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L’economia senza padroni – Ae 95

A sei anni dall’esplosione del fenomeno, le fabbriche recuperate argentine continuano il loro lavoro, tra difficoltà e speranza Alla Chilavert, azienda grafica di Buenos Aires, la cosa che ti mostrano con più orgoglio è un buco nel muro. Durante l’occupazione,…

Tratto da Altreconomia 95 — Giugno 2008

A sei anni dall’esplosione del fenomeno, le fabbriche recuperate argentine continuano il loro lavoro, tra difficoltà e speranza


Alla Chilavert, azienda grafica di Buenos Aires, la cosa che ti mostrano con più orgoglio è un buco nel muro. Durante l’occupazione, serviva per passare i libri stampati al vicino, Julio Berlusconi (sic), che li portava di nascosto in distribuzione. Come si produce sotto assedio? Basta essere nella Buenos Aires del 2002, con la gente del barrio che ti avvisa quando è in arrivo la polizia, e la Impa, altra impresa recuperata che produce alluminio, che ti acquista ritagli di lamiera da riciclare (hanno iniziato a usare alluminio riciclato, primi in Argentina, per disperazione, poi si sono accorti che risparmiavano sia l’ambiente sia il 40% del costo della materia prima).

Alla Ghelco, industria pasticciera, il simbolo della resistenza è invece una foto di gruppo appesa nell’ingresso: lavoratori e famiglie davanti alla fabbrica. “L’abbiamo mandata al giudice dopo mesi di presidio davanti alla porta”, spiega Ricardo Roldain, “con un messaggio: tutte queste persone aspettano una sua decisione. Lui ci ha dato un mese per dimostrargli che eravamo in grado di produrre. Non avevamo un soldo; abbiamo venduto tutto il materiale riciclabile che c’era in fabbrica per comprare due sacchi di mandorle e due di zucchero. Ci avevano tagliato la corrente, ma un’altra impresa recuperata, la Lavalan, ci ha dato i soldi per ripristinarla”.

Vicende recentissime che hanno già i toni eroici dell’epopea.

La tappe spesso sono simili: il padrone che smette di pagare e poi scompare; i lavoratori che rientrano in fabbrica o la presidiano per impedirgli di far sparire i macchinari; i tentativi di sgombero, spesso violenti; gli operai in assemblea permanente; la solidarietà concreta della gente del quartiere, delle assemblee popolari, del movimento piquetero, dei fornitori e dei clienti che non spariscono, delle altre imprese recuperate. Poi, i lavoratori si costituiscono in cooperativa, in molti casi un giudice assegna loro l’impresa per un periodo definito (in base alla legge sull’esproprio temporaneo approvata dal governo Kirchner) e comincia la produzione in autogestione. Che significa sovranità dell’assemblea e salari uguali per tutti (in alcuni casi gli incarichi di maggior responsabilità vengono ricompensati con piccole indennità). Ci sono cooperative in cui i lavoratori imparano a fare tutto da soli, spesso da autodidatti, e chi assume dall’esterno alcuni specialisti. Riguardo alla proprietà dell’impresa, c’è chi aspetta ancora la sentenza di esproprio, chi ha ottenuto la donazione, l’affitto o il comodato, chi ha comprato (spesso dallo Stato, creditore del vecchio proprietario) e sta pagando, chi è in causa.

Qual è il bilancio, oggi? “220 imprese recuperate in tutta l’Argentina, per un totale di circa 14mila lavoratori più l’indotto; 300 milioni di dollari di fatturato complessivo nell’ultimo anno, cioè l’1 per cento del Pil industriale”, recita Josè Abelli, presidente del Movimento nacional empresas recuperadas. “Solo due hanno chiuso, nessuna è stata ripresa dai vecchi padroni”. Luis Caro, avvocato e rappresentante dei Movimiento fabricas recuperadas por los trabajadores, è però meno ottimista: “In realtà molte hanno sospeso l’attività e sono in grosse difficoltà. Una cosa importante è come si distribuisce il potere: non è così facile gestire in modo realmente democratico e partecipato”.

Sono cinque le federazioni di imprese recuperate. “Stiamo cercando di coordinarci”, spiega Abelli, “mettendo da parte le divergenze. Le reti principali condividono l’idea che l’impresa dev’essere di proprietà dei lavoratori e autogestita”.

Gli obiettivi: una legge sull’esproprio definitivo e lo status delle imprese recuperate, una riforma sui diritti dei lavoratori delle cooperative e un fondo federale per acquistare le aziende e ottenere crediti a condizioni favorevoli. Ma non tutti sono d’accordo. “Noi siamo contro il capitalismo e il clientelismo politico. Vogliamo un governo socialista e imprese statalizzate sotto controllo operaio”, dichiara Eduardo Murua, fondatore della Federazione argentina delle cooperative di lavoratori autogestiti. E Luis Caro: “Secondo noi non occorre un fondo per il credito: si rischia di indebitarsi. Basta reinvestire con intelligenza gli utili e crescere pian piano”.

Conflitti, forse, fisiologici, visto che stiamo parlando di un laboratorio “in vivo” che procedere per prove ed errori.

Per esempio, stare sul mercato sostituendo la competizione con la cooperazione: “Stiamo creando una rete di sette aziende grafiche recuperate per scambiarci lavoro (chi ha troppe ordinazioni le passa ad altri), ottenere finanziamenti, acquistare le materie prime, fare da ‘incubatori’ ad altre imprese e così via”, spiega Placido Penharrieta della Chilavert. E le fabbriche metalmeccaniche di Rosario hanno i magazzini in comune.

Ancora: l’hotel recuperato “Bauen” usa il suo auditorium per iniziative culturali di ogni genere e per il cinema gratis per i bambini una volta alla settimana. L’Impa ha scelto di tenere bassi i salari pur di creare più posti di lavoro e ha messo a disposizione uno spazio per il centro di salute del quartiere. I lavoratori del Diario de la Region (quotidiano di Resistencia) si fanno bastare 600 pesos al mese per tenere basso il prezzo di copertina. La Chilavert offre stage agli studenti di lettere e gestisce un centro culturale, una biblioteca e un archivio sulle imprese recuperate. Ma la scoperta più blasfema è che senza padroni si lavora meglio, si recuperano dignità e autostima e si risparmia pure. “Si parla tanto di costo del lavoro -osserva Luis Caro-, ma perché nessuno parla mai del costo degli imprenditori, che è molto più alto?”.



Il commento

Ricominciare dal fondo

di Manuel Ferreira*

Attraversare le fabbriche recuperate in Argentina è un tour particolare non previsto nelle guide turistiche. Dopo la crisi del 2001, l’Argentina è diventata una specie di osservatorio: attraverso il degrado progressivo del settore industriale e del lavoro il Paese sperimenta una forma di sopravvivenza lavorativa che crea interesse. Nelle fabbriche recuperate argentine arrivano in continuazione studiosi, giornalisti, registi e attori come me per vedere e tentare di capire come si riparte quando la situazione arriva al fondo.

La vicenda è simile per tutte le fabbriche recuperate: stipendi non pagati, una pessima gestione da parte dei proprietari, e poi un progressivo tentativo di svuotamento della fabbrica -con la vendita dei macchinari- per arrivare alla chiusura. Oppure come è successo qualche volta addirittura all’abbandono dello stabilimento da parte dei proprietari.

Da qui inizia il percorso obbligato di tanti lavoratori, che decidono di “metterci il corpo”. Un operaio della Tipografia Chilavert, mi dice: “Chi lavora in fabbrica ci mette il corpo, questa è la differenza…

Quando impari il lavoro usi gli occhi perché stai lì a guardare come devi fare.

E quando per tutta la vita giri tre bulloni, per tutta la vita fai gli stessi tre gesti.

E anche quando cerchi di salvare il tuo posto di  lavoro ci metti il corpo, perché chiedere di lavorare in Argentina è una cosa da sovversivi e perciò devi salvarti la pelle”. Occupazioni durate mesi senza luce, acqua e gas. Assedi della polizia.

“Qual è il vero delitto?” mi chiede Gustavo Ojeda della Grafica Patricios: “Occupazione del luogo e quindi violazione alla proprietà privata, oppure la violazione dei diritti dei lavoratori, mancanza di stipendi, contributi mai pagati, debiti con lo Stato?”

Superato questo, il cruccio è produrre, trovare soldi per ripartire, trovare nuovi clienti, giacché i vecchi scappano, entrare nel “libero mercato” e concorrere, essere efficaci, puntuali e qualitativamente validi.

Come dice Norma Pintos di Grissinopolis –Cooperativa Nuova Esperanza: “Ogni fabbrica sono le persone che la gestiscono, e tutti oggi trovano un fattore comune,

il recupero della nostra dignità”. Un giorno in Italia, parlando con amici, ho detto: vado a visitare le fabbriche recuperate… “Anche da me” mi dice uno “…bellissima! Dove abito io ne hanno fatta una! Hanno tenuto la struttura e dentro ci hanno fatto un centro commerciale!”.

Penso a tutte le fabbriche qui in Italia che vanno in Cina o in Romania, a quelle dismesse e abbandonate, a quelle trasformate in luoghi della moda o musei, oppure a quelle guardate con la nostalgia del passato e ricordate solo il primo maggio. Penso agli operai di cui si parla solo quando muoiono nei cantieri dentro i capannoni. Penso all’Argentina della mia infanzia, fatta da tanti sogni d’immigrati europei, fatta di una classe media “generalizzata”. Mi chiedo: e chi se lo sarebbe immaginato che sarebbe andato a finire cosi? Forse però il meglio arriva sempre alla fine, no?  Ma è proprio alla fine che dobbiamo arrivare per avere il meglio?



Manuel Ferreira, attore della compagnia “Alma Rosé”, è autore e protagonista dello spettacolo “Fabricas”  (www.almarose.it)



Il filo che arriva fino alle botteghe del mondo

La Textil Piguè fa parte della filiera tessile solidale sostenuta da Ctm altromercato (che ha appositamente fondato una società in Argentina): dal cotone bio coltivato da indigeni del Chaco fino alle magliette confezionate da cooperative del movimento piquetero, in vendita nelle botteghe italiane. Per ora, solo il 5% circa della produzione è per il commercio equo. Come molte imprese recuperate, la Textil produce solo con materie prime fornite dai clienti e lavora al 30% delle sue potenzialità. “Il mio sogno è consolidare l’impresa, garantire salari dignitosi e lavorare solo con l’economia solidale”, dice il presidente, Francisco Martinez. Il primo passo è un contratto firmato da poco con la ministra della Produzione per acquistare l’azienda a 4 milioni e mezzo di pesos in 10 anni, a un tasso fisso annuo del 9% (ottimo, considerando che l’inflazione è al 22).

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