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L’economia danese è in recessione, ma nel Paese si sta meglio


“Recessione felice” in Danimarca.
Il prodotto interno lordo (Pil) nel primo trimestre del 2008 ha registrato un calo dello 0,6%. Il dato conferma quello del precedente periodo di crisi dell’autunno 2007, quando il decremento del Pil è stato dello 0,2%, e che spazza i dubbi degli economisti: il Paese considerato leader e modello in tutta Europa per le proprie politiche sociali è in recessione. La flessione nella curva di crescita del Pil è dovuto, sostiene Steen Bocian, capo economista di Danske Bank (la maggiore banca danese), a un calo di vendite nel settore automobilistico e allo sgonfiamento della bolla immobiliare che trascina al ribasso consumi e investimenti. Sulla carta nel Paese si respira aria di crisi, ma in Danimarca (nella foto il primo ministro Anders Fogh Rasmussen) si sta meglio: in alcuni ambiti, anzi, non si è mai stati così bene.

di Leonardo Lupori

Stupiscono, tra tutti, i dati relativi alla disoccupazione: ogni mese, da gennaio 2008, quando il tasso era del 2,1%, è diminuita dello 0,1%, fino a maggio, quando si è raggiunto il minimo storico dell’1,7%.

Anche la felicità personale è un punto forte dei danesi. Come dimostra una recente ricerca degli psicologi dell’università inglese di Leicester, la Danimarca è il Paese con il “tasso di felicità” più alto al mondo. Tra i primi dieci compaiono anche Svezia e Finlandia, mentre l’Italia è solo al 51° posto dietro Francia, Regno Unito e Germania.

Che il Pil non sia un indicatore esaustivo del benessere, dunque, ne è un esempio proprio la Danimarca odierna, dove il reddito del Paese decresce, ma si sta meglio. Una delle cause di questa “anomalia economica”, si trova nel welfare danese, centrato sul concetto di flexicurity. Questo meccanismo garantisce un’intensa flessibilità nella gestione della forza lavoro affiancata a forti politiche di sostegno e di reinserimento per i disoccupati. Licenziamenti semplici, ma sussidi di disoccupazione fino al 90% dello stipendio per un massimo di 4 anni. Un meccanismo che richiede grandi investimenti, quindi una forte pressione fiscale sia sulle imposte indirette, come l’Iva, che è al 25%, che su quelle dirette (dal 38 al 60% dell’imponibile per un lavoratore adulto).

Questa politica economica di indubbio successo negli ultimi 15 anni è stata accompagnata da una forte spesa pubblica in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e nella formazione, rispettivamente 8,3% e 2,4% del Pil nel 2003, il doppio delle percentuali che investe l’Italia. La popolazione del Paese è più giovane delle nostra: solo il 15% ha oltre i 64 anni contro il 20% italiano; e il governo danese presta attenzione a una politica economica ed energetica eco-compatibile e garante di una sostanziosa spesa per interventi in campo sociale.

Un esempio, quello danese, da prendere in considerazione. Giorgio Ruffolo, presidente del Cer (Centro europa ricerche) spiega a Repubblica che “è fondamentale superare il principio che per misurare le condizioni di un Paese si debba considerare solo il Pil”. Per risollevare la politica sociale italiana “è necessario considerare, invece, un indicatore composito, che misuri il benessere”.

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