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Ambiente

L’Eni e l’affare dei contratti “Take or Pay” (e degli stoccaggi)

La multinazione petrolifera considera questo tipo di accordi troppo onerosi. Ma siccome sono strategici per la sicurezza energetica nazionale, pretende che a farsene carico siano lo Stato e i cittadini, attraverso le bollette. L’Autorità rimanda al governo, il Ministro Passera sembra favorevole. Forse dimenticando il conflitto di interessi della società, che controlla gli stoccaggi di gas, e quindi il mercato.

Ogni volta che l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, si reca in Senato, lo fa per dettare una linea politica. Lo stesso è avvenuto anche nell’ultima audizione tenutasi lo scorso 10 ottobre -in X Commissione Industria, Commercio e Turismo- sulla situazione del mercato del gas naturale.
Quello che è emerso è il tentativo, da parte della multinazionale di San Donato Milanese, di ottenere un “riconoscimento” dallo Stato per il mantenimento dei contratti con clausola “Take or Pay” -di medio e lungo periodo- con i principali produttori di gas che assicurano gran parte delle forniture per il nostro Paese.

In sostanza, Paolo Scaroni considera i “Take or Pay” troppo onerosi, ma al tempo stesso di fondamentale importanza per la sicurezza degli approvvigionamenti nazionali. Un “bene comune”, quindi, che in quanto tale sarebbe necessario sostenere vicendevolmente. Da una parte l’azienda e dall’altra lo Stato, che scaricherebbe il loro costo sui cittadini tramite la bolletta energetica.
Una patata bollente che Guido Bortoni, presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (Aeeg) ha deciso di rinviare a Parlamento e Governo, con un eloquente “devono dare un chiaro indirizzo per soppesare l’interesse generale contenuto in questi contratti”. E lo daranno, perché l’Ente nazionale idrocarburi, minacciando di non rinnovare i contratti “Take or Pay”, ha incassato il sostegno del ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, il quale si è detto pronto a pensare a nuove forme di sicurezza per l’approvvigionamento, cambiando però le regole rispetto al passato. Ovvero, evitare che la compagnia paghi, interamente o parzialmente, il prezzo contrattuale di una quantità minima di gas prevista dai contratti di medio e lungo termine, anche quando non ritira il gas. Tanto ci sono i cittadini.

Una grande famiglia, come quella che ruota intorno al sistema degli stoccaggi italiani, dove tre soggetti –Eni, Stogit e Snam– sotto l’ombra della Cassa depositi e prestiti operano in una situazione quasi monopolista. Infatti, scorrendo tra le 15 concessioni di stoccaggio di gas vigenti -soprattutto tra Lombardia ed Emilia Romagna- e tra le 8 istanze per nuove concessioni, ben 10 sono di competenza Stogit, controllata al 100% da Snam.
In pratica, al grido di “Stoccare che passione”, c’è chi importa e commercializza con aiuti di Stato, di stocca incassando royalties per il servizio e chi trasporta il gas nelle due reti, non certo gratuitamente.

Quello degli stoccaggi è un sistema strano che, come concepito, di fatto non regge. Considerando che nel 2011 la nostra capacità di stoccaggio è stata pari a 14 miliardi di metri cubi di gas, pur ampliando i vecchi progetti ed autorizzandone di nuovi, non saremo in grado di “gestire” gli oltre 40 miliardi di metri cubi di gas in arrivo in più, ogni anno, nel nostro Paese. E forse anche l’idea contenuta nella Strategia energetica nazionale di commercializzare questo gas, acquistandolo ad un prezzo conveniente e vendendolo ad un prezzo più alto, sembra impossibilitata ad arrivare a compimento.
Perché l’Italia non ha un forte potere d’esportazione nel mercato europeo, configurandosi come un importatore totale. Il gioco vale la candela solo addossandoci le spese in più degli operatori, che trovano anche il sostegno economico dell’Europa tramite il fondo per Progetti d’interesse comune (Pic).

Per cercare di fare chiarezza su questi argomenti e capirne di più, abbiamo incontrato Matteo Verda, dottore di ricerca dell’Università di Pavia, ricercatore associato dell’Ispi, co-autore del focus sulla sicurezza energetica per l’Osservatorio di politica internazionale (Parlamento e MAE), che recentemente ha pubblicato “Una politica a tutto gas. Sicurezza energetica europea e relazioni internazionali” (Università Bocconi Editore, 2011) e “Politica estera e sicurezza energetica. L’esperienza europea, il gas naturale e il ruolo della Russia” (Edizioni Epoké, 2012). Inoltre, cura il blog “Sicurezzaenergetica.it”.

Professor Verda, può riassumerci il significato dei “Take or Pay”?

Il termine “Take or Pay” indica una clausola applicata ai contratti di fornitura di lungo periodo di gas naturale, la quale implica un impegno da parte della compagnia acquirente a prelevare un certo quantitativo di gas naturale in un certo lasso di tempo. Se l’acquirente non ritira effettivamente la quantità di gas concordata, la paga ugualmente. Generalmente, i contratti di lungo periodo con clausola “Take or Pay” in vigore in Europa prevedono anche una parziale indicizzazione al prezzo del petrolio. Negli ultimi anni, questa indicizzazione ha reso particolarmente onerosi i contratti di lungo periodo per le compagnie acquirenti, soprattutto a fronte di un calo dei consumi e di una crescente concorrenza del gas naturale liquefatto.

Quando e perché vennero introdotti?
Storicamente, a partire soprattutto dagli anni Settanta, i contratti di lungo periodo sono stati introdotti per consentire ai produttori di avere una garanzia a tutela dell’investimento in capacità produttiva e di trasporto. All’epoca i mercati europei erano dominati da monopolisti e questo genere di contratti non poneva particolari rischi per le compagnie acquirenti, che potevano sempre scaricare i costi in più sui clienti finali.

 

Oggi l’Eni vorrebbe abbandonare questa strada chiedendo aiuto allo Stato. Perché e, soprattutto, quale sarebbe il meccanismo che scaricherebbe parte dei “Take or Pay” sulla collettività?
Eni ha in portafoglio molti contratti di lungo periodo, che offrono certezza contrattuale, ossia volumi e prezzi chiaramente definiti in anticipo. A causa di questi contratti, però, in questo momento l’Eni paga il gas molto più di altre compagnie attive sul mercato italiano. La sua tesi è che questi contratti rappresentino però anche una sicurezza per il mercato italiano, una sorta di assicurazione contro l’indisponibilità o un consistente aumento dei prezzi di altre forniture, soprattutto spot. Si tratterebbe di un meccanismo simile al “capacity payment” nel mercato elettrico, che in questo caso equipara la sicurezza prodotta dalla presenza di contratti di lungo periodo a un vero e proprio bene pubblico. La conseguenza è che il costo della produzione di questo bene pubblico sia socializzato, non essendo più Eni un monopolista né un soggetto pubblico. Il meccanismo per socializzare questi costi sarebbe semplice: riconoscere un premio a chi detiene questi contratti di lungo periodo, pagato in bolletta con una tariffa stabilita dall’autorità. Dell’importo non si è ancora parlato, ma una possibilità potrebbe essere quella di riconoscere a chi detiene i contratti un indennizzo pari a una percentuale della differenza tra il prezzo del gas comprato con contratti di lungo periodo e il prezzo corrente sul mercato.

Ma l’impressione qual è?
I decisori politici hanno due possibilità: o lasciare che le imprese che hanno sottoscritto questo tipo di contratto se ne accollino anche il peso, oppure scaricare sui cittadini il costo di quei contratti, sottoforma di ulteriori oneri da inserire in bolletta, magari spacciando l’operazione come una formula utile per garantire la sicurezza energetica del Paese.

Il Governo con la Strategia energetica nazionale punterebbe a fare dell’Italia il mercato del gas europeo. Un hub insomma. Secondo lei è un progetto fattibile? Quali sono le strategie delle multinazionali del settore, compresa l’Eni?

Il principio dell’hub è semplice e molto poco esotico: si tratterebbe di fare dell’Italia un Paese di transito per il gas diretto in altri Paesi europei. In questo modo, Snam Rete Gas potrebbe ricevere un pagamento per l’utilizzo delle infrastrutture di trasporto. In teoria, oltre al guadagno per l’operatore di rete, un altro vantaggio dell’essere un hub sarebbe poter contare su un’ulteriore espansione della capacità di importazione. Questo determinerebbe un aumento della sicurezza di approvvigionamento nazionale, che in caso di problemi su una linea di importazione, potrebbe contare sulle altre. Nel caso dell’Italia, occorre considerare una questione spesso taciuta: per essere un Paese di transito occorrono tanto i Paesi esportatori quanto quelli importatori. Questo pone due problemi: innanzitutto, gli altri mercati del gas europei sono in un momento di crisi e le aspettative di crescita della domanda sono limitate. In secondo luogo, l’Italia in questo momento non dispone di capacità di esportazione e al momento esiste solo un progetto verso la Germania, via Austria (il Tauern Gasleitung), che però deve ancora affrontare tutto l’iter autorizzativo. Per l’Italia essere un hub non è realisticamente una prospettiva di breve periodo.

Capitolo stoccaggi. Le grandi manovre in questo senso sono giustificate? Il gioco vale la candela?

Gli stoccaggi assolvono due funzioni fondamentali: sono una riserva di sicurezza, la cui utilità è stata dimostrata ampiamente nel corso della crisi di febbraio. In questo caso, si tratta di un vero e proprio bene pubblico, tanto che 5 dei 14 Gmc di capacità di stoccaggio italiana sono riserva strategica, ossia possono essere immessi in rete solo con l’autorizzazione del Ministero dello sviluppo economico. In secondo luogo, una buona capacità di stoccaggio consente di avere un mercato meglio funzionante, permettendo agli operatori di sfruttare le differenze tra i prezzi nelle diverse stagioni per aumentare la concorrenza tutto l’anno.

Considerando la situazione strutturale italiana, a chi conviene stoccare gas? Come sarebbe possibile quantificare il guadagno ad esempio di Stogit, quasi monopolista?

Conviene a tutti, in che misura dipende dalla regolazione applicata. In un mercato funzionante lo stoccaggio consente di abbassare i prezzi per i consumatori finali, sfruttando la stagionalità dei prezzi della materia prima. Affinché ciò sia possibile, è tuttavia necessario che l’Autorità predisponga meccanismi funzionanti. Inoltre, all’attuale stadio del mercato nazionale, la redditività degli investimenti in capacità di stoccaggio è decisa sostanzialmente per via amministrativa.

 

Ci faccia capire meglio il concetto di reddività.
La redditività di un investimento in capacità di stoccaggio dipende dall’Autorità per l’energia, che decide le relative tariffe attraverso appositi documenti. Quello attuale è valido fino al 2014. La logica alla base di questo meccanismo è che lo stoccaggio è un servizio indispensabile per il corretto funzionamento di un mercato liberalizzato e che, dato l’attuale assetto del mercato, una concorrenza meno strettamente regolata darebbe risultati subottimali per i consumatori finali e per l’economia in generale.

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