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Le tasche bucate del sistema – Ae 89

Coi mutui subprime le banche hanno venduto l’illusione di una casa per tutti. Il sogno ora si è trasformato nell’incubo di una crollo finanziario globale. Di cui fanno le spese solo i più deboli Si chiamano mutui subprime e sono…

Tratto da Altreconomia 89 — Dicembre 2007

Coi mutui subprime le banche hanno venduto l’illusione di una casa per tutti. Il sogno ora si è trasformato nell’incubo di una crollo finanziario globale. Di cui fanno le spese solo i più deboli


Si chiamano mutui subprime e sono il terrore della finanza mondiale. Milioni di frecce avvelenate, pronte a colpire fondi pensione e di investimento. E milioni di piccoli risparmiatori. Il virus è stato confezionato negli Stati Uniti e ha come protagonisti iniziali banche di piccole cittadine o dei quartieri popolari delle grandi metropoli. Si tratta in genere di agenzie locali di colossi internazionali del calibro di Citigroup, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. Da una parte loro, dall’altra giovani coppie, o attempati padri di famiglia. In ogni caso gente di classe medio bassa: desiderano comprare una casa, ma non hanno i soldi per farlo. Quindi chiedono un mutuo. Entrano in banca trepidanti perché non hanno neanche di che pagare la caparra e non hanno garanzie perché svolgono lavori precari e mal retribuiti. Ma in televisione hanno sentito dire che questo non è più un problema: le banche danno mutui a tutti, perfino ai nullatenenti. Ecco, i subprime sono proprio i mutui concessi a chi non dispone di solide basi economiche. Per di più sono allettanti: copertura, dietro ipoteca, del 100% del valore della casa e restituzione (trentennale) del capitale in comode rate  che nei primi anni sono gravate da tassi molto bassi. Del resto, il mercato immobiliare va bene, nel giro di pochi anni il valore della casa acquistata può raddoppiare e sarà possibile rinegoziare il mutuo per finanziare tante nuove spese: un auto nuova, il cambio del frigo, un viaggetto all’estero.

Così la pensa la giovane coppia, e altrettanto fiduciosa è la direzione della banca. Con essa, il consiglio d’amministrazione che ha sede a New York, che del resto ha già pensato come riprendersi i soldi prestati scaricando i rischi su altri. L’architettura finanziaria ha inventato molti mezzi al riguardo e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il più semplice è la cartolarizzazione (vedi pagina 22) che consiste nello spezzettare il credito e rivenderlo a un largo pubblico che poi riceverà dal vecchio debitore capitale e interessi. C’è infatti un particolare (su cui la giovane coppia non ha posto attenzione): i tassi tornano a salire, e le condizioni privilegiate durano soltanto i primi anni. Ed è su questo che la banca fa leva per invogliare gli investitori a comprare i suoi mutui subprime: la prospettiva di rendimenti elevati. La valutazione sull’affidabilità

e la convenienza di un affare dall’aspetto molto rischioso viene chiesta a Moody’s o a Standard & Poor’s, società di fama mondiale (giudicano perfino i governi). Le quali danno ottimi voti anche alle offerte delle banche.

Per aggirare le ultime diffidenze, le banche si inventano infine i cosiddetti titoli “salsiccia”, ovvero “pacchetti” di prestiti concessi in più direzioni (imprese, enti locali, Stato), e nascondono in mezzo ad essi i mutui subprime. La cosa funziona e i titoli salsiccia “avvelenati” finiscono nei portafogli dei fondi pensione, delle assicurazioni, dei fondi di investimento, dei temerari hedge funds, tutti alla ricerca di forme di investimento ad alta resa.

Finché il mercato immobiliare ha tirato, tutto è filato liscio: i prezzi delle case crescevano e i mutui rientravano.

Ma quando il mercato ha rallentato, i prezzi hanno segnato il passo e i nodi sono venuti al pettine. Incrementi anche lievi del tasso di interesse hanno aumentato l’onere delle rate del mutuo e tante famiglie “subprime” si sono dovute dare per vinte. Fra l’altro la caduta del prezzo delle case impediva di riscattare il mutuo attraverso la vendita dell’immobile acquistato.

Così il castello di carta ha cominciato a crollare. Fra i primi ad accorgersene c’è stata Merrill Lynch, la banca americana che nel giugno 2007 aveva accordato un prestito di vari milioni di dollari a Bear Stearns, un hedge fund, cioè un fondo speculativo. A garanzia del prestito, la Bear aveva dato un buon numero di titoli salsiccia. Quando la Merrill Lynch ha cercato di venderli, ha capito che qualcosa non andava, perché non riusciva a collocarli se non a prezzi ribassati. Lanciato l’allarme, i grandi investitori di tutto il mondo (fondi pensione, fondi comuni di investimento, assicurazioni, banche) hanno controllato e sono rimasti inorriditi nel constatare che i loro portafogli traboccavano di titoli salsiccia, di cui era ormai difficile disfarsi. Intanto neanche le operazioni di recupero legate alle ipoteche davano risultati, col prezzo delle case in discesa.

La crisi ha preso dunque tre direzioni.

La prima in Borsa. Molti attori comprano con denaro preso a prestito che riescono a ottenere mettendo a pegno titoli.

Ma le banche non hanno più accettato titoli salsiccia e per molti operatori finanziari è venuta meno la possibilità di ottenere prestiti.

La seconda crisi è per le banche stesse, che a causa del generale clima di sfiducia diventano riluttanti a prestarsi denaro tra di loro e provocano un rialzo dei tassi d’interesse sui fondi interbancari.

La terza crisi è per il sistema nel suo insieme. Molta gente chiedeva mutui per la casa sperando di fare un’operazione che gli consentisse di avere un extra

per sbilanciarsi verso altri consumi.

La crisi della casa ha tolto a milioni di americani questa possibilità facendo rallentare le vendite di automobili, elettrodomestici, mobili etc.

Questa triplice crisi spiega perché le autorità monetarie, dopo circa un anno di rialzi dei tassi d’interesse, abbiano deciso, fra agosto e settembre 2007, di immettere nel circuito bancario varie decine di miliardi di dollari.

Ma quando è la mancanza di fiducia ad originare la crisi, a poco servono le inondazioni di denaro da parte delle banche centrali per calmare le acque:

nei mesi autunnali inizia per i grandi gruppi la contabilizzazione di ingenti perdite legate ai subprime; i dati e le proiezioni sui consumi delle famiglie e sui prezzi delle case fanno paventare il rischio di una grave crisi, finanziaria ma anche dell’economia reale.

Nel frattempo, a fronte di alcune teste cadute ai vertici della finanza mondiale, sono circa 20 mila i posti di lavoro cancellati dalla crisi dei subprime e milioni i cittadini americani che rischiano di subire nei prossimi mesi il pignoramento dei loro beni. Quando il sistema traballa i primi a cadere sono quelli che vivono ai suoi margini…



Una mano fin troppo visibile

Nell’intreccio di cause e effetti che ha alimentato la crisi dei mutui subprime quello che lascia più sorpresi è proprio l’inizio della storia. Le banche, tradizionalmente restie ad aprire i legacci della borsa, negli ultimi anni si sono messe addirittura a prestare soldi ai poveracci! Ma come è possibile?

Per cercare di vederci chiaro è necessario ripartire dalle politiche monetarie adottate dai vertici della Federal Reserve americana (Fed) a partire dall’inizio del nuovo secolo, quando l’economia statunitense si trova in una pericolosissima impasse. La macchina è quasi ferma e si tratta di farla tornare a correre attraverso una ripresa di consumi e investimenti. La ricetta dell’allora governatore Alan Greenspan (a sinistra) è chiara e decisa. La Fed taglia i tassi di interesse portandoli al livello più basso dal dopoguerra, fino a renderli addirittura negativi in termini reali. Le strategie messe in campo dalle banche per ampliare la propria clientela ed estendere il proprio volume di affari si fanno più aggressive. I forzieri delle banche quindi cominciano a spalancarsi, l’offerta di credito cresce rapidamente e prendere a prestito diventa facile come non mai.

La ricetta Greenspan, scopiazzata con minore convinzione anche dalla Banca centrale europea, sembra efficace.

Il prodotto interno lordo aumenta velocemente, il volume di costruzioni,

il numero di compravendite e i prezzi degli immobili raggiungono livelli mai visti prima, la ricchezza immobiliare delle famiglie americane pressoché duplica. Negli stessi anni raddoppia il valore dei mutui residenziali e quasi triplicano i prezzi delle abitazioni.

Finanziamenti che prima le banche avrebbero scartato senza pietà diventano d’un tratto molto appetibili: grazie

a un profilo di rischio più elevato, i subprime garantiscono 3-4 punti percentuali in più rispetto ai normali mutui: non è poco in un mercato così competitivo e le banche si lanciano all’assalto dei clienti inaffidabili, protestati, precari e a basso reddito.

I paria del sistema finanziario, vengono ora corteggiati e ricercati come la nuova gallina dalle uova d’oro.

Soldi a buon mercato, immobili fatiscenti che rifioriscono, povera gente che ottiene il mutuo. Potrebbe essere quasi una storia a lieto fine, una moderna applicazione della mano invisibile tesa dalla stanza di Greenspan fino alle case di periferia, passando per i consigli di amministrazione dei colossi della finanza. In realtà, la maggior parte dei debitori, soprattutto quelli subprime, verosimilmente meno in grado di apprezzare i rischi reali dell’operazione, si sono indebitati al massimo delle proprie possibilità. Le banche, dal canto loro, in molti casi hanno preferito i profitti immediati alla cura delle reali necessità dei clienti, assecondandone

la miopia e incoraggiandoli verso operazioni inadeguate alle proprie condizioni: ciò ha comportato una sempre maggiore esposizione dei debitori, ma anche delle banche, al rischio di eventuali crolli del prezzo degli immobili, che, una volta verificatisi, hanno causato una drastica riduzione delle garanzie reali poste a sostegno dei mutui. C’è poi la diversificazione. Un prestito non devi per forza tenerlo trent’anni. Il prestito si cartolarizza, il rischio si spalma insieme a titoli più sicuri, rivendendolo alla larga pletora dei risparmiatori grandi e piccoli, ai fondi pensione, agli hedge funds.

È quindi verosimile che le valutazioni e i “monitoraggi” del mutuo, perfino del subprime, non siano severe come quando è la banca stessa ad essere la prima danneggiata da un’eventuale insolvenza. La cartolarizzazione e il “montaggio” dei mutui in prodotti finanziari strutturati (i titoli salsiccia, tanto per intendersi) rende inoltre difficilissima la tracciatura del rischio all’interno del mercato finanziario.

Le agenzie di rating, con gli alti punteggi attribuiti a fondi contenenti subprime, hanno fatto il resto. La tigre della crisi di sistema stava nell’ombra, pronta a scatenare la sua forza: possibile che nessuno l’abbia vista?



Il debito dell’ingiustizia

di Francesco Gesualdi

Gli economisti amano pensare che gli scenari economici siano il risultato della sommatoria delle scelte dei singoli operatori e arricciano il naso quando sentono parlare di regia. A questo proposito in “Lettera a una professoressa” don Lorenzo Milani scriveva: “Spesso c’è venuto fatto di parlare del padrone che manovra. Esiste? Sentiamo che a dirlo il nostro scritto prende un che di romanzesco. A non lo dire bisogna fare gli ingenui. È come sostenere che tante rotelle si son messe insieme per caso.

N’è venuto fuori un carro armato che fa la guerra da sé senza manovratore”.

Cerchiamo ancora una volta di fare parlare i fatti. Per cominciare il tasso d’interesse è fissato dalle autorità centrali, la Fed negli Stati Uniti, la Bce in Europa, che lo hanno mantenuto a livelli molto bassi per stimolare la crescita, che è l’ossessione di questo sistema. Ma quale crescita? Oggi la competizione globale taglia le gambe a qualsiasi nuova attività: difficile crescere con la produzione industriale e perfino con quella dei servizi. L’unico settore che non teme la concorrenza è l’edilizia. Le case non si importano, si costruiscono pezzo a pezzo sul proprio territorio. Basta che qualcuno le compri. Ed ecco la funzione dei mutui subprime che hanno contribuito a mantenere su di giri un’economia nazionale che la globalizzazione avrebbe potuto deprimere. E proprio guardando all’economia globale si scopre che i subprime hanno contribuito a non fare affogare il sistema nel mare delle sue contraddizioni.

L’obiettivo del capitalismo è consentire alle imprese di guadagnare attraverso le vendite. Produrre per vendere è la base del suo funzionamento. Da questo punto di vista il suo interesse è che il pianeta sia abitato da persone facoltose: ovunque gente ricca che compra. Per questo le imprese da un lato pagano salari quanto più bassi possibile, dall’altro sperano in una ricca clientela.

A partire dalla crisi del ‘29 il progresso tecnologico ha iniziato a complicare le cose: nuove scoperte facevano aumentare la resa del lavoro, ma l’aumento di produzione rimaneva nei magazzini perché i salari rimanevano fermi. Di qui l’arresto degli investimenti, la disoccupazione, in una parola le crisi che duravano finché una guerra non ridava slancio all’economia che riprendeva a correre finché non si esauriva la spinta. C’è voluto Ford per fare capire che se il sistema voleva produrre molto doveva fare aumentare i salari, perché solo così si sarebbe potuto chiudere il cerchio della produzione e delle vendite. Fino al 1980, la tesi di Ford ha prevalso e sotto la spinta del sindacato, i salari crescevano, il lavoro era tutelato, una parte importante della ricchezza prodotta era destinata alla sicurezza sociale.

Con l’avvento della globalizzazione la parte razionale del sistema ha ceduto di nuovo il passo alla parte istintiva. Oggi c’è di nuovo il rischio che il cerchio non si chiuda più. Oggi la priorità delle imprese è diventata la compressione dei costi, prima di tutto quello del lavoro. Non a caso la produzione fugge in Cina, India, Romania, dove i salari sono anche trenta volte più bassi, mentre il lavoro che rimane da noi è sempre più precario, mal pagato e privo di diritti sociali.

Succede in Europa e a maggior ragione succede in America.

L’attacco al lavoro è un fenomeno mondiale, come mondiale è il fenomeno della crescita delle Borse e delle banche, l’altra faccia della stessa medaglia. All’inizio, quando la massa salariale comincia a scendere, per i capitalisti è festa: crescono i profitti e non ci sono contraccolpi sulle vendite perché la gente attinge ai propri risparmi. Poi i nodi vengono al pettine e fanno cambiare le scelte di investimento delle imprese. In condizioni normali esse investono i profitti in nuove attività produttive, ma quando la massa salariale scende, la fiducia nelle vendite future cala e il denaro si orienta verso le attività speculative. È una costante: quando la distribuzione della ricchezza si fa più iniqua, l’economia si avvia verso la finanziarizzazione. Così, mentre la popolazione si impoverisce (basti pensare che nel 2006 negli Usa l’1% più ricco si è appropriato del 21% della ricchezza prodotta mentre il 50% più povero ha dovuto accontentarsi del 12%), la Borsa si gonfia e anche le banche si ritrovano con le casse piene di soldi depositati dai Paperon de’ Paperoni mondiali.

Con un problema: che farne del denaro, se il flusso degli investimenti produttivi tira poco? Le banche oggi stanno privilegiando il finanziamento delle operazioni speculative.

Prestiti a hedge funds, a fondi privati, a imprese, talvolta facendo male i conti e rimettendoci le penne. Ma siccome non deve essere lasciato niente di intentato, avanza anche l’idea di rivolgersi a quel pubblico che normalmente è escluso dal circuito creditizio perché poco affidabile. Così cresce il credito al consumo, che sprona la gente a indebitarsi per comprarsi l’auto più grande, la mobilia nuova, il televisore al plasma. In tutt’Europa il numero di giovani coppie con lavori precari che non sa più come fare per uscire fuori dai debiti sta crescendo a dismisura. Nella stessa logica si iscrivono i mutui subprime, frecce avvelenate di un sistema in preda al delirio che tenta di compensare col debito i guasti dell’ingiustizia.

Il piano perfetto di un sistema deviato: prima impoverisce la gente e allaga le banche con soldi dei ricchi non spesi, poi spinge gli impoveriti a indebitarsi per arricchire ulteriormente le banche ed evitare che il sistema si inceppi. Cerchiamo una soluzione prima che sia troppo tardi.

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