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Cultura e scienza / Opinioni

La libertà dell’artista scolpita da Michelangelo

Attento a dissimulare il suo amore per la Repubblica, Buonarroti rese ambiguo il suo impegno agli occhi dei committenti. Accade oggi. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 211 — Gennaio 2019
Il ritratto di Bruto scolpito da Michelangelo

Michelangelo non voleva farli, i ritratti. Gli pareva che non fosse così importante ricordare per sempre la faccia di qualcuno: quando gli fecero notare che una sua statua non assomigliava al principe che avrebbe dovuto rappresentare, rispose: “A chi importerà tra mille anni?”. Forse proprio per questo Michelangelo accettò invece di fare il ritratto (naturalmente ideale) di Bruto, vissuto quasi milleseicento anni prima. Bruto non è una figura amabile: perché uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare, quando questi voleva uccidere la Repubblica e farsi re. Per secoli ci si era chiesti: si può uccidere un tiranno? La libertà di tutti vale la vita del nemico di questa libertà? Il poeta che Michelangelo amava di più, Dante, aveva scritto che la libertà è così dolce che gli uomini sono disposti a morire pur di non perderla. A morire: ma anche a uccidere?

Eppure Michelangelo volle scolpirlo, questo ritratto di Bruto. Perché ai suoi giorni il verso di Dante sulla libertà era scritto sulle bandiere verdi di chi combatteva per la libertà di Firenze, mortalmente minacciata da un nuovo Cesare: Cosimo I de’ Medici, insieme magnifico signore e terribile tiranno. Nel 1538 si uccise in prigione Filippo Strozzi, il capo della resistenza che combatteva contro Cosimo. Egli lasciò una lettera bellissima e terribile, bagnata dal suo stesso sangue.

E in quella lettera Filippo chiamava Cosimo con il nome del tiranno ucciso da Bruto: “E te, Cesare, prego con ogni reverenza t’informi meglio dei modi della povera città di Firenze, riguardando altrimenti al bene di quella, se già il fine tuo non è di rovinarla”. Michelangelo, che pure era cresciuto in casa Medici, la pensava come Filippo Strozzi (al cui figlio donò due dei suoi amatissimi Prigioni): amava la libertà e la Repubblica, e quando toccò a lui la difese sul serio, lavorando a rafforzare le mura di Firenze, e poi rifiutandosi di progettare la Fortezza da Basso, che ha i cannoni rivolti verso la città. Quando, infine, fu chiaro che la partita era persa per sempre, non volle rimetter più piede nella sua Firenze ridotta in schiavitù.

Il Bruto è un’opera aspra e difficile: con il suo collo taurino, lo sguardo duro, i capelli irrisolti come il nostro giudizio su di lui e sul suo gesto terribile. Quando finalmente entrarono in possesso di questo marmo (commissionato da Donato Giannotti per il cardinale Nicolò Ridolfi: due accaniti antimedicei, partigiani della libertà fiorentina), i Medici lo esposero nelle loro collezioni, ma con alcuni versi latini che lo ‘redimevano’ giocando sul non finito dicendo che “Mentre lo scultore ritraeva Bruto, pensò al crimine compiuto da quello, e se ne astenne”. Un velo di ipocrisia che cerca di coprire il coraggio libertario di Michelangelo: il quale era prudentissimo e attento a dissimulare, e dunque quando dovette tornare a lavorare per i Medici non fece trasparire il suo amore per la Repubblica.

Ma che teneva anche molto alla propria libertà, e si guardò bene dal trasformarsi in un cortigiano. L’ambiguità dell’impegno di Michelangelo non riguarda solo lui: essa è profondamente connessa da una parte all’ambiguità dell’arte figurativa (per cui la stessa opera può essere tradotta in parole e concetti assai diversi e anche opposti), dall’altra alla difficoltà degli artisti di essere liberi dalle istanze dei committenti dai quali dipendono sul piano economico. Tutte le contraddizioni che -a torto a o ragione- vengono imputate agli artisti politicamente schierati (da Picasso ad Ai Weiwei, l’artista cinese dissidente dei nostri giorni) affondano proprio qua le loro radici.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia.

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