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Le promesse di Enrico

L’accorato discorso del neopremier Letta, che ha voluto fin dall’apertura insistere sulla natura assolutamente eccezionale del momento, ha indicato una strategia di politica economica articolata su due piani. Il suo governo dovrà infatti affrontare le urgenze indifferibili e da risolvere in pochissimi mesi e, al contempo, avrà il compito di impostare un nuovo modello, da avviare nel medio termine, in grado di far ripartire il Paese.

Su questo secondo versante Letta ha ripreso molti spunti già formulati dall’esecutivo Monti, sia pur declinandoli nell’ottica del minor rigore, e li ha combinati con notazioni presenti nei programmi elettorali di Pd e Pdl; dalla semplificazione amministrativa, alle liberalizzazioni, agli incentivi fiscali all’innovazione, ai project bond e al fondo di garanzia per le Pmi fino al miglioramento dell’apprendistato, alla riforma degli ammortizzatori sociali, al superamento del divario culturale tra ceti sociali e aree del paese.

Non mancano neppure l’appello ad un nuovo rilancio del turismo, alla valorizzazione del patrimonio artistico e una vera e propria ode alla bellezza. In estrema sintesi, si tratta del miglior compendio di un insieme di idee maturate in più ambiti come risposta alla crisi; dargli una reale consistenza sarà una fatica difficile che avrà bisogno soprattutto di una vera condivisione politica da parte di una maggioranza parlamentare ad oggi molto fragile e tenuta insieme, appunto, dal fatto di essere di fronte all’ “ultima chiamata”, per citare le espressioni del premier.

Ma il vero nodo riguarda gli obiettivi di breve periodo perché le proposte-promesse di Enrico Letta paiono decisamente impegnative. Si comincia con il pagamento dei debiti delle Pubbliche Amministrazioni e si prosegue con la risoluzione del tema degli esodati e dei precari della PA, con la rinuncia all’aumento dell’Iva, con l’allentamento del Patto di Stabilità, con la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e con il congelamento del pagamento della rata Imu prevista a giugno, in attesa di un rapido alleggerimento del suo carico sulla prima casa. Al di là della complessità di attuare in un ristretto lasso di tempo simili misure così impegnative, la questione cruciale è quella delle coperture finanziarie dal momento che lo stesso Letta ha chiarito nel suo intervento di non voler far lievitare l’indebitamento e di mantenere salda la lealtà ai vincoli europei.

Porre in essere i provvedimenti urgenti sopra ricordati, a cui vanno aggiunte le spese indifferibili e non ancora finanziate, impone di trovare rapidamente dagli 8 agli 11 miliardi di euro, che certo non sembrano reperibili con un’ulteriore stretta della spending review: anche ammesso di mantenere fede al ciclo di tagli intrapreso da Monti, nel 2013 potranno arrivare dalla revisione della spesa non più di 3 miliardi e dunque il resto non è facile da trovare, se non affrontando il tema della delega fiscale, che non è però attuabile in tempi brevi, oppure facendo appello all’ennesimo intervento, ben poco edificante, sul fronte dei giochi e dei tabacchi.

Dunque il cammino del giovane esecutivo si presenta subito in salita a meno che non sia veramente perseguibile la “formula Saccomanni”. Il nuovo ministro dell’Economia, il romano Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia non troppo gradito a Giulio Tremonti, ha infatti sostenuto a più riprese che “in Italia per far migliorare le cose basterebbe una ricomposizione del bilancio pubblico in modo da orientarlo maggiormente alla crescita, indirizzando le risorse verso le imprese e verso le fasce di reddito più basse a fronte del contenimento della spesa corrente.
A queste condizioni – ha aggiunto Saccomanni – c’è anche margine nel rispetto dei vincoli europei per una riduzione della pressione fiscale”. In poche parole, senza modificare i saldi, ma “riscrivendo” il bilancio statale è possibile fare ciò che fino ad oggi non si è fatto. Che dire? Speriamo davvero che abbia ragione l’ex direttore generale perché l’impressione chiara è che soltanto così l’esecutivo Letta riuscirà a non dover imporre al paese ulteriori sacrifici destinati a travolgere anche l’ultima carta spesa a fatica dal presidente Napolitano. Resterebbe comunque la domanda, tutt’altro che banale, perché non lo abbiamo fatto prima.

*Università di Pisa

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