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Le reti solidali che custodiscono mais e riso. Tra varietà e filiere bio

Giovanni Marinoni affacciato alla cascina di famiglia, a Rovetta (Bg). Appese alla facciata sono le pannocchie raccolte nel settembre 2016. Il colore rosso deriva dai chicchi di mais rostrato rosso che Marinoni ha conservato e preservato - Luca Martinelli

Il progetto “Slow Mays” raggruppa 160 produttori di mais locali a impollinazione libera. A Sud-Ovest di Milano, invece, i gas sostengono la conversione del riso

Tratto da Altreconomia 190 — Febbraio 2017

Giovanni Marinoni è nato nel 1935 a Rovetta, un Comune dell’altopiano di Clusone, a una trentina di chilometri da Bergamo. Fa il contadino dal Secondo dopoguerra, ed è lui ad aver “custodito”, conservato e preservato, il Mais rostrato rosso di Rovetta, che dall’ottobre del 2016 è iscritto nel Registro nazionale delle varietà da conservazione.
Marinoni coltiva mais e patate in tanti piccoli fazzoletti di terra, sopravvissuti all’urbanizzazione dell’area Nord del paese: l’anno scorso ha venduto 26 quintali di farina. Le pannocchie del 2016, raccolte a settembre, sono invece appese sulla facciata della vecchia cascina di famiglia. Restano lì “a maturare, per almeno tre mesi” racconta Giovanni. “Maciniamo non più di due quintali di granella per volta -aggiunge-, dopo averle sgranate a mano”. I chicchi sono rossi, e fibre dello stesso colore sono presenti anche nella farina -macinata a pietra- che ha un colore bruno carico. Anche nel 2017, a marzo, si ripeterà un rito: dopo aver individuato la pannocchia giusta, “che dev’essere intera, con il torsolo pieno di chicchi”, Marinoni la sgranerà, mettendo da parte quelli adatti alla semina. Che avverrà ad aprile, avviando così a un nuovo ciclo produttivo.

A conoscere Giovanni Marinoni, nella sua casa di Rovetta, ci ha accompagnato Lorenzo Berlendis, vice-presidente di Slow Food. Per conto dell’associazione, segue il progetto “Slow Mays”, la neonata rete dei custodi di mais locali a impollinazione libera, cioè quelli in cui la selezione e la trasformazione delle sementi avviene in modo naturale, nei campi. È stata presentata a metà novembre 2016, e ne fanno parte 31 varietà -tra cui il rostrato rosso-, in Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Marche, Lazio e Abruzzo. Sono oltre 160 i produttori al momento coinvolti.
“Altre 17 varietà sono in fase di selezione e caratterizzazione”, spiega Berlendis: Slow Mays poggia su solide basi scientifiche, e prima dell’adesione formale alla rete le sementi vengono sottoposte a un’analisi, in collaborazione con l’Unità di ricerca per la maiscoltura del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea): “È importante valutare il grado di stabilità del seme, per non iscrivere varietà che rischiano di non esser più le stesse nell’arco di pochi anni, per cause naturali, legate alla propensione all’ibridazione che è propria dei mais” racconta Berlendis. Quello della rete è un progetto politico (“Il mais è una pianta ad alto valore strategico e politico” si legge nell’incipit del Manifesto della maiscoltura italiana di qualità), ed è per questo che la Giornata nazionale che ha segnato la nascita della rete si è svolta San Benedetto Po, in provincia di Mantova, e cioè in un’abbazia benedettina (“i monaci di quest’ordine sono stati i protagonisti della rinascita agraria in Europa”, dice Berlendis) in mezzo alla Pianura Padana, dove oggi quasi non si coltiva più mais destinato all’alimentazione umana. “Il nostro obiettivo è favorire una riconversione produttiva, creando ‘comunità del cibo’ intorno ai mais tradizionali, coinvolgendo mugnai, panificatori e pasticceri, favorendone la trasformazione e l’utilizzo nella ristorazione”.

A Rovetta a fine 2015 è nata l’Associazione per la conservazione e la valorizzazione della varietà di mais rostrato rosso di Rovetta. I soci fondatori sono 5, quattro i produttori attivi. “Lavoriamo a questo progetto da dieci anni -racconta Donatella Scandella, che ne è la presidente-, con l’obiettivo di far conoscere il nostro mais, e affinché il seme non si deteriori. Crediamo nella rete ‘Slow Mays’ perché ci offre opportunità di incontro e confronto”. Insieme, i produttori valutano i passi per lo sviluppo della filiera. Luca Buccarelli ha 25 anni e lavora nell’azienda di famiglia con il padre Bruno: “Seminiamo rostrato rosso da dieci anni. Abbiamo moltiplicato la produzione di granella, da 3 a 15-20 quintali all’anno”. Tra i soci, racconta Berlendis, ce n’è anche uno che produceva solo “trinciato”, mais per l’alimentazione animale, coltura che oggi ha abbandonato.

Nel 2016, in Italia, sono stati seminati 656mila ettari di mais, quasi interamente “trinciato”. Assieme al riso, rappresenta la coltura più presente nel Parco agricolo Sud Milano e nel Parco del Ticino. Marco Cuneo, la cui azienda agricola ha sede presso la Cascina Gambarina ad Abbiategrasso (Mi), a cavallo tra i due parchi, dal 2015 sperimenta la coltivazione biologica del riso (http://orticolti.blogspot.it). “Ho un orto ‘bio’ certificato da sei anni. Fino al 2013 ho fatto anche riso, ma in convenzionale: avevo abbandonato perché non era sostenibile; i costi fissi per i trattamenti -pesticidi, diserbanti- crescevano, mentre la formazione del prezzo sul mercato è altalenante. Ma dopo aver visto una trasmissione televisiva che metteva in discussione la possibilità di coltivare riso davvero ‘bio’, ho deciso di provarci: sono partito con due ettari, e l’ultimo anno ne ho messi 9 -racconta Cuneo ad Altreconomia-. Il risultato? Per quanto mi riguarda, una riduzione del 30 per cento della produzione, ricompensata da minori spese, e una maggiore presenza di infestanti ma meno parassiti e malattie per le piante”. La resa inferiore per ettaro, sottolinea Cuneo, “è ricompensata da minori spese di produzione”. Anche se il suo riso non è ancora certificato, ha ottenuto un “premio” del 15% rispetto al prezzo della Borsa di Milano, conferendo il prodotto al Distretto Neorurale delle tre Acque di Milano (DiNAMo, www.distrettodinamo.it), di cui è socio, insieme a un’altra quarantina di aziende agricole del territorio. “In tutto, il prodotto finito è stato pari a circa 60 quintali, equamente suddiviso tra integrale e semi-lavorato” spiega il presidente di DiNAMo, Dario Olivero. Il riso è di varietà Arborio, molto ricercata perché tra quelle meno coltivate oggi in Italia (un centinaio in tutto).

Marco Cuneo nei campi della sua azienda agricola presso la Cascina Gambarina di Abbiategrasso (Mi). Ha impiegato 9 ettari di terreno per la coltivazione di riso biologico - foto di Sara Petrucci
Marco Cuneo nei campi della sua azienda agricola presso la Cascina Gambarina di Abbiategrasso (Mi). Ha impiegato 9 ettari di terreno per la coltivazione di riso biologico – foto di Sara Petrucci

A metà gennaio, il riso venduto è pari a circa la metà della produzione. Oltre a quelli distribuiti direttamente dal Distretto -tramite i punti vendita delle aziende associate, o negozi convenzionati-, una dozzina di quintali sono finiti nelle case delle famiglie dei gruppi d’acquisto solidali (Gas), nell’ambito della campagna “Buon riso nei parchi” promossa dal Forum Cooperazione e Tecnologia (www.forumct.it), che nell’ambito dei progetti “SELS, verso nuovi Sistemi di Economia Locale Sostenibile” e “GenuinaGente” lavora alla costruzione di filiere locali nei due parchi. Alla campagna aderiscono: DiNAMo, la Rete di Economia Solidale Lombardia e il Distretto di Economia Solidale Rurale Parco Sud. “La salvaguardia del territorio passa per un’agricoltura di qualità, che dev’essere sostenuta da una filiera che permetta una commercializzazione dei prodotti staccata dalla grande distribuzione -sostiene Giuliana Piccolo, che coordina il progetto per ForumCT. Riuscire a garantire la sostenibilità economica del progetto è, per noi, ‘difesa del territorio’, della terra, che viene coltivata in modo rispettoso, a sostegno dei produttori, perché è ‘economia’, ma anche ricostruzione della ‘comunità’, attraverso il cibo consumato sul territorio”.

A fine febbraio il Forum CT terrà un’assemblea, con i Gas, con l’obiettivo di costruire un “patto di filiera”, e discutere di prezzo trasparente e di costituzione di un Fondo di Solidarietà. La scelta del riso, dato l’obiettivo di una riconversione del territorio, non è casuale: “Nell’area dei Parchi prevalgono aziende convenzionali e produzioni estensive -spiega Piccolo-, e il riso ha anche un valore paesaggistico incredibile, per l’acqua che rimane nelle risaie, che diventano luoghi dove gli animali transitano o risiedono. Riuscire a produrre un riso eco-sostenibile ha un valore ambientale enorme”. Come riassume Sara Petrucci, l’agronoma e consulente del Forum che ha accompagnato Marco Cuneo durante il 2016: “In regime ‘bio’ chi fa il riso ha l’obbligo delle rotazioni, mentre le aziende convenzionali, altamente specializzate, lo ripetono all’infinito sulle stesse parcelle, finendo con lo ‘specializzare’ infestanti e patologie presenti, che vanno curate con prodotti chimici. Può diventare un circolo vizioso”.

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