Esteri / Intervista
Le proteste in Turchia e il “dialogo” dei curdi con Ankara. Parla l’ex sindaco di Diyarbakir

Abdullah Demirbaş, come Ekrem Imamoglu a Istanbul, è stato rimosso due volte dal suo incarico, nel 2007 e nel 2012, per aver introdotto l’uso della lingua curda nelle istituzioni municipali. In questa intervista affronta in modo approfondito il dialogo in corso tra il movimento curdo e il governo turco nel contesto delle proteste. Il partito filo-curdo Dem, oggi terza forza in Parlamento, è da mesi impegnato in un delicato confronto con l’esecutivo
Lo scorso febbraio, quando Abdullah Öcalan è apparso in fotografia con la cosiddetta “delegazione di Imrali” -composta per lo più da deputati del partito filo-curdo dell’Unità e dell’uguaglianza (Dem), che da mesi fanno da mediatori informali tra il governo e il movimento curdo- Abdullah Demirbaş ha osservato l’accaduto da casa sua, in un Paese europeo che preferisce non nominare e dove ha ottenuto asilo politico nel 2019.
L’iniziativa di dialogo, lanciata nell’ottobre 2024 dal leader dell’ultranazionalista Mhp, alleato chiave del presidente Erdoğan, ha compiuto un ulteriore passo avanti a metà aprile, quando una delegazione dei Dem ha incontrato Recep Tayyip Erdoğan al palazzo presidenziale, con la Turchia ancora attraversata da un’ondata di proteste antigovernative, in risposta alle crescenti pressioni contro opposizione e società civile.
Da anni i sindaci curdi vengono rimossi e sostituiti da commissari nominati dal governo, proprio come sta accadendo da marzo al sindaco Ekrem Imamoglu e ad altri esponenti del principale partito di opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp).
Demirbaş, ex sindaco della municipalità curda di Sur, nella città di Diyarbakir, fu rimosso già nel 2007 per aver promosso l’uso del curdo negli affari pubblici e nei servizi municipali. Più tardi, è stato indagato e processato nel contesto del “processo Koma civaken kurdistane” (Kck), un maxi-procedimento giudiziario che ha coinvolto centinaia politici curdi, accademici, giornalisti e attivisti della società civile, accusati di far parte o di sostenere il Kck, che Ankara considera affiliato al Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk.
Demirbaş riflette sul nuovo ciclo di dialogo, sulle recenti proteste, e sulle speranze, ancora vive tra i curdi in esilio, di una pace che possa finalmente aprire la strada al ritorno a casa.
Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo che Imamoglu era stato arrestato, considerando la sua esperienza personale di rimozione dall’incarico?
AD Avendo vissuto personalmente questa esperienza da ex sindaco non potrò mai accettare una simile ingiustizia e la condanno con fermezza. Si tratta, a mio avviso, di un vero e proprio colpo di Stato politico contro la volontà democratica del popolo. Non esiste alcuna base legale che possa giustificare un simile provvedimento: è semplicemente una reazione del potere, che vede in questa persona un rivale e agisce per eliminarlo. Un atto del genere è la manifestazione concreta di un regime autoritario, dittatoriale e totalitario. Un sindaco eletto dal popolo può essere rimosso solo dal popolo stesso, attraverso libere elezioni. Un governo che ha fiducia in sé e nella propria legittimità, invece di ricorrere a misure repressive, dovrebbe accettare la sfida democratica delle urne.
Ci sono degli ovvi parallelismi tra quello che sta accadendo a Imamoglu e ciò che accade da anni ai politici curdi. Quali sono le principali differenze?
AD L’applicazione del commissariamento in Turchia è stata attuata per la prima volta nel Comune di Sur. Le pratiche attuate nelle elezioni nelle Regioni curde non sono molto diverse da quelle attuali nel senso che annullano la volontà eletta. In Turchia vediamo che la democrazia, la libertà, l’uguaglianza e la volontà del popolo non vengono rispettate. La differenza tra i Comuni governati dal Chp e quelli curdi è che nei Comuni curdi la logica di base è quella di negare la volontà, la lingua e l’identità curda nel contesto della sua “questione”. Da anni l’opposizione ignora le nostre richieste di democrazia e libertà, sia perché non ascolta i nostri discorsi sia perché ha paura ed esita, e per timore di essere associata ai curdi e accusata collaborare con i terroristi, ha addirittura sostenuto e approvato le pratiche del governo. Ad esempio, con la rimozione dell’immunità parlamentare -sostenuta anche dal Chp- hanno di fatto aperto la strada all’incarcerazione di numerosi rappresentanti curdi eletti. Lo hanno fatto pur ammettendo che si trattava di una misura contraria alla Costituzione ma, secondo loro, comunque accettabile. Così facendo hanno legittimato l’attacco alla volontà democratica del popolo curdo e contribuito a ostacolarla.
Crede che il partito Dem dovrebbe proseguire il dialogo con il governo, nonostante il clima politico attuale e gli ultimi sviluppi nel Paese?
AD La questione curda non è un problema che può essere risolto dai singoli partiti ma è una questione di Stato. Non è una questione dell’Akp, del Chp, del Mhp, dell’Hdp, è la lotta del popolo e della nazione per l’uguaglianza, la libertà, la democrazia e la pace. Pertanto, la soluzione può essere raggiunta solo attraverso l’intelligenza e il potere dello Stato. Questi eventi hanno dimostrato ancora una volta quanto siano importanti e preziosi la soluzione della questione curda e i negoziati. Se la Turchia avesse avuto una costituzione democratica, liberale ed egualitaria, questi sviluppi non si sarebbero verificati, perché non esiste nulla di simile in nessun Paese democratico al mondo. Credo che questi negoziati debbano proseguire. Naturalmente l’attuale crisi politica può avere effetti sia positivi sia negativi: se gestita con lucidità può addirittura accelerare il percorso verso una soluzione. Se l’opposizione sociale si rafforza, se la democrazia riesce a interiorizzare i valori della libertà e dell’uguaglianza, e se il fronte delle forze democratiche si amplia in risposta a queste recenti pratiche autoritarie, allora la mente dello Stato potrebbe essere spinta a trovare una soluzione il prima possibile. Al contrario, se questa crisi rimane irrisolta, la Turchia rischia di scivolare verso un regime dittatoriale, con il pericolo di massacri, genocidi o persino una guerra civile. Per questo motivo è fondamentale continuare il processo di dialogo e negoziazione.

In che modo l’attuale processo di negoziazione si distingue da quello avviato circa dieci anni fa?
AD A mio avviso questo processo ha tratto alcune lezioni dall’esperienza del 2013 e oggi si sta sviluppando con maggiore cautela, prudenza e passi più misurati. Entrambe le parti si muovono con diffidenza e adottano un approccio attento. Le richieste e le dichiarazioni del fronte curdo sono molto chiare, e sono già stati compiuti alcuni passi significativi in quella direzione. Tuttavia, ritengo che lo Stato non abbia ancora creato le condizioni necessarie per una reale cessazione della lotta armata o per permettere al Pkk di sciogliersi. Il Pkk ha dichiarato un cessate il fuoco e ha manifestato l’intenzione di convocare un congresso. Ma lo Stato, da parte sua, non ha ancora predisposto le condizioni affinché ciò possa avvenire. Uno degli aspetti più rilevanti di questa fase è il coinvolgimento diretto sia del signor Öcalan sia di importanti fazioni all’interno dello Stato. In particolare, è significativo che l’Mhp -la componente tradizionalmente più ostile- abbia giocato un ruolo nell’avvio del processo. Allo stesso tempo è importante che Öcalan stia cercando di includere tutte le componenti della società: le diverse anime del movimento curdo, la società civile democratica, e i partiti di opposizione sia dentro sia fuori dal Parlamento. In questo senso il processo attuale presenta delle differenze rispetto a quello precedente, ma si può dire che stiamo assistendo a un cammino caratterizzato da cautela e preoccupazione.
Se i negoziati dovessero concludersi positivamente tornerebbe in Turchia? A quali condizioni?
AD Se verranno create le condizioni adeguate, insieme a un terreno politico e legale democratico favorevole, considererei la possibilità di tornare in Turchia. Tuttavia, per arrivare a questo punto, sarebbero necessari passi legali molto concreti. Semplicemente dichiarare un’amnistia generale non basterebbe, perché se dopo l’amnistia non venissero garantite le condizioni per tornare a fare politica rischierei di nuovo la persecuzione.
Quale ruolo pensa possano o debbano svolgere gli attori internazionali nel rispondere a questi sviluppi?
AD A mio avviso una commissione parlamentare in Turchia potrebbe giocare un ruolo cruciale in questo processo, tracciando una roadmap chiara e compiendo passi sicuri verso la soluzione. Tuttavia, credo che la presenza di osservatori internazionali e di soggetti coinvolti sarebbe estremamente utile, affinché entrambe le parti possano compiere scelte più ponderate e appropriate. Ciò che è essenziale, però, è la creazione di meccanismi strutturati per la costruzione della pace. A tal fine, sarebbe fondamentale istituire una commissione in Parlamento e organizzare opportuni meccanismi preparatori. Perché, sebbene costruire la pace sia un compito arduo, è anche uno dei più nobili. Non dobbiamo considerarlo solo come una pace tra il Pkk e lo Stato, ma come un processo che coinvolge la pace tra gli individui, la società e le comunità.
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