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Le strade maestre degli affari – Ae 87 –

Autostrade, Telecom, Cirio, Parmalat, ma anche Fiat: ecco come sono finiti i casi di cui ci siamo occupati. Grandi monopoli comprati e venduti con poche o nessuna volontà d’investimento, imprese private che chiudono o “rinascono” da un giorno all’altro. Sugli…

Tratto da Altreconomia 87 — Ottobre 2007

Autostrade, Telecom, Cirio, Parmalat, ma anche Fiat: ecco come sono finiti i casi di cui ci siamo occupati. Grandi monopoli comprati e venduti con poche o nessuna volontà d’investimento, imprese private che chiudono o “rinascono” da un giorno all’altro. Sugli scandali si stende un velo, sui rilanci la solita Cassa integrazione


In una calda giornata di mezza estate, un trafiletto del quotidiano la Repubblica riporta le parole del presidente di Atlantia. Ora forse non ve lo ricordate più, ma Atlantia è il nuovo nome di Autostrade spa, la società che controlla Autostrade per l’Italia spa, che è quella cui pagate il pedaggio.

Il presidente non è cambiato, è sempre Gian Maria Gros-Pietro. Che afferma:

“Il ministro Di Pietro aveva ragione nel dire che non abbiamo fatto investimenti per 2 miliardi”.

La fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis, che avrebbe dato vita al più grande gruppo autostradale del pianeta, è ferma. La “colpa” è di Antonio Di Pietro, ministro per le Infrastrutture, che lo scorso anno ha ricordato ai dirigenti del gruppo una cosa: le autostrade sono un servizio pubblico dato in concessione, e le concessioni vanno riviste se i privati vendono.

Non solo, Di Pietro ha chiesto anche conto degli extra profitti ottenuti da Autostrade grazie agli aumenti tariffari (cioè i pedaggi) concessi in virtù di investimenti -sulla rete, per migliorare sicurezza e viabilità (vedi Ae 35 e 63)- che nessuno ha mai visto.

La fusione è saltata (per ora) e tutti hanno criticato l’interventismo dello Stato nel “mercato”. Ora Gros-Pietro ammette, candidamente: è vero, tanti guadagni ma niente investimenti.

Profitti privati e costi sociali. Se siete in fila al casello, pensate ai Benetton, che in Borsa controllano Atlantia, o come si chiama.

Questo è il capitalismo italiano, questi sono i “capitani coraggiosi” che fanno soldi sfruttando gli ex monopoli e le bollette che paghiamo. Quando hanno fatto il pieno, di solito, vendono.

Marco Tronchetti Provera ad esempio ha deciso di liberarsi di Telecom.

Ecco un altro ex monopolio, privatizzato nel 1997. Tronchetti lo acquista nel 2001 da Roberto Colaninno e Emilio Gnutti. Una vendita che è una specie di accordo privato, realizzato senza interpellare Borsa e risparmiatori (vedi Ae 83). Su Gnutti per inciso ora pende una multa di 1,6 miliardi di euro per aver sottratto al fisco 600 milioni di euro (1.266 miliardi di lire) in seguito all’operazione.

Colaninno invece incassa personalmente dall’affare 300 milioni di euro.

In mano a Tronchetti, che controlla la società con una esigua quantità di azioni, forte del meccanismo delle scatole cinesi e della leva finanziaria, gli investimenti sulla rete crollano al 31% delle risorse, metà di quello che accadeva quando Telecom era in mano a manager pubblici. Il canone in bolletta in compenso continuiamo a pagarlo come prima. Raddoppiano invece i dividendi che finiscono agli azionisti, s’impennano i debiti (oltre 44 miliardi nel 2006, 1,6 volte il capitale netto della società) e fioccano multe per abuso di posizione dominante (l’ultima, 20 milioni di euro, ad agosto).

Ora Tronchetti ha deciso di cedere il controllo di Telecom al miglior offerente. Ancora una volta senza interpellare il mercato. L’offerente è la spagnola Telefonica, e l’operazione potrebbe essere conclusa a metà novembre. Nel frattempo la rete mostra la corda: servirebbero 10 miliardi di euro per rimetterla in sesto. Proprio il momento di vendere.



Chi non è riuscita a vendere invece è stata la famiglia Agnelli. Il matrimonio con General Motors sancito nel 2000 non si è mai celebrato. A inizio 2005 l’azienda sembra essere colta da crisi irreversibile: calano le vendite, ricominciano le casse integrazioni a Cassino, Termini Imerese e Mirafiori, il titolo crolla in Borsa. Insomma ne fanno le spese lavoratori e risparmiatori. Poi, in qualche modo, la svolta.

Loro dicono grazie alla “Punto”. In realtà grazie a una manovra da 7 miliardi, dovuta alla rescissione del contratto con Gm e all’intervento delle banche.

La famiglia a questo punto, senza dare comunicazione al mercato, acquista azioni a prezzi stracciati, e mantiene il controllo dell’azienda. Poco dopo, le azioni si impennano. Per questa operazione, la società è multata dalla Consob e i vertici del gruppo sono indagati. Da questa operazione la Fiat sembra però rinascere.

Certo, senza i vari interventi di governo e banche Fiat sarebbe oggi uno dei casi di cui parliamo accanto alle crisi di altri gruppi industriali, come Parmalat e Cirio. Ve ne ricordate? Entrambe le società contrassero debiti con i risparmiatori che poi non furono in grado di onorare. Complici, le banche che continuarono a collocare le obbligazioni pur sapendo della fragilità dei gruppi. Forse il Paese non può permettersi il fallimento del suo maggiore gruppo industriale, Fiat, che oggi infatti macina utili.

Un dettaglio però: a febbraio 2007 Fiat convince il governo a finanziare la mobilità lunga (cioè il prepensionamento) per 2.000 suoi dipendenti, mangiandosi da sola un terzo del fondo messo a disposizione dallo Stato per un programma di prepensionamento di 6.000 dipendenti da scegliere tra tutte le aziende italiane. Mentre la nuova 500, questo “vanto nazionale”, viene prodotta in Polonia.



Il commento

Caos capitale

di Bruno Perini*

La Fiat è uscita da Mediobanca, cedendo la sua quota alla statunitense Goldman Sachs. Finisce così un connubbio tra due pilastri del capitalismo italiano che durava da decenni. In sè la transazione tra Fiat, Mediobanca e Goldman Sachs, avvenuta il 20 settembre scorso, è poca cosa ma sul piano simbolico rappresenta la fine di un’epoca storica del capitalismo italiano. L’ultimo atto di una trasformazione iniziata il 23 giugno 2000, giorno in cui è morto il banchiere Enrico Cuccia. Si dirà che la morte di un uomo non può segnare la fine o la trasformazione di un sistema. È vero. Altre date potrebbero essere messe in campo, come ad esempio la fine del capitalismo di Stato e delle partecipazioni statali. Eppure con la morte di Cuccia finisce quella fase del capitalismo familiare italiano che per 40 anni ha ruotato attorno a Mediobanca e al suo deus ex machina. Anche il compratore della quota Fiat in Mediobanca è simbolico, perchè dimostra come la globalizzazione dei mercati finanziari stia divorando ciò che resta del vecchio capitalismo nostrano. Una volta era diverso, per via di una caratteristica anomala del capitalismo tutto veniva deciso nelle stanze di Mediobanca, nata e ideata da Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia come punto di intersezione tra il capitale pubblico e i grandi gruppi privati. Tutta la storia economica e finanziaria del dopoguerra è passata dal quel crocevia. Poi anche per il capitalismo italiano è arrivata la fine del protezionismo. La nascita dell’Europa e della Bce, la globalizzazione dei mercati, la crescita impetuosa dei cosiddetti nuovi capitalisti, (hedge fund, private equity), ha disintegrato i confini del capitalismo familiare italiano e ha messo in moto processi di integrazione che per decenni erano congelati. La fine di un governatore come Antonio Fazio, i processi di merger&acquisition nel settore bancario e industriale, l’avvento di gruppi stranieri possono essere letti tutti in questa chiave: la fine di un’epoca che non ha tuttavia prodotto un nuovo modello di capitalismo ma ha accentuato quello che Carl Marx definiva l’anarchia del capitalismo.



*giornalista finanziario

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