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Esteri / Reportage

Nella “roccaforte di Hezbollah”, dove il Libano sta cambiando volto

Il sobborgo di Dahieh, a Sud della capitale Beirut, è una sorta di evoluzione in quartiere di un immenso campo profughi, popolato sopratutto da chi ha radici altrove. Il racconto del mutamento dell’impianto urbanistico e dei costumi

Tratto da Altreconomia 214 — Aprile 2019
Una vista notturna dall’alto di Beirut, capitale del Libano © Oussama Obeid

Fino al ritiro israeliano dal Libano in seguito alla resistenza armata delle milizie di Hezbollah (nota come la “Liberazione”), nel 2000, Dahieh era un agglomerato di smog, macerie e desolazione, messo a dura prova dai bombardamenti. Anche agli occhi degli stessi libanesi appariva come un luogo inospitale, grigio e pericoloso, caratterizzato da un alto grado di conservatorismo religioso. L’area -che letteralmente significa “sobborgo”, un enorme spazio urbano diviso in quattro municipalità che si estendono a Sud della capitale Beirut: Hret Hreik, Ghobeiri, Hadath e Burk el Barajneh- è un luogo di migrazione interna: gran parte dei suoi quasi 500.000 residenti -circa il doppio di quelli della municipalità di Beirut- sono infatti nativi dei villaggi del Sud, molti dei quali sono stati fatti evacuare a partire dal 1982, durante l’invasione israeliana, sullo sfondo della guerra civile che ha insanguinato il Paese per circa 15 anni (1975-90).

Prima ancora che un mosaico di gruppi confessionali, il Libano è oggi un Paese di profughi provenienti da altri Paesi. Esteso quanto l’Abruzzo, nel Paese dei Cedri vivono circa 6 milioni di persone, anche se un censimento ufficiale della popolazione non viene effettuato dal 1932. Di questi sei milioni, circa un milione e mezzo sono i profughi siriani fuggiti dal conflitto iniziato nel 2011. Altri cinquecentomila circa sono i palestinesi rifugiatisi nel Paese a partire dal 1948, anno della fondazione di Israele, “Nakba” (“catastrofe”, in arabo). Andando a ritroso nella Storia, poi, c’è la numerosa comunità armena, emigrata a partire dal genocidio del 1915-16.

Nessuno degli over 50 di Dahieh è nato qui: quasi tutti sono sfollati interni, perlopiù ex agricoltori (e i loro figli) che 30 anni fa hanno abbandonato la bucolica placidità, violata dalla guerra, e sono migrati verso Nord in cerca di lavoro, alimentando il rapido processo di urbanizzazione. Dahieh è, in un certo senso, l’evoluzione in quartiere di un immenso campo profughi, popolato sopratutto da chi ha radici altrove, ed al suo interno di veri e propri campi profughi palestinesi (oggi abitati anche da profughi siriani) ce ne sono due: Chatila e Burj El Barajneh, con quest’ultimo nel tempo trasformatosi in una delle sue quattro municipalità.

Quest’area è conosciuta come la “roccaforte di Hezbollah”, il radicato partito politico sciita e filo iraniano. A partire dagli anni Ottanta, quelli dell’inizio della migrazione dal Sud di decine di migliaia di contadini musulmani sciiti, Dahieh ha assunto le caratteristiche di una piccola città-stato all’interno dello Stato, già di per se frammentato dalle logiche settarie del conflitto. La sua evoluzione urbanistica, accompagnata da quella dei costumi e delle relazioni sociali, è utile anche a capire l’evoluzione della stessa Hezbollah come fenomeno socio-culturale, che influenza o partecipa alle abitudini degli abitanti.

A cavallo dei due millenni il centro di Beirut ha cambiato volto, attirando numerose critiche legate alla sistematica privatizzazione di spazi pubblici (preceduta da espropri), la municipalità di Ghobeiri -la più estesa delle quattro ed oggi anche la più ricca, popolata da molti imprenditori con un passato all’estero o da ex residenti del centro di Beirut- apre ad una serie di investimenti edilizi volti a rendere più vivibile l’area, molti dei quali opera di imprese legate ad Hezbollah e su impulso dell’allora sindaco Hajj Abu Said Al Khansa, importante membro del partito. Il ritiro degli israeliani ha accelerato questo processo.

A cavallo dei due millenni il centro di Beirut ha cambiato volto, attirando numerose critiche legate alla sistematica privatizzazione di spazi pubblici

Il ristorante Al Saha, ad esempio, apre sulla strada che conduce all’aeroporto nel 2001, grazie ai fondi della Al Mabarrat, associazione caritatevole fondata dall’ayatollah Muhammad Hussain Fadlallah. Si trova all’interno di un complesso di diecimila metri quadrati che comprende un ristorante, un boutique hotel, un mercato, un museo, una sala per la recitazione delle poesie, una libreria e dei campi sportivi. Ricorda un castello, con tanto di torrioni, mentre all’interno è rivisitata la tradizione di un villaggio arabo.

Solo fino a una ventina di anni fa, per una coppia di persone sposate a Dahieh sarebbe stato sconveniente farsi vedere insieme, seduti al tavolino di un ristorante: agli occhi della società sarebbe apparso come un “appuntamento galante”, un indicatore implicito di intimità, come se la coppia nel farsi vedere in pubblico volesse annunciare l’intenzione di consumare in seguito un rapporto sessuale, squarciando quel velo che separa rigidamente la dimensione pubblica da quella privata.

Oggi, questa “nozione” morale non esiste praticamente più. In luoghi come Al Saha si vedono coppie richiedere tavoli negli angoli più tranquilli dell’ampio cortile, e in generale l’interazione tra persone -pur in un ambiente “islam compliant”, con l’assenza di alcolici, il cibo halal– appare più libera. Questo discreto processo di “liberalizzazione controllata” va di pari passo con il più ampio processo di “apertura”, di adattamento ai cambiamenti sociali messo in moto da Hezbollah a inizio millennio, in seguito alla maturazione di nuove generazioni istruite ed urbanizzate, figli e nipoti degli emigranti dal Sud, che vivono diversamente dai loro genitori il concetto di religiosità.

Sa’d Harīrī, attuale primo ministro del Libano. Il 4 novembre 2017 aveva annunciato le sue dimissioni poi respinte e revocate © flickr.com/photos/worldeconomicforum

Nel Monoprix all’interno del Beirut Mall -un enorme centro commerciale con tutti i grandi marchi occidentali- l’alcol viene venduto in un settore distinto, accontentando ogni clientela, ma viene pagato in casse separate, dando al pio avventore musulmano perlomeno l’impressione di non dover maneggiare del denaro “contaminato”, poiché utilizzato per la compravendita di alcolici.

Un’apertura che è a sua volta riflesso della “libanizzazione” del “Partito di Dio”, cioè della sua trasformazione graduale da milizia settaria filo iraniana nata durante l’invasione israeliana a partito politico, o meglio ancora a rappresentante di un territorio, di un segmento di società e delle sue istanze, più interconnesse con quelle del tessuto sociale nazionale. Sopratutto a partire dal citato ritiro israeliano dal Sud nel 2000, che ha fatto guadagnare popolarità ad Hezbollah tra i libanesi, e di riflesso ha contribuito alla maggiore inclusione sociale degli sciiti, tradizionalmente stigmatizzati nelle città a causa delle loro origini rurali.

L’allargamento della base di consenso è anzitutto figlia dei loro alti tassi di natalità, ma anche di un cambiamento nella percezione comune, che ha cristallizzato il processo di identificazione. “Non mi piace molto il loro approccio in politica, l’autorità che i suoi uomini hanno su un territorio dello Stato, l’intervento in Siria, o il fatto che non esista una vera alternativa per noi sciiti, a parte Amal (l’altro partito sciita del Paese, ndr)”, sostiene una residente, Nadia, mentre sediamo in un bar di Dahieh colonizzato da maxi schermi per vedere le partite ad Hret Hreik, municipalità in gran parte ricostruita dalle fondazioni di Hezbollah dopo i bombardamenti israeliani del 2006, e che quarant’anni fa era un villaggio.

Se oggi si entra nel ristorante Al Saha, così come nei nuovi bar e gli altri spazi “ricreativi” di Dahieh, si trova un ambiente molto diverso da quello austero di 20 anni fa

“Però sono loro che hanno salvato il Paese: tutti siamo con la resistenza qui, se non ci fosse stata Hezbollah, non ci sarebbe più il Libano”, aggiunge con tono deciso, mentre la sua amica, una ragazza cristiano maronita come lei residente a Dahieh, fa partire sul cellulare il video di una canzone -“Muqawem”, resistiamo- che celebra la lotta armata di Hezbollah, interpretata dalla celebre cantante cristiana Julia Boutros. È come se Hezbollah fosse da una parte il partito politico islamista, strutturato e radicato a Dahieh, e dall’altra un ambiente sociale sovrapponibile al sobborgo meridionale, all’interno del quale esiste una pluralità di opinioni e di tendenze rispetto a questioni su cui lo stesso partito ha posizioni più o meno ufficiali.

Così, può accadere che mentre il locale Shaikh Ali Daher -direttore della Lebanese Association of Arts- tiene un allarmato discorso sulla tendenza dei giovani ad “starsene ore al bar a giocare ai videogiochi, anziché fare visita alla nonna o una passeggiata nella natura”, il Media center di Hezbollah lanci sul mercato videogames come “Special Forces” -in cui il protagonista è un combattente hezbollahi che deve sconfiggere gli israeliani- trasformando così il desidero di intrattenimento in un carburante per la militanza.

Pur non essendo stato diffuso su canali ufficiali, il che rende difficoltoso misurare l’entità delle vendite, “Special Forces” è stato circondato da un grande hype tra i giovani sciiti ed ha già un sequel ambientato in Siria, “Holy Defense”, scaricabile clandestinamente online o acquistabile per soli cinque dollari al Media center. Allo stesso tempo, se il partito si serve sempre di una retorica religiosa per motivare i suoi affiliati, la LAA organizza ogni mese mostre di artisti contemporanei come Roger Assaf e Pierre Abou Saab, noti al pubblico per le loro posizioni progressiste.

Se oggi si entra nel ristorante Al Saha, così come nei nuovi bar e gli altri spazi “ricreativi” di Dahieh, si trova un ambiente molto diverso da quello austero di 20 anni fa: una presenza numericamente quasi equivalente tra i due sessi, donne che non indossano il velo o che lo indossano ma lo accompagnano anche a tacchi alti, vestiti costosi, che fumano l’arghilé con le loro amiche o anche in compagnia di uomini della propria cerchia; oppure coppie che cenano insieme, non scontando più sguardi ammonitori del pubblico.

Negli affollati giovedì sera si possono trovare ufficiali di Hezbollah, molti dei quali hanno col tempo rotto gli indugi e sono ormai diventati clienti fissi, ma anche libanesi provenienti dalla municipalità di Beirut, che pochi anni prima non avrebbero mai messo piede in quello che vedevano come un “ghetto sciita”, abitato da “rozzi” ex contadini. Un microcosmo che se da una parte getta una luce sulla capacità del partito filo-iraniano di marcare il territorio, di “caratterizzarlo” e di esercitarvi un controllo sociale, dall’altra segnala il graduale inglobamento di Dahieh -in cui negli ultimi dieci anni hanno aperto quasi una cinquantina di nuovi caffè, molti dei quali dall’atmosfera “glamour”- all’interno della Grande Beirut, e non più una sua netta separazione da essa.

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