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Il sistema (illegale) di detenzione dei migranti in Libia va smantellato

© MSF

I combattimenti hanno reso ancora più dure le condizioni nei centri. Fra bombardamenti, malnutrizione e malattie. La rubrica di Luigi Montagnini, medico senza frontiere

Tratto da Altreconomia 217 — Luglio/Agosto 2019

La Libia non è un porto sicuro. I combattimenti degli ultimi due mesi hanno causato 90mila sfollati e più di 3.800 feriti tra la popolazione civile. Gli ospedali devono far fronte a un numero sproporzionato di emergenze rispetto alla loro capacità. Molte famiglie sono bloccate dai combattimenti e non sanno quando potranno fare ritorno a casa. Quelli che però subiscono maggiormente le conseguenze del conflitto sono i migranti e i rifugiati: in Libia se ne contano circa 700mila e, a differenza della popolazione libica, hanno pochissimi spazi dove rifugiarsi e non hanno la stessa possibilità di accesso a servizi e assistenza. Circa l’1% è poi detenuto arbitrariamente, indefinitamente e senza alcuna assistenza legale, nelle carceri del ministero dell’Interno libico e del suo Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale (DCIM). Anche in periodi di relativa calma, i migranti nei centri di detenzione sono costretti a condizioni pericolose e degradanti. Il conflitto però ha reso queste persone ancora più vulnerabili e nei centri situati nelle zone di conflitto si registrano tassi elevati di disturbi mentali, di infezioni (soprattutto tubercolosi) e di malnutrizione.

Lo hanno raccontato lo scorso 4 giugno due capimissione di MSF in Libia, Sam Turner e Julien Raickman, testimoni diretti di quanto accade nel Paese. I migranti bloccati nei centri non hanno alcuna possibilità di fuga, neppure durante i combattimenti. La guerra rende ancora più difficili le cure mediche e il soddisfacimento dei bisogni primari: igiene, acqua, cibo. Mancano spazio vitale (fino a 0,7 metri quadrati per persona), elettricità e ventilazione. Molti di questi centri, semplicemente, non sono stati costruiti per uso umano. Nel marzo 2019 MSF ha pubblicato un rapporto sullo stato di malnutrizione nel centro di detenzione di Sabaa, dove un quarto delle persone detenute sono malnutrite o sottopeso. I minori di 18 anni, un terzo dei reclusi, sono i più a rischio di sviluppare malnutrizione severa. Le persone detenute nel centro ricevono solo un pasto ogni due o tre giorni, mentre i nuovi arrivi possono aspettare fino a quattro giorni prima di ricevere del cibo. In un altro campo, quello di Qasr Bin Gashir, a Sud di Tripoli, nel mese di aprile 700 persone disarmate e indifese, hanno subito un attacco da un gruppo militare e 14 di loro, alcuni minorenni, sono stati feriti. Altri centri, vicini alle zone dei bombardamenti aerei, sono stati direttamente colpiti. Durante i combattimenti, alcuni centri sono stati evacuati d’urgenza e i migranti sono stati trasferiti, ma non ci sono spazi sicuri in Libia che possano accogliergli.

7% l’aumento della prevalenza di malnutrizione nel campo di Sabaa da gennaio a febbraio 2019, dal 17 al 24%. La malnutrizione severa, assente a gennaio, è risultata del 2% a febbraio (fonte: MSF, “Rapporto sui risultati degli screening nutrizionali nel centro di detenzione di Sabaa”, marzo 2019)

Negli ultimi due mesi alcuni governi internazionali, tra cui anche l’Italia, si sono sforzati per creare dei corridoi umanitari per questi uomini e donne, ma fino ad ora solo 300 detenuti sono stati salvati dall’inferno libico. Nello stesso periodo più di 1.200 persone, quattro volte tanto quelle salvate, sono state intercettate dalla guardia costiera libica mentre cercavano di fuggire via mare e riportate negli stessi centri da cui erano fuggite. Il sistema di detenzione dei migranti in Libia è illegale. Non c’è altra soluzione che l’impegno internazionale per smantellarlo e per garantire corridoi umanitari di evacuazione per i prigionieri lì rinchiusi. Lasciare poi che le persone soccorse in mare vengano riportate forzatamente in queste condizioni disumane, non è accettabile.

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese, Londra e Genova, oggi vive e lavora ad Alessandria, presso l’ospedale pediatrico “Cesare Arrigo”. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

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