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Ambiente

Le sabbiature di un sistema in crisi

Rappresentano il 15% di tutte le riserve mondiali di greggio. Non sono in Medio Oriente né, tanto meno, in Arabia Saudita, ma nel verdissimo Canada e più precisamente nello stato dell’Alberta. Le sabbie bituminose, o tar sands se vogliamo essere…

Rappresentano il 15% di tutte le riserve mondiali di greggio. Non sono in Medio Oriente né, tanto meno, in Arabia Saudita, ma nel verdissimo Canada e più precisamente nello stato dell’Alberta. Le sabbie bituminose, o tar sands se vogliamo essere sì global hanno rappresentato per anni uno dei principali problemi del Paese: inquinanti e difficilmente utilizzabili. Ma la tecnologia avanza e la fame di petrolio pure, e così quello che ieri era solo un sogno oggi diventa realtà. O forse un incubo, dipende dai punti di vista. Stiamo parlando di un tesoro corrispondente ad oltre 170  miliardi di barili di petrolio su una zona di circa 4 milioni di ettari. Per avere un’idea delle cose in ballo basti pensare che nel 2008, secondo il BP Statistical Review of World Energy 2009, l’estrazione di petrolio mondiali assommava a circa 4 miliardi di tonnellate all’anno. Riuscire ad estrarre dalle sabbie bituminose la gran parte del greggio contenuto significa far felici gli Stati Uniti, vicini di casa dell’Alberta pare non particolarmente benvisti in Medio Oriente, e le imprese che riusciranno a mettere mano sull’affare.
Prima fra tutte, la Bp. Pochi mesi dopo il disastro del Golfo del Messico, la multinazionale inglese ha deciso di investire oltre 2,5 miliardi di dollari nello sviluppo del progetto, considerato dall’azienda "una pietra miliare" della propria attività, che potrebbe assicurare oltre 40 anni di forniture stabili agli Stati Uniti. La questione sarà a che prezzo, e non solo quello borsistico oramai stabile oltre i 70 dollari (con picchi fino a 90), ma quello ambientale e sociale, denunciato da diversi documenti e pubblicazioni scientifiche. Secondo uno studio curato dall’Ong canadese Environmental Defence e pubblicato nel 2008, la lavorazione delle sabbia bituminose porterà nel 2012 il consumo di acqua alla stratosferica cifra di 72 milioni di litri al giorno, con un rilascio lento ma inevitabile di veleni e metalli pesanti. Come sanno i pesci del fiume Athabasca, le cui acque sono utilizzate in grande quantità per separare dal bitume il greggio poi da raffinare. Si estrae oro nero ma si lasciano composti aromatici, metalli pesanti e sostanze tossiche come denuncia una recente pubblicazione sull’americana PNAS (Proceedings of the National AcadEmy of Science), con conseguenze non indifferenti sulla popolazione, come ad esempio l’incremento dei decessi per tumore (30% in più della media nazionale) grazie anche alla presenza nell’acqua di alte concentrazioni di mercurio e tallio.
Rischi che si incontrano anche diverse migliaia di chilometri più a sudest, in Africa, dove l’Eni oramai da anni sta lavorando per estrarre con profitto (alto) tar sands con l’obiettivo di estrarre fino a 40mila barili al giorno entro il 2014.
Se si considera che la semplice estrazione di greggio dalle sabbie e per la sua lavorazione presuppone una grande quantità di acqua e l’emissione di gas serra, diventa difficile concepire come uscire dal business-as-usual scenario, dove le emissioni a livello globale stanno, inequivocabilmente, aumentando.

 

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