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Le zavorre dell’economia italiana

I limiti: scarsi investimenti in ricerca e innovazione, bassa occupazione femminile, rapporto tra mondo della scuola e del lavoro —

Tratto da Altreconomia 144 — Dicembre 2012

"Nell’ultimo decennio, dopo l’euro, l’Italia non ha ottenuto i vantaggi propri degli altri Paesi e ha perso competitività, anno dopo anno. Questo ha segnato passo dopo passo il declino del nostro Paese e ha influito sull’occupazione”. Edoardo Patriarca, consigliere del Cnel dal 2010, ci tiene a questa premessa: “Altrimenti -aggiunge- non si capirebbero i problemi del lavoro in Italia”. Già portavoce del Forum del Terzo Settore, Patriarca è attualmente presidente del Centro nazionale per il volontariato e dell’Istituto italiano della donazione, ed è stato relatore del “Rapporto sul mercato del lavoro 2011-2012” del Cnel.
Quali sono i principali fattori che ostacolano lo sviluppo occupazionale?
Sono molti: primo fra tutti l’incapacità del sistema produttivo di innovare. L’investimento pubblico e privato in ricerca è fra gli ultimi in Europa, e si perdono quote di mercato soprattutto nel settore manufatturiero, che era il nostro gioiello. Il secondo fattore è il grave ritardo nell’occupazione femminile. Le lavoratrici formano ancora una quota troppo bassa rispetto ad altri Paesi, circa il 40-45% di loro lavora a fronte di una media europea intorno al 60-70%. Questo impoverisce il Paese, perché più le donne lavorano e sono sostenute e più si produce ricchezza, anche perché si sviluppano maggiori servizi alle famiglie. Le donne invece sono penalizzate, soprattutto dopo la nascita del secondo figlio. Non è solo una questione di giustizia e di pari opportunità, è una perdita economica. Il terzo riguarda il drammatico ritardo nel rapporto lavoro- studio. In altri Paesi è normale che un ragazzo arrivi a 25 anni con un titolo di studio e una serie di esperienze lavorative, in Italia c’è una separazione netta che sta creando un danno al Paese perché non c’è accordo fra i bisogni del mercato e del sistema industriale e quello formativo. Se aggiungiamo che esiste un sistema professionale e di istruzione che è una cenerentola, capiamo bene i motivi di questa disconnessione che crea disoccupazione.
Assistiamo a una maggior tenuta per l’occupazione che riguarda il non profit. Quali sono i punti di forza del settore?
Il non profit tiene. Fino ad oggi non ha licenziato perché è formato da imprese che si reggono su un rapporto solidale fra i lavoratori. Gli ammortizzatori e gli aggiustamenti, talvolta anche dolorosi per i lavoratori, con razionalizzazioni ma anche riduzioni di salari e di orari, vengono operati senza bisogno di ricorrere alla cassa integrazione e gravare sulle casse statali. E tiene nonostante il mondo cooperativo abbia maturato crediti di decine di milioni di euro verso le amministrazioni pubbliche. La legge del 2005 sull’impresa sociale, che istituiva una nuova modalità sociale oltre i livelli cooperativi, non è mai stata accompagnata da forme di incentivazione, e oggi ne sono nate poco più che un migliaio.
Come difenderla e sostenerla?
Non si capisce ancora che questa sarebbe la forma più intelligente per gestire alcuni settori: i beni comuni, i beni culturali e ambientali, i servizi di welfare alle famiglie che il pubblico non riesce coprire. Pensiamo al Mezzogiorno: è impensabile imporre oggi grandi complessi industriali, che peraltro stanno chiudendo, come in passato. Il futuro sono le piccole imprese sociali che possono fare in modo che il Sud e l’intero Paese torni a crescere, a partire dall’agricoltura, dall’artigianato. Favorendo, ad esempio, i giovani che si mettono insieme per recuperare gli antichi mestieri, sotto il segno della qualità e della dignità del lavoro capace di creare reddito. —

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