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Economia / Opinioni

Legge di bilancio, il tempo delle scelte

© Elisa Michelet - Unsplash

Dopo anni di annunci, previsioni di crescita non credibili, caotiche contrazioni delle entrate fiscali e bonus a pioggia, è ora di individuare seriamente le fasce di popolazione a cui si ritiene indispensabile dare il sostegno necessario per rimettere in moto la società italiana. L’analisi di Alessandro Volpi

È abbastanza evidente che la Nota aggiuntiva al Documento di economia e finanza (Def) ha fatto ricorso a coperture molto fragili, tanto da ipotizzare che su 30 miliardi di euro di possibile manovra almeno 21 sono riconducibili a soluzioni non definite e in larghissima misura affidate alla benevolenza europea. Ora però è giunto il tempo dei numeri veri da inserire nella Legge di bilancio che per essere individuati avrebbero bisogno di scelte nette. Alcuni punti dovrebbero essere chiari in tal senso.

1) Non è più possibile continuare a sperare solo sulla riscoperta sintonia con il Vecchio continente e su misure di natura congiunturale e prevalentemente tecniche. Il recente richiamo alla rimodulazione del debito, peraltro in corso da tempo e interrotta solo da alcune avventate dichiarazioni di esponenti gialloverdi, è in questo senso un esempio di misura tecnica. Allungare le scadenze e pagare meno interessi sono conseguenze della formazione di un governo finalmente europeista, ma le modalità di simili provvedimenti rientrano a pieno titolo nei compiti dei tecnici del Tesoro; non hanno a che fare con la politica e comunque non possono essere considerate strutturali anche per il recente cambio di guida della Banca centrale europea (Bce) tanto decisivo per le sorti del nostro debito pubblico. Se gli interessi si riducono e i mercati finanziari si mostrano più disponibili, è palese che le nuove emissioni di titoli avverranno a tassi più bassi e con scadenze più lunghe; non serve proporlo come ricetta “politica”, anzi, forse dichiararlo con grande enfasi potrebbe far pensare agli stessi mercati che su ciò si baserà la futura politica finanziaria italiana, con l’effetto magari di spaventarli.

2) Non ha senso neppure costruire leggi di bilancio su previsioni di crescita non credibili né tantomeno considerare il taglio della spesa pubblica per beni e servizi come un dato puramente quantitativo, spesso calcolato in maniera approssimativa. Una recente ricostruzione ha indicato in 80 miliardi di euro l’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle entrate contenute nelle leggi di bilancio dal 2013 al 2018. Il grosso delle maggiori uscite, sul versante delle spese correnti, è stato rappresentato dal bonus degli 80 euro per 9,4 miliardi di euro, da “Quota 100” per 8,3, dal Reddito di cittadinanza per 8,1, dal rinnovo dei contratti della Pubblica amministrazione per 4,5 e dalla Buona scuola per 1,6 miliardi. È in parte dentro questi numeri, a parità di saldi con eventuali nuove destinazioni della spesa pubblica, che potrebbero essere trovate le risorse per misure più efficaci e certamente più definite sul piano della platea dei beneficiari, abbandonando la logica della distribuzione a pioggia, dietro la quale non si pone una vera valutazione delle condizioni della società italiana, immaginata solo come una sommatoria confusa di tante, inconciliabili, soggettività. Se si utilizzassero le risorse già in campo, indirizzandole a quelle realtà sociali che in maniera più grave incarnano la crisi del Paese, non sarebbero necessari nuovi tagli alle spese per beni e servizi, in buona misura destinati a colpire la sanità.

3) Servono poi scelte chiare nel campo dell’imposizione fiscale che sostengano una politica economica e sociale dotata di un sufficiente respiro temporale. Anche a questo riguardo i numeri sono palmari; dal 2013 al 2108 si è operata una riduzione del carico fiscale importante con misure che hanno interessato la riduzione dell’Ires dal 27,5 al 24% per 4 miliardi di euro, la deduzione del costo del lavoro dall’Irap per 3,9, l’abolizione della Tasi per l’abitazione principale per 3,6, il regime fiscale agevolato per gli autonomi per 2,9, la svalutazione delle perdite su crediti di banche e assicurazioni per 2,7, l’aliquota Ires ridotta al 21,5% per gli utili accantonati a riserve per 1,7 e l’incremento delle detrazioni Irpef per redditi da lavoro dipendente per 1,7, a cui aggiungere alcune altre misure. Una così significativa e caotica contrazione delle entrate fiscali di circa 25 miliardi di euro in poco più di cinque anni, abbinata ad un forte aumento di spese, non è più sostenibile, se non si vuole far esplodere il deficit, senza una strutturale revisione delle tax expenditures, riducendo le detrazioni e le deduzioni per fasce di reddito alte, in una prospettiva che intenda contrastare la polarizzazione della ricchezza.

Per evitare che il peso fiscale ricada solo su coloro che dichiarano i propri redditi, occorre, in maniera contestuale, combattere l’evasione a partire dall’inevitabile tracciabilità dei pagamenti. Per realizzare una legge di bilancio che non abbia più la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia -peraltro già colossali per il 2021- bisognerebbe dunque legare i numeri a idee precise prima di tutto sul versante delle coperture, che significano rimodulazione di entrate e di spese e che pesano sulle condizioni non solo economico-finanziarie ma anche sociali del Paese. In estrema sintesi bisogna tornare a fare delle scelte ben leggibili che individuino le fasce di popolazione a cui si ritiene indispensabile dare il sostegno necessario per rimettere in moto la società italiana, abbandonando gli artifici contabili di mero respiro elettoralistico o le battute ad effetto.

Università di Pisa

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