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L’equo pensa al domani – Ae 94

Le botteghe e le centrali d’importazione italiane fanno i conti con la crisi dei consumi e si attrezzano per affrontare un mercato in rapida evoluzione. Le sfide più importanti dei prossimi anni, secondo il mondo del commercio equo italiano, sono…

Tratto da Altreconomia 94 — Maggio 2008

Le botteghe e le centrali d’importazione italiane fanno i conti con la crisi dei consumi e si attrezzano per affrontare un mercato in rapida evoluzione. Le sfide più importanti dei prossimi anni, secondo il mondo del commercio equo italiano, sono il ruolo del volontariato, il rapporto con la grande distribuzione e la riflessione sulle filiere


Alessandro Franceschini parla orgoglioso della cooperativa di cui è presidente da 7 anni. Pace e sviluppo, a Treviso, è una realtà da 1.500 soci, 10 botteghe e 14 dipendenti. E un milione e 700mila euro di fatturato, con tanto di utili per 50mila euro. Una realtà solida nel panorama del commercio equo italiano, che nel complesso vive però una fase difficile e faticosa. “Abbiamo scelto il volontariato come tratto distintivo della nostra cooperativa” spiega Alessandro. “Per questo le nostre botteghe sono affidate a gruppi strutturate di persone non pagate, che hanno doveri certo, ma anche diritti”.

I volontari di Pace e sviluppo sono circa 300: 8 botteghe su dieci sono gestite unicamente da loro. “Questo ha reso più sostenibile la struttura, e ci permette di investire anche in comunicazione e proposte culturali. Crediamo che il volontariato sia una componente permanente del commercio equo, e non da ‘fase intermedia’”.



Non è detto che il modello trevigiano sia esportabile. Tuttavia, laddove si fa un largo ricorso ai volontari le difficoltà sono minori. Vale anche per la cooperativa Mandacarù di Trento, che fattura 2,2 milioni di euro (600mila euro solo la bottega di Trento, più di ogni altra in Italia e tra le prime in Europa) dove tutto il consiglio di amministrazione è composto da volontari, che in tutto sono 500: nove delle 12 botteghe sono gestite interamente da loro. Questo però non ha impedito, ad esempio, la sofferta chiusura della bottega di Lavarone, che oltre a causare lo scontento del gruppo di volontari che da una decina d’anni la gestivano, ha svelato il vero scoglio col quale  si deve confrontare il commercio equo nazionale: la sostenibilità economica delle botteghe del mondo.



Guido Leoni è vice presidente di Ctm altromercato, il più grande consorzio di botteghe del commercio equo d’Italia, che lo scorso anno, per la prima volta, ha chiuso il bilancio con una perdita. Ne fanno parte realtà grandi come Pace e sviluppo e Mandacarù, ma anche più piccole come la bottega Macondo di Vigevano, che al contrario delle prime due vive un momento difficile. “Perché sono calate le vendite e ha dovuto subire la concorrenza di un ipermercato che le ha aperto accanto” spiega Leoni. “Se i costi fissi sono molto alti le botteghe oggi soffrono. Chi lavora molto coi volontari resiste meglio. Il nostro consorzio ha investito sulle botteghe, in un momento in cui i consumatori abbandonano i piccoli esercenti e vanno verso la grande distribuzione organizzata, che dal 30% di mercato di 15 anni fa è passata in alcune zone a una penetrazione del 70-80%, seguendo gli standard europei. Dobbiamo fare i conti con questa situazione. Anche perché subiamo la concorrenza di soggetti esterni che si lanciano sull’ethical trade, che hanno le armi di un marketing martellante”. Forse anche per questo iniziano a circolare studi che mettono in dubbio la bontà del commercio equo (vedi box a pagina 32). Emilio Novati è -oltre che presidente di Altra Economia edizioni- tra i fondatori della centrale di importazione Equo Mercato, di Cantù. “Anche noi abbiamo avuto una perdita equivalente a circa il 10% del fatturato” spiega. “In parte dovuta a problemi di fornitura dei produttori più piccoli, in parte per la diminuzione di vendite nelle botteghe. Si è fermata la crescita del commercio equo, anche se non è facile capire se questo dipenda solo dalla generale contrazione dei consumi. Credo pesi anche la concorrenza dei prodotti del commercio equo venduti nei supermercati. La crescita del ruolo della gdo si ripercuoterà sulle centrali di importazione, e sui produttori, in funzione della capacità di questi di garantire i volumi che la grande distribuzione chiede. Per le botteghe il nodo rimane la sostenibilità: la crisi c’è e bisogna capire come uscirne nei prossimi due o tre anni”.



Anche Luca Gioelli, della cooperativa LiberoMondo di Cuneo, rimane in tema gdo. “Il nuovo regolamento sul prezzo equo (vedi box in alto) potrebbe essere utilizzato per attirare nuovi clienti a danno delle botteghe. Che hanno un reale problema di sostenibilità. La scommessa è offrire prodotti di buona qualità a un prezzo adeguato, in un certo senso equo anche per il consumatore. Pur essendo un momento in cui ci sono difficoltà, è importante non tirare i remi in barca ma investire sull’informazione, la trasparenza, e fare rete sul territorio”.

“Dal punto di vista economico ci sono difficoltà da almeno un anno e mezzo” conferma David Cambioli, di altraQualità. “Forse il modello di bottega come bazaar inizia a segnare il passo: dobbiamo orientarci verso una proposta meno generalista e più specialistica. Vale anche per chi sta in bottega: anche il nostro modo di comunicare deve cambiare. E i consumatori devono sentirsi parte di un processo, non solo acquirenti di un prodotto che aiuta qualcuno dall’altra parte del mondo”.



Anche la centrale di importazione Commercio Alternativo, di Ferrara, ha chiuso l’ultimo bilancio con un segno meno. “A lungo -spiega il direttore delle vendite Diego De Simone- le centrali hanno fatto da banca alle botteghe. Finché si era tutti in utile andava bene, oggi siamo di fronte a un problema di sostenibilità delle botteghe. Noi siamo una cooperativa formata da 70 botteghe, che quindi rimangono l’ambito di riferimento. Differenziare e specializzare può dare una mano: ci orientiamo verso prodotti di uso comune, come i jeans o i cosmetici. Ma non possiamo ignorare la gdo, e il fatto che dovremo cercare sbocchi alternativi per i nostri prodotti”.

“Esiste una contrazione dei consumi di cui risentiamo” conferma Chiara Bonati, presidente di Ctm. “Quindi situazioni meno consolidate fanno fatica: molte botteghe sono in ritardo coi pagamenti. Oggi i nostri soci (il consorzio è formato da 130 botteghe per 350 punti vendita, ndr) si devono confrontare col mercato in tutti i sensi: del consumo, del lavoro, finanziario.

Lo scenario è destinato a cambiare, e se vogliamo uscire dalla nicchia dovremo fare qualcosa di nuovo. Ad esempio spostandoci sui prodotti semi-industriali, o accorciando la filiera”. Tentativo fatto, tra gli altri, da Equoland di Firenze, che a inizio maggio ha inaugurato la propria fabbrica di cioccolato a Calenzano. Dalla struttura (foto in alto, un milione e mezzo di euro l’investimento, una decina di assunti) usciranno i prodotti realizzati con la pasta di cacao proveniente direttamente dall’Ecuador, senza intermediazioni.

“Le filiere sono la sfida del commercio equo” ci dice Deborah Lucchetti, di Fair. “Dovremo pensare a prodotti ‘sostitutivi’, cioè di uso comune, non ‘accrescitivi’, in aggiunta alla nostra lista della spesa. Prepariamoci quindi a nuovi rapporti con soggetti industriali, diversi da quelli cui siamo abituati. Infine, dovremo ragionare sulla filiera corta, su cosa, quanto e dove produrre. Quindi anche a un commercio equo regionale, Sud-Sud o anche Nord-Nord. Non possiamo ignorare per noi stessi l’impronta ecologica di quel che facciamo”.



Qualcosa si muove in Europa

Il 10 maggio 2008 si celebra la giornata mondiale del commercio equo. Ogni riflessione sul movimento italiano dell’equo e solidale non può prescindere dalle direzioni che stanno prendendo le numerose organizzazione di fair trade in giro per il pianeta. “Il movimento internazionale è in una fase di grande fermento” conferma Giorgio Dal Fiume, rappresentante dei soci italiani presso la branca europea di Ifat (International Fair Trade Association, www.ifat.org) dopo essere stato a lungo presidente di Ctm altromercato.

“Il cambiamento di panorama non è visibile nell’immediato, ma è destinato a produrre grossi cambiamenti. Una fase molto importante specie dal punto di vista italiano, data la nostra eterogeneità”. La domanda è: in un processo che cerca omogeneità tra le organizzazioni europee, il commercio equo italiano saprà mantenere le proprie specificità? “Da noi, ad esempio, il 60% del fatturato di una bottega deve provenire dal commercio equo, e le botteghe devono essere gestite da realtà non profit. All’estero quest’ultimo vincolo non c’è, mentre la percentuale minima di fair trade è più alta. È una differenza che va ben al di là della regola burocratica, anzi, è quasi identitaria: per noi vorrebbe dire escludere prodotti come quelle di cooperative sociali, o di Libera, per intenderci”.

All’interno di Ifat sono almeno tre le grandi linee di confronto che porteranno a cambiamenti sostanziali nel commercio equo internazionale. La prima riguarda proprio la definizione dei criteri che stabiliscono cosa sia una “bottega”: un percorso che dovrà portare entro ottobre 2008 a una proposta che sarà poi votata nel 2009. Il secondo punto è la possibile adozione del marchio Ifat su tutti i prodotti dei soci: “Ci viene chiesto soprattutto dai produttori asiatici, che vi vedono una maggiore accessibilità al mercato. Ma dovrebbe essere un marchio di organizzazione, non di prodotto” spiega Dal Fiume”.

Il processo è appena partito e dovrebbe concludersi a fine 2009. Infine, la questione legislativa. “Oggi in ambito europeo esistono tre proposte di legge sul fair trade: in Belgio, in Italia e in Francia, dove l’iter è già a uno stato piuttosto avanzato.

C’è dibattito sull’opportunità di una legge che riconosca e definisca il fair trade: tuttavia non possiamo ignorare che un giorno l’Unione europea potrebbe decidere di armonizzare le varie proposte in una posizione comune.



Prezzo libero in bottega

A inizio aprile si è tenuta la prima assemblea annuale di Agices, l’organismo che raccoglie 103 associazioni del commercio equo italiano (l’80% del totale se si guarda al fatturato; www.agices.org). Tra i temi all’ordine del giorno, uno dei più dibattuti è stato il cambiamento delle regole rispetto ai prezzi dei prodotti equi.

Sia pur a maggioranza ristretta, è passata la proposta di abolire il prezzo fisso al consumo, a favore della possibilità di fare sconti, promozioni e offerte speciali, purché limitate rispetto al numero di prodotti e nel tempo (ad esempio seguendo le norme comunali sui saldi), e anche convenzioni con associazioni o volontari. Rimangono ovviamente i principi del prezzo equo fisso pagato al produttore, e della trasparenza per il consumatore attraverso le etichette o i fogli informativi: gli eventuali ribassi rimarranno a carico del margine delle botteghe. Una decisione che secondo i sostenitori ha nei fatti regolamentato una pratica già esistente, e che aiuterà le botteghe più in difficoltà; chi vi si è opposto intravede invece un cedimento a logiche troppo mercantili (tipiche della grande distribuzione, che utilizza la leva del prezzo per attirare clienti) e il rischio di diventarne poi dipendenti. Nessuna spaccatura sull’argomento, ma una sana divergenza di opinioni che ha portato anche alla decisione di verificare dopo un anno i risultati delle nuove regole.



La Liguria investe

La Liguria è la prima regione “equa e solidale” d’Italia (vedi Ae 88). Dopo l’approvazione (agosto 2007) della legge che riconosce e sostiene le organizzazioni e i prodotti del fair trade, il processo

è continuato e, passando per la giornata dell’equo ligure del 4 aprile, è giunto alla prima fiera regionale in programma a fine maggio. Oggi la Regione si è impegnata a finanziare con 650mila euro la legge, 350mila in più rispetto al primo bando del 2007. “Quello ligure è il primo caso di legge regionale così strutturata” spiega Enrico Reggio, coordinatore di Bottega solidale di Genova ma anche uno dei delegati delle 17 organizzazioni liguri di fair trade (l’elenco è su equodiliguria.it) nel rapporto con l’istituzione. “L’elemento più significativo è stato il cammino comune delle realtà liguri, che in accordo

e su sollecitazione della Regione hanno presentato progetti per i primi 300mila euro di finanziamento, fino a costituire una associazione temporanea di scopo (ats) per le azioni comuni, come la fiera. Il fatto, poi, che su 300mila euro 100mila fossero fondi in conto capitale, per ristrutturare le botteghe, o per l’acquisto di mezzi, indica la volontà di promuovere iniziative stabili, e non sporadiche”. Il nuovo bando del 2008 prevede che 250mila dei 650mila euro stanziati siano destinati direttamente agli enti locali per l’acquisto di prodotti del commercio equo nei propri appalti.



Liberisti all’attacco

Il commercio equo è scomodo? Dopo l’inchiesta del Financial Times e una copertina su The Economist, l’establishment conservatore anglosassone ha deciso di rilanciare alto, scomodando l’Adam Smith Institute di Londra, per l’ultimo attacco al commercio equo. Il think tank neoliberista (sulle scrivanie dell’Asi vennero redatti i programmi di Margaret Thatcher), la cui autorevolezza è riconosciuta anche dalle grandi multinazionali, ha redatto “Unfair trade”. Il rapporto definisce il commercio equo e solidale non solo una pratica inefficace, ma di fatto nociva per gli interessi dei piccoli produttori. Secondo Marc Sidwell, autore del report, le pratiche equosolidali sosterrebbero produzioni senza speranza, impedendo ai produttori di diversificare le proprie economie e condannandoli a una miseria perpetua, perché ancorata ad un mondo rurale che dovrebbe invece essere sostituito da un’agricoltura meccanizzata e altamente produttiva. Solo il mercato saprà allocare opportunamente le risorse evitando inutili inefficienze. Evitando il commercio equo che “in nome della giustizia […] concentrerà il potere nelle mani di pochi, aumentando la corruzione e […] i prezzi per il consumatore medio”. La Fairtrade Foundation ha ribattuto punto per punto le posizioni dell’Asi.

Rimane una questione: cos’è che allarma un think tank così spregiudicato? (az)

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