appena due mesi, ed è l’unica parte del processo produttivo che deve svolgersi per forza nelle province di Modena o Reggio Emilia. 

Abbiamo provato a chiedere al Consorzio e all’ente di certificazione Csqa informazioni circa la provenienza dei mosti. Il primo ci ha risposto che “il Consorzio non dispone di questi dati”. Il secondo che “il Csqa non verifica la provenienza geografica delle materie prime”, aggiungendo che “oggi la totalità del mosto utilizzato per la produzione di Aceto balsamico di Modena ha provenienza italiana”. Niente è dato sapere, invece, sulla provenienza degli altri aceti (quello di vino e quello di vino invecchiato) ammessi nel disciplinare. Eppure, l’assessore regionale all’Agricoltura dell’Emilia-Romagna Alessio Mammi parla dell’Aceto balsamico di Modena Igp come di “una specialità […] la cui identità va difesa a ogni costo contro qualsiasi tentativo di imitazione e/o usurpazione del suo buon nome”. Le sue affermazioni del novembre 2021 erano dirette contro la Slovenia, che ha chiesto all’Unione europea di poter commercializzare “aceti balsamici”. 

Per Mammi è uno “scippo”, anche se l’usurpazione riguarda qualcosa a cui bastano 60 giorni per ottenere cittadinanza e che non alimenta economie locali, ad esempio quelle agricole. È quasi surreale un conflitto di questo tipo tra l’Italia e un Paese con cui si fanno accordi di polizia per il controllo delle frontiere ma che minaccerebbe il nostro patrimonio agroalimentare. Il linguaggio bellicoso non è solo quello di Mammi: “Faremo tutto il possibile per difendere l’Aceto balsamico di Modena contro qualsiasi indebito attacco”, ha detto a novembre Gian Marco Centinaio, sottosegretario di Stato per le Politiche agricole alimentari e forestali nel Governo Draghi. Due settimane prima, il 21 ottobre, un tweet di Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna è stato ancora più ostile: “Difendiamo il nostro aceto balsamico. La Regione si oppone alla scelta della Slovenia di applicare la norma che dà il via libera alla vendita come ‘balsamico’ di qualsiasi tipo di aceto, aggirando le normative europee a difesa di prodotti di denominazione controllata. Basta!”. 

Il disciplinare di produzione dell’Aceto balsamico tradizionale Dop è molto vincolante: un solo ingrediente, il mosto cotto, che deve essere ricavato solo da uve di sette varietà, coltivate nella zona di produzione, e affinare almeno 12 anni

Secondo Bonaccini il comportamento della Slovenia aggirerebbe le norme europee. Il suo tweet è accompagnato da un’immagine di un’ampolla di aceto balsamico chiusa con la ceralacca, il cui contenuto è un prodotto molto denso. Sembra proprio Balsamico tradizionale. Qui dobbiamo ricordare, infatti, che stiamo attraversando un mondo fatto di tre indicazioni geografiche, le due Dop del tradizionale a Modena e a Reggio Emilia e l’Igp di Modena. Quello allegato al tweet di Bonaccini sembra un prodotto come quello di Acetaia San Giacomo. Di tradizionale ogni anno se ne producono tra le province di Modena e Reggio Emilia circa diecimila litri. È un prodotto di nicchia. A differenza dell’Aceto balsamico di Modena, quello che si compra al supermercato, non serve a condire l’insalata. Il secondo, però, è un prodotto industriale da cento milioni di litri all’anno. “Nel 2021 le stime fanno prevedere un valore al consumo di circa 1,2 miliardi di euro”, ha fatto sapere il Consorzio tutela Aceto balsamico di Modena, rispondendo ad Altreconomia.

© Luca Martinelli

Questi numeri spiegano i toni accesi della politica: siamo di fronte a uno dei blockbuster tra le Igp italiane, che rappresenta il quinto prodotto Dop o Igp per valore della produzione. Come evidenzia il “Rapporto Ismea-Qualivita 2020 sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane Dop, Igp” l’export nel 2019 ha raggiunto un valore di 891 milioni di euro e “rappresenta quasi un quarto del totale delle esportazioni dell’agroalimentare italiano Dop Igp”. Di fronte a questi numeri, le botticelle dell’Acetaia San Giacomo, che produce ogni anno 1.500 ampolline da 100 millilitri, paiono una barchetta che naviga a fianco di un veliero pirata. Con il quale si è scontrata. “La Dop da sola non permette la sostenibilità economica di nessuna azienda. Per questo produco, come molti altri, anche un balsamico, che etichetto come ‘Balsamico San Giacomo’, senza rivendicare l’Igp. Lo faccio perché uso comunque un unico ingrediente, il mosto cotto”, spiega Bezzecchi, che ha anche un’azienda agricola a conduzione biologica, dove produce l’uva da cui ricava il mosto e ne acquista da altri tre produttori uniti in filiera e tutti certificati. Sull’etichetta del Balsamico San Giacomo campeggia anche la scritta: balsamico senza aceto. Intende dire che non segue il disciplinare Igp. Nel 2014 Bezzecchi è stato diffidato dal Consorzio tutela Aceto balsa-mico di Modena con una raccomandata perentoria dall’uso del termine “balsamico” in etichetta. Una piccola guerra commerciale, simile a quella oggi in corso con la Slovenia. 

“Prima ci siamo giocati la tipicità del nome, volgarizzando la denominazione dell’Aceto Balsamico di Modena. Oggi ci svegliamo e la vorremmo proteggere dal nemico esterno, la Slovenia. È l’essenza del gastronazionalismo” – Michele Antonio Fino

L’etichetta Bezzecchi non l’ha mai cambiata. A dicembre 2019 una sentenza fondamentale della Corte di giustizia dell’Unione europea ha segnato un punto anche a suo favore: da quel momento sappiamo che l’Aceto balsamico di Modena non è l’unico che si può chiamare aceto balsamico. Il contenzioso era nato dal ricorso di un’azienda tedesca, di nome Balema, che commercializzava prodotti a base di aceto tedesco utilizzando il termine “balsamico”. “La sentenza Balema è la più grande rimozione di massa possibile”, sottolinea Michele Antonio Fino, professore di Diritto romano all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (CN) e autore con Anna Claudia Cecconi di “Gastronazionalismo”. Fino è deciso: “Prima ci siamo giocati la tipicità del nome, volgarizzando la denominazione dell’Aceto balsamico di Modena puntando tutto sull’Igp invece di alimentare la specialità artigiana. Oggi ci svegliamo e la vorremmo proteggere dal nemico. Quella a cui assistiamo è l’essenza del gastronazionalismo: il problema è sempre fuori”.

Stefano Patuanelli, ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali del Governo Draghi. A inizio anno ha preso posizione contro presunti “indebiti attacchi” nei confronti dell’Aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio Emilia © gov.it

Il rischio per il titolare di Acetaia San Giacomo è che l’Aceto balsamico di Modena Igp cannibalizzi l’aceto Balsamico tradizionale. Oggi anche l’aceto contenuto nelle bottiglie in vendita nei supermercati diventa sempre più scuro e più denso, caratteristiche del più pregiato tradizionale. Queste caratteristiche, però, non sono frutto del tempo, ma di macchine, le stesse che permettono di ricavare dall’aceto anche glasse o sfere. 

Quello che è certo, però, è che il prezzo medio riconosciuto dal mercato al produttore per un litro di Aceto balsamico di Modena Igp è salito da meno di 3 euro al litro a circa 4. I valori di mercato sono diffusi dalla fondazione Qualivita nata per valorizzare i prodotti agroalimentari e vitivinicoli Dop e Igp italiani. A presiederla è Cesare Mazzetti, che guida anche Acetum Spa, azienda di Cavezzo (MO) leader nella produzione e distribuzione di Aceto balsamico di Modena Igp. Il comitato scientifico, invece, è presieduto da Paolo De Castro, parlamentare europeo dal 2009 dopo esser stato anche ministro dell’Agricoltura (dal 1998 al 2000 e dal 2006 al 2008). Anche lui è convinto che la richiesta della Slovenia rappresenti “un grave pregiudizio per le produzioni italiane”, come si legge in un’interrogazione del febbraio 2021 alla Commissione europea. La questione è aperta. 


CHE COS’È IL “GASTRONAZIONALISMO”

In Romagna la piadina è lo street food per eccellenza ed è un prodotto da mangiare necessariamente fresco. Il disciplinare di produzione della Piadina romagnola Igp, approvato nell’ottobre del 2014, è però tarato su un altro tipo di prodotto, quello industriale, da confezionare e che volendo può anche essere congelato fino a 12 mesi. “Quel disciplinare costruisce in modo artificiale un vantaggio competitivo per gli industriali della piadina, attraverso un legame storico col prodotto tradizionale che non può essere provato”, spiega Michele Antonio Fino. La piadina è insieme all’aceto balsamico uno dei casi studio usati da Fino e Anna Claudia Cecconi per raccontare il “Gastronazionalismo” (People, 2021, 256 pagine, 18 euro), una forma di banal nationalism, in cui “il cibo interpreta un ruolo fondamentale e insostituibile, tanto come aggregatore sociale quanto come marcatore della diversità”. I conflitti innescati possono riguardare Paesi esteri (come la Croazia, con il suo “Prošek”, il vino passito il cui nome è troppo simile al Prosecco per cui ha chiesto il riconoscimento della denominazione) ma anche confini interni, come l’industriale di Modena a cui è stato impedito di chiamare Piadina romagnola il prodotto realizzato seguendo la ricetta. L’Italia -fiera dei suoi 838 prodotti a indicazione geografica- non ha capito, è la tesi degli autori, per quale motivo l’Europa ha scelto, ormai trent’anni fa con il Regolamento europeo 2081 del 1992, di istituire le categorie della Denominazione di origine protetta (Dop) e dell’Indicazione geografica protetta (Igp). 

 

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