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Liberi e diversi

Un centinaio i contadini, panificatori e pastai, tecnici, professori e appassionati, sono giunti a Peccioli (Pi) per “Coltiviamo la diversità!”, il secondo “incontro europeo di scambio di conoscenze e pratiche sulla coltivazione e la trasformazione dei cereali” organizzato dalla Rete semi rurali (www.semirurali.net).

Hanno le mani sporche di farina. Non di terra, come pensavo. Di acqua e farina, che con questo sole, e il vento, si seccano subito. Sono un centinaio i contadini, panificatori e pastai, tecnici, professori e appassionati, giunti a Peccioli (Pi) per “Coltiviamo la diversità!”, il secondo “incontro europeo di scambio di conoscenze e pratiche sulla coltivazione e la trasformazione dei cereali” organizzato dalla Rete semi rurali (www.semirurali.net).
Quattro giorni, dal 12 al 15 giugno scorsi, di laboratori e lezioni sul pane con la pasta madre e la pasta di antichi cereali, ma anche visite in campo, sulle colline pisane dell’azienda agricola biologica Floriddia (www.ilmulinoapietra.it). Per l’occasione, infatti, la Rete semi rurali ha raccolto una collezione di frumenti duri e teneri, farri, orzi, segali e altri cereali di varietà locali e di antica costituzione in un “campo-catalogo” di 200 parcelle da 3 metri quadri l’una.
Lo scorso autunno i piccoli contadini di Francia, Spagna, Romania e Italia del coordinamento europeo “Liberiamo la diversità!” -di cui la Rete semi rurali fa parte (il dossier di Ae sul coordinamento si può scaricare qui: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3788) hanno donato i semi da loro selezionati perché fossero qui coltivati, accanto alle parcelle sperimentali per la ricerca sulle popolazioni di frumento duro, tenero e orzo. E se le piogge dell’inverno hanno reso difficile la cura del campo-catalogo -“alcune di queste parcelle sono state sommerse da 10 cm d’acqua per alcuni mesi”, spiega Riccardo Bocci della Rete semi rurali-, ci danno, tuttavia, la possibilità di “avere un punto di osservazione privilegiata per capire come i cambiamenti climatici influenzano il nostro modo di fare agricoltura e quali varietà sono più adatte”. Piccole prove di “biodiversità applicata”, che si pratica direttamente in campo, trasmettendo le conoscenze che i semi racchiudono, per “una società rurale dei piccoli agricoltori che coltivano varietà locali”.

La definizione è di Jean François Berthellot, contadino aquitano della rete Semences paysannes (www.semencespaysannes.org), gilet e una spiga di grano duro nel cappello. Nella sua Ferme du roc, a Port Sainte Marie -40 ettari gestiti in famiglia, per 200 antiche varietà di grani coltivati da 15 anni-, ospitò nel 2009 uno scambio tra 150 contadini di 18 paesi sul tema delle vecchie varietà di cereali e della loro trasformazione. “Partecipando a quell’esperienza pensai che avremmo dovuto organizzare qualcosa di simile in Italia”, Rosario Floriddia è un piccolo contadino dallo sguardo vispo. Dal 1987 nell’azienda biologica che gestisce con la moglie Sonia e il fratello Giovanni si coltivano solo grani di antiche varietà. Due sedie dietro al pastificio, davanti a noi il poggio dell’azienda dove la sulla rossa nutre la terra, Rosario racconta l’esperienza di “un’azienda viva dal punto di vista agronomico e umano”. Da un anno e mezzo -con l’apertura del pastificio e del forno e un investimento di 2 milioni di euro- 300 ettari biodiversi danno lavoro a 11 persone, di cui 8 ragazzi (prima a lavorare erano in 4). “Rispettando la terra e i semi è possibile generare benessere e occupazione”, è questo quel che vuole dimostrare Rosario, che guarda a “un’economia dal giusto passo, che dà lavoro senza distruggere il futuro”.

Mentre parliamo, nel pastificio è in corso un laboratorio sul pane e la pasta madre animato dai francesi. Loro, “impastano il pane come fosse piuma”, sorride Giandomenico Cortiana, che a Vicenza coltiva il vecchio mais Marano. Per riuscirci, c’è un segreto (forse più di uno, ma questo è condiviso): lavorare il pane poco, con dolcezza e lasciare che assorba l’acqua lentamente, in un gioco di movimenti che “avvicini il grano all’umano”, come dice François. Le mani sue e di Marc Dewalque, artigiano del pane belga, modellano l’impasto in una grande madia grande di faggio: “Il lievito ha la firma del falegname”, dice Marc, spiegando che questo legno non lascia schegge, perciò è adatto ad impastare. Mentre le pagnotte lievitano al caldo, accanto al forno del pastificio, coperte da un telo di lino, tutt’attorno c’è un fermento di domande, traduzioni, scambi di saperi sull’arte del pane, pasta madre che passa di mano in mano.

Anche Claudio Pozzi -che con la Rete semi rurali segue il biocentro Pertusati di Rosignano Marittimo (Li, www.biocentropertusati.it), luogo di ricerca e pratica sui temi della biodiversità agricola alimentare- si aggira tra le stanze del pastificio con una bacinella gialla, coperta da un telo bianco, dove conserva la pasta madre rinfrescata. “Mi hanno chiesto come fosse stata fatta, ma ha 130 anni e non lo so!”, sorride. Ma basta un po’ di pazienza e poi -donandomene un barattolino, impastando acqua e farina a partire da un solo dito di madre: “Riparto sempre da tracce”, dice-, quella storia la racconta. C’è uno scambio continuo, su queste colline assolate. Giampietro, che avevo conosciuto a Napoli alcuni anni fa, lo ritrovo qui, a sfornare pizza e freselle con i suoi compagni di “Terra e libertà”, un collettivo che si occupa di “agricoltura naturale, tradizioni popolari e resistenza contadina” (vazapp.noblogs.org). Nel deposito accanto, trasformato per l’occasione in uno spazio di dibattito, la piccola pannocchia di mais Marano si perde tra le sue mani, mentre Giandomenico Cortiana ne racconta la storia. Per tutelare dalle mire delle grandi ditte sementiere questa antica varietà dell’altovicentino -selezionata nel 1890 a Marano Vicentino dall’agronomo Antonio Fioretti- è nato nel 1999 un consorzio di tutela (www.maismarano.it) che riunisce oggi 20 soci. Da due anni, la cooperativa mais Marano macina i chicchi coltivati dai soci e si occupa della commercializzazione della farina, usata principalmente per la polenta.

 

Polenta e le dolci paste di meliga si fanno anche con gli antichi mais piemontesi. I produttori (oggi sono un centinaio), riuniti in associazione dal 2004, seguono tutta la filiera: dall’autoproduzione dei semi, alla coltivazione, alla macinatura in mulini a pietra. Le 7 varietà di mais piemontesi sono state recuperate grazie a una collaborazione decennale tra gli agricoltori e i ricercatori del Crab, Centro di riferimento per l’agricoltura biologica (www.ilcrab.it) chiuso lo scorso dicembre per il mancato sostegno da parte della Provincia e della Regione. Mentre si prepara la “mosa” -una crema di farina di mais, antica ricetta della tradizione vicentina-, Sandra Spagnolo mi racconta che lei e gli altri 5 ricercatori che da 10 anni lavoravano per il Crab, licenziati, hanno deciso di mantenere il gruppo per continuare con la ricerca. Da marzo stanno seguendo per Aiab Piemonte due progetti. “Uno sulle biodiversità orticole con la Francia; l’altro sull’avviamento di un’azienda agricola sociale finanziata dalla Diaconia valdese, che prevede la formazione di 15 giovani”, spiega.

Giuseppe Li Rosi, siciliano, ha registrato proprio in questi giorni le prime 3 varietà da conservazione (quelle tradizionalmente coltivate in particolari località e minacciate da erosione genetica) della Sicilia: farro lungo -Strazzavisazz o Settecentanni-, Maiorca e Timilia. Quando ne pronuncia i nomi in siciliano mi fa sorridere: contadino corvino laureato in lingue che da 14 anni fa biologico a Raddusa (Ct), dice che “la lingua è un altro campo di grano”. Un campo aperto come quello di “Terre frumentarie” -così si chiama la sua azienda, www.terrefrumentarie.it-, dove essere “un agricoltore indipendente, dove conservare e riprodurre i grani autoctoni siciliani, per una produzione più salubre e ricca, che nutre”. Questi grani li troviamo anche in campo, guidati da Salvatore Ceccarelli e Stefano Benedettelli, che da anni lavorano al fianco dei piccoli contadini: il primo, sul tema del miglioramento genetico partecipativo, mettendo “la diversità nelle mani degli agricoltori”; l’altro, all’Università di Firenze, dove coordina un gruppo di ricerca che si dedica al recupero di antiche varietà di frumento e allo studio delle loro ricadute sulla salute.
I giovani Elena, Gabriele, Giovanni, Marco e Silvia, non hanno forse una lunga esperienza, ma portano una grande energia, guardando al futuro: a diverse latitudini, impastano pani e focacce per venderli ai Gruppi d’acquisto solidale dei loro paesi. Il pane di Giovanni l’avevo già assaggiato lo scorso novembre a Colle Val d’Elsa (dal numero 145 di Ae, http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3831): il vecchio forno a legna di Colle alta che stava recuperando con altri 9 fornai riuniti nell’associazione “Al di là del pane” è stato inaugurato la scorsa settimana, per un uso collettivo, a rotazione.

Dafne, con Lucilla e Mariangela, è l’anima della Casa del cibo di Roma (www.casadelcibo.it), che descrive come un “cordone ombelicale tra città e campagna per approdare a dei contenuti culturali, attraverso il piacere del cibo e della cucina”. Nell’idea originale, nel 2005, la Casa del cibo doveva essere “una casa internazionale della cucina popolare”, spiega Dafne. “Ma mi sono accorta che mancavano i contadini sui quali volevo fondare questa idea di cucina: rischiava di mancare la materia prima”. Da qui l’idea di riportare al centro del progetto la relazione con la piccola agricoltura e le pratiche culinarie “popolari, di radice matriarcale, domestiche”. Oggi la Casa del cibo propone corsi di cucina per italiani e stranieri, lezioni sulla panificazione con pasta madre, oltre a una biblioteca di testi specializzati. “Ci rivolgiamo a popolazioni inurbate private di una cultura rurale”, dice Dafne, che si prepara a impastare un pane con le farine di Rosario.

La degustazione dei pani di queste giornate è una lunga tavolata di saperi contadini sfornati in una variabilità di forme e sapori. Qui il pane si annusa, prima di assaggiarlo: lo si prende con le mani ancora infarinate ed è allora che olfatto e tatto, prima ancora del gusto, entrano in gioco su queste colline. C’è spazio anche per le paste. Tamara ha un caschetto bianco corto e una voce importante che incanta tutti mentre impasta dei ravioli colorati: blu, dalla buccia di melanzane, e verde, d’erbe e spinaci. “Ho sempre avuto il forno a legna in casa -dice mentre ci svela la ricetta della sua torta di pane raffermo-, ma prossimamente vorrei aprire un piccolo negozio a Prato, per far conoscere i sapori di una volta”. Finisco di appuntare sul taccuino le sue parole, quando m’accorgo che s’è trasformato in spiga. La copertina infarinata, come le mie mani. Tra le pagine, chicchi di grano e briciole di pane.

 

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