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Diritti / Opinioni

Le parole della nonviolenza per un’Europa diversa

L’insegnamento di Gandhi apre a un nuovo futuro. Parla di unione nell’amore, autogoverno, nonviolenza e cura della comunità. Sono parole liberanti e possono essere fonte di ispirazione per l’Unione europea, che continua, per ottusa avidità, a eludere la democrazia. Le “idee eretiche” di Roberto Mancini

Tratto da Altreconomia 237 — Maggio 2021
© Foto di Daniel Christiansz - Pixabay

Gandhi nel XXI secolo. È una presenza che oggi può ispirarci ad agire in modo nuovo e più fecondo. Noi europei siamo presi nelle convulsioni di una modernità che non sa uscire dal delirio di potenza neppure di fronte alla lezione della pandemia. E siamo invischiati nella politica di un’Unione europea che si ostina a eludere la democrazia. La pandemia ha dimostrato quanto l’umanità sia interdipendente, eppure si insiste nella rivalità tra nazioni e nel compiacere gli interessi delle case farmaceutiche.

L’Unione europea tradisce il lato migliore dell’Europa perché ripropone le lotte tra nazioni, la fascinazione per il mercato, l’ipocrisia e la disumanità nella politica verso i migranti, il neocolonialismo verso i popoli del Sud del mondo, la mortificazione di una vera cittadinanza europea. I rapporti di subalternità con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie mercenarie e dei lager per i migranti sono l’indicatore inequivocabile del fallimento di una Unione che parla di diritti umani e progresso e che invece è il vero ostacolo alla nascita di un’Europa realmente unita e democratica. In queste condizioni i singoli, i gruppi sociali e i popoli perdono il senso della speranza e della dignità comune, si lasciano spingere verso il disinteresse, la delusione, il sovranismo e il risentimento verso l’Europa come tale.

In un clima così avvilente la testimonianza di Gandhi ci apre con forza un orizzonte pieno di vita e di futuro. Per rendersene conto basta riprendere le parole chiave della sua storia e del suo pensiero. La prima che va ascoltata è satyagraha: indica l’adesione di una persona o anche di una comunità alla forza dell’amore. Per lui non si tratta tanto di un sentimento tra due persone, quanto della verità che genera e sostiene la vita di tutti. Bisogna essere proprio aridi per pensare che questo sia “buonismo” sentimentale. Chi non crede nell’amore come luce della vita, finisce per credere nella forza mortifera del potere, di quel potere che è una droga per chi lo detiene e una schiavitù per chi lo subisce. Invece chi non crede nel potere sa seguire l’amore che si traduce in fiducia, passione per il bene comune, solidarietà, creatività, cura delle relazioni, speranza, gioia condivisa, capacità di affrontare la sofferenza e il male.

La seconda parola che Gandhi ci consegna è swaraj, che significa indipendenza e autogoverno. È la libertà di chi non si fa complice del male né si sottomette alla logica del potere. Solo persone che hanno questo governo di se stesse possono essere co-soggetti di una società democratica. Il loro modo di vivere e di agire esprime allora l’ahimsa, la nonviolenza, che è il servizio alla giustizia verso chiunque, svolto rinunciando a ogni forma di distruttività. Si tratta di un cammino personale, ma non isolato. È nel contempo un cammino comunitario e sociale. Di qui l’importanza dello swadeshi che per Gandhi è la cura della comunità. Comunità che di volta in volta può essere locale, regionale, nazionale o mondiale, a seconda dei problemi che bisogna affrontare. In questa prospettiva l’economia è del tutto ripensata e risanata: i beni comuni (swadeshi goods) sono al centro dell’attenzione collettiva, mentre l’uso dei talenti di ognuno e il lavoro vengono vissuti non nella logica della proprietà privato, ma nello spirito della trusteeship.

La parola designa l’amministrazione fiduciaria: devo gestire ciò che ho e ciò che faccio per il bene mio e dei miei cari, ma sempre anche della comunità sociale, senza chiudermi nell’egoismo. Il fine dell’attività economica è il sarvodaya, un sobrio benessere integrale, sia materiale sia morale, riassumibile nell’idea di una vita semplice, non incatenata al consumismo, al produttivismo e al principio di prestazione. Quelle che Gandhi ci affida sono parole liberanti. I loro significati schiudono un futuro qualitativo al cui confronto la “crescita” e lo “sviluppo sostenibile” sono parole d’ordine tristi e oppressive. Possa l’Europa imparare da questa sapienza.

Roberto Mancini insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata; il suo libro più recente è “Filosofia della salvezza. Percorsi di liberazione dal sistema di autodistruzione” (EUM, 2019)

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