Ambiente / Intervista
L’ecofemminismo supera gli stereotipi che inchiodano i generi e si prende cura del Pianeta

La filosofia che accoglie le istanze del movimento femminista, dell’ambientalismo e del pacifismo, si basa sull’idea che donna e natura siano accomunate dal fatto di essere assoggettate allo sfruttamento maschile. Silvana Galassi, già professoressa ordinaria di Ecologia all’Università degli Studi di Milano, oggi attivista ambientale e scrittrice, ne esplora idee e applicazioni nel suo saggio più recente, “Dalla parte di Gaia. Teorie e pratiche di ecofemminismo”. L’abbiamo intervistata
Silvana Galassi è stata professoressa ordinaria di Ecologia all’Università degli Studi di Milano. Che cosa sia l’ecologia lo riporta lei stessa in un capitolo dedicato alla distinzione tra questa materia e l’ecologismo del suo libro più recente, “Dalla parte di Gaia. Teorie e pratiche di ecofemminismo” (edizioni Ambiente, 2024), ovvero un “termine inventato da Ernst Heinrich Haeckel nel 1866 per indicare la parte della fisiologia degli organismi che si occupa delle relazioni degli organismi tra loro e con l’ambiente circostante e una disciplina scientifica che in un secolo e mezzo ha notevolmente approfondito lo studio della ‘casa’ in cui la presenza umana ha assunto nel tempo una rilevanza sempre più determinante”.
Nello stesso saggio Galassi, oggi attivista ambientale e scrittrice, esplora le idee e le teorie dell’ecofemminismo a partire dalle storie di chi ha lasciato il segno nel campo della ricerca e dell’attivismo, offrendo un racconto del ruolo delle donne nella gestione e nella salvaguardia delle risorse naturali. Attraverso una galleria di rittratti di scienziate e politiche, ricercatrici e attiviste che si sono battute per l’ambiente e per far riconoscere le proprie idee e i propri contributi scientifici, Galassi riflette inoltre sul rapporto diseguale Tra uomo e donna e sul modo sensibilmente diverso con cui il genere femminile ha scelto di approcciarsi alla natura nel corso del tempo. Ne abbiamo parlato con lei.
Professoressa Galassi, quando e perché ha deciso di occuparsi di ecofemminismo?
SG Qualche anno fa decisi di raccontare le storie di alcune donne che avevano ispirato il mio lavoro di ricercatrice e docente di Ecologia sia nel campo scientifico sia nella società in quanto attiviste. Sentivo che c’era qualcosa che le accomunava e le distingueva dal modo di fare ricerca e attivismo degli uomini e quando ho letto gli scritti delle filosofe, delle antropologhe e sociologhe ecofemministe ho trovato il “filo verde” che legava queste storie.
Che cos’è dunque l’ecofemminismo e qual è il punto di contatto tra ecologia e femminismo?
SG Questo termine compare per la prima volta in un libro dell’attivista francese Françoise d’Eaubonne del 1974 dal titolo “Le féminisme ou la mort”. L’ecofemminismo si può considerare un filone del femminismo basato sulla presa di coscienza che la condizione della donna e quella della natura sono accomunate dal fatto di essere entrambe assoggettate allo sfruttamento maschile. Affidando alla donna le mansioni di cura delle persone e della casa, gli uomini presero infatti il comando della società. L’ecofemminismo si è andato consolidando anche in seguito alla costatazione delle conseguenze dello sviluppo tecnologico delle economie capitaliste-patriarcali. Dai primi anni Settanta si sviluppò la critica alla scienza maschile che sta alla base delle tecnologie, fondata sulla percezione del limite e della responsabilità sociale. Disastri come quello di Seveso (1976), Love Canal (1978), Three Miles Island (1979), Bophal (1984), Cernobyl (1986) e Fukushima (2011) hanno spinto a contestare il principio della razionalità su cui tutta la scienza occidentale si è basata da Bacone in poi, decretando la sottomissione della natura e lo sfruttamento della componente più vulnerabile delle società umane.
Quali sono le storie di ecofemministe-attiviste che l’hanno appassionata o ispirata di più?
SG Le vite di attiviste solitarie come Joan Root (ambientalista keniota, attivista ecologica e regista nominata all’Oscar per aver girato con il marito, il regista Alan Root, una serie di film sulla natura, ndr) e Dian Fossey (zoologa statunitense che dedicò la sua vita allo studio dei gorilla di montagna in Ruanda finché fu uccisa, ndr) mi hanno emozionata. Seguo con molta partecipazione le attiviste che difendono le popolazioni indigene del Sudamerica e portano avanti l’idea del “buen vivir”. Ma nel mio lavoro sono stata molto influenzata dalla biologa e zoologa statunitense Rachel Carson, dall’ecologa Theo Colborn e dalla biologa Lyn Margulis che hanno trovato un modo molto originale di fare ricerca. Nel mio piccolo ho cercato di imitarle.
Come l’ecofemminismo può aiutare la battaglia per la salvaguardia del Pianeta?
SG Annalisa Corrado ha pubblicato nel 2020 “Le ragazze salveranno il mondo” (People) in cui racconta le storie di alcune tra le più famose attiviste a partire da Rachel Carson per finire con Greta Thunberg. L’ecofemminismo aiuta a capire le cause del dissesto ambientale e perché finora le donne sono state più attive nella difesa e nel recupero dell’ambiente. Ma se vogliamo cambiare direzione, avviarci verso un futuro più sostenibile per l’ambiente e più equo penso sia necessario unirci tutti e tutte, uomini e donne, nella convinzione che il benessere non è dato solo dal possesso di beni materiali ma dalla convivenza pacifica, dalla cultura, dalla solidarietà e dal rispetto dell’ambiente.

Un celebre libro della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie afferma che “dovremmo essere tutti femministi”, considerando che l’essere inchiodati dal genere in un ruolo prefissato fa un grave torto alle donne ma allo stesso tempo anche agli uomini, educandoli ad aver paura della debolezza, della vulnerabilità e rendendoli dunque fragili. Secondo lei dovremmo anche essere tutti ecofemministi?
SG Concordo con quanto affermato nel libro, i maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico ma la socializzazione accentua le differenze. Infatti l’idea, che ha ispirato le ecofemministe essenzialiste, per cui esiste maggiore predisposizione biologica della donna a favore della natura non è stata condivisa dalla maggior parte delle altre teoriche dello stesso movimento le quali sono convinte che nei comportamenti umani sia più influente l’educazione e il contesto sociale rispetto alle differenze biologiche. Aggiungo dunque che tra le differenze che hanno finora caratterizzato l’educazione dei bambini e delle bambine c’è anche l’empatia per la natura, che si sviluppa di più in quest’ultime perché si parte dal presupposto che siano più propense alla cura. Rachel Carson, e prima ancora il filosofo Jean-Jacques Rousseau, ritenevano che l’empatia per la natura andasse coltivata fin dall’infanzia in entrambi i generi mentre attualmente si tende a reprimerla nei maschi che sono istigati al dominio.
I recenti casi di femminicidio, soprattutto tra i più giovani, fanno pensare che sia urgente un cambio di prospettiva sui ruoli di genere e soprattutto introdurre un’educazione all’affettività tra i ragazzi, l’ecofemminismo può aiutare in questo senso?
SG Abbattere gli stereotipi dei ruoli è molto importante. Greta Gaard è un’ecofemminista che sostiene sia necessario superare la dualità dei sessi e concepire un genere queer, fluido. Personalmente, lo ritengo un obiettivo utopico ma è necessario far capire alle giovani donne che il loro futuro non dipende dall’approvazione maschile e ai ragazzi quanto hanno da guadagnare uscendo dagli stereotipi che li inchiodano alla razionalità e al dominio delle proprie debolezze e vulnerabilità. Credo che ci sia molto lavoro da fare in famiglia, nelle scuole e nei media. C’è poi una parte del mondo in cui alle donne non vengono riconosciuti neppure i diritti fondamentali. Dobbiamo trovare il modo di aiutare questa parte dell’umanità.
Quali forme ha assunto oggi l’ecofemminismo?
SG Un capitolo del mio libro è dedicato alla geografia dell’ecofemminismo che si manifesta con modalità differenti in funzione delle condizioni ambientali, culturali sociali. Alcune attiviste non sanno neppure di essere ecofemministe ma sono spinte a combattere contro la disuguaglianza di genere e lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali per la propria sopravvivenza, per quella della propria famiglia e del proprio gruppo etnico. Dal punto di vista teorico, il pensiero che postula opposti dualismi, come natura/cultura, loro/noi, bianco/nero, primitivo/civilizzato, bene/male, umano/animale, come principi dell’organizzazione sociale e naturale è stato superato. Ora prevale il principio dell’intersezionalità, termine proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere l’intersezione di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni. Anche dal punto di vista degli obiettivi l’ecofemminismo è intersezionale perché ha accolto le istanze del movimento femminista, dell’ambientalismo e del pacifismo.
© riproduzione riservata