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Le nostre prigioni

Il consiglio dei ministri ha approvato uno schema di decreto legge per "risolvere" il "problema carceri". Che non dipende soltanto dal sovraffollamento. Una commissione in seno al ministero della Giustizia ha depositato da un mese una lunga serie di proposte e strategie. Eccone i contenuti

In tema di carceri, l’Italia è fuori legge. L’ha sanzionato la Corte europea di giustizia di Strasburgo e l’ha riscontrato, finalmente, anche il Governo. La prima, condannando il nostro Paese agli inizi del gennaio 2013 per avere violato l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il secondo, mettendo a punto un decreto legge approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 17 dicembre per corrispondere agli appelli del presidente della Repubblica, e cercare di evitare una pioggia di risarcimenti.
 
Dal giugno di quest’anno, in seno al ministero della Giustizia, è al lavoro la commissione di studio in tema di interventi in materia penitenziaria. Al suo presidente, il professor Mauro Palma (ex presidente dell’associazione Antigone, intervistato all’interno del nostro libro “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi”) è stato chiesto di reperire argomenti e strumenti per “risolvere” parte del “problema carceri”. Il 25 novembre 2013 la “sua” commissione ha predisposto il documento conclusivo, inviandolo ai propri interlocutori (ministro della Giustizia e governo). 
 
Eccone i contenuti e le principali indicazioni, perché il carcere italiano oggi non è soltanto sovraffollato (64.500 i detenuti), è privo dei più elementari requisiti di umanità e dignità: dalla stratificazione sociale che vi è costretta al regime di refezione, dagli orari dei colloqui alla qualità delle strutture, dalle misure alternative agli sfollamenti. Condizioni che hanno costretto i commissari a definire il modello di detenzione italiano come "caratterizzato da passività e segregazione".
 
Il punto di partenza del ragionamento -e delle proposte elaborate dai commissari guidati da Palma- consiste nel dare “piena e positiva attuazione alle nuove previsioni normative”, e cioè a quei provvedimenti già varati ma in attesa di un riscontro da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Secondo la commissione, infatti, quest’ultima avrebbe l’onere di agevolare -assumendo un “ruolo proponente” fin qui poco adottato- l’accesso alle misure alternative per chi è in carcere, consentendo alla magistratura di sorveglianza di valutare per tempo le istanze in materia. Inoltre, è sottolineata l’importanza strategica delle “convenzioni per lavori volontari di pubblica utilità a tempo definito” (manutenzione del territorio, ad esempio) la cui definizione spetterebbe ai Provveditorati dell’amministrazione penitenziaria. “Soltanto pochi -scrivono i commissari- si sono attivati in forme documentabili e soprattutto produttive”. 
 
Il secondo aspetto riguarda il “potenziamento dell’accesso alle misure alternative”, considerate “lo strumento giuridico esterno per la realizzazione del reinserimento del condannato e uno dei sistemi attraverso i quali si realizza il migliore effetto deflativo”. Il fatto è che tra amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza il dialogo è complicato e la conseguenza diretta di questi inciampi si traduce nell’attuale “lentezza delle istruttorie”. Capita, infatti, che la cartella di ciascun detenuto non risulti “ordinata” o non venga trasmessa per via telematica, incidendo così sulle “lunghe attese del compimento dell’istruttoria”. Secondo la commissione, poi, il “documento sull’attività di osservazione”, e cioè il documento chiave per l’istruttoria che possa poi condurre alle misure alternative, è redatto oggi perlopiù in maniera superficiale, come una “mera narrazione descrittiva del vissuto” e non come un quadro preciso “al fine della concessione delle misure”. Il problema ricorrente resta il tempo di valutazione di ogni richiesta, sul quale la commissione ha suggerito un limite (“massimo un mese”).
 
Anche il campo dell’affidamento terapeutico per dipendenze necessita di interventi strutturali. Su 8mila detenuti “definitivi” tossicodipendenti o alcool dipendenti, sono oggi solo 2.400 i soggetti in affidamento terapeutico. Un terzo dei “potenziali beneficiari”. Un sotto utilizzo verso il quale “intervenire urgentemente”, scrive la commissione, predisponendo tavoli stabili tra Regioni, Asl, magistratura sorvegliante e amministrazione penitenziaria. 
 
In materia di permessi per motivi di salute l’attuale prassi è del tutto priva di criteri oggettivi e omogenei. Occorre perciò “specificare tutti i casi in cui la patologia non possa essere curata dalla detenzione”, metabolizzando il fatto che “le malattie spesso non possono essere curate in carcere”, prosegue la commissione, coinvolgendo chi ancora non ha avuto grande ascolto o parola: l’Ordine dei medici.
 
Il terzo e fondamentale aspetto risponde al titolo “necessari interventi normativi”, che è centrale proprio per le iniziative governative in questi ultimi giorni. L’esempio più immediato è quello del ricorso alla custodia cautelare. Parlano i numeri: al 4 novembre 2013, i detenuti in custodia erano 24.744, a fronte dei 38.625 definitivi 1.195 internati. Degli oltre 24mila in custodia, 12.348 erano in attesa del primo grado di giudizio, 6.355 erano gli appellanti e 4.387 i ricorrenti. Oltre a suggerire, com’è ovvio, la “riduzione della custodia cautelare in carcere”, i commissari individuano in un “termine massimo di presenza negli Istituti circondariali delle grandi città” -dove peraltro si registrano il massimo affollamento e le peggiori condizioni detentive- un valido aiuto.
 
In materia di sostanze stupefacenti, poi, si incontra l’ostacolo più ingombrante: l’articolo 73 del Dpr 309/1990 (lo stesso contestato a Stefano Cucchi all’atto dell’arresto), riformato e inacidito dalla legge Fini-Giovanardi. I detenuti “ristretti” per la violazione di quell’articolo a novembre erano 24.326. Di questi, quelli senz’alcun altro reato contestato erano 19.119. Su questo, il Consiglio dei ministri ha seguito l’indicazione della commissione, visto che è stato reso autonomo il passato “comma 5” trasformandolo in reato a sé di “spaccio lieve” (per entità) che riguardava oltre 3mila detenuti. 

 
(dati Dipartimento amministrazione penitenziaria – Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato – sezione statistiche)
 

(dati Dipartimento amministrazione penitenziaria – ministero della Giustizia)

 
Dopo le sostanze, l’altro capitolo drammatico delle carceri italiane riguarda la categoria di chi è “straniero”. Al 17 ottobre 2013 gli stranieri erano 22.812, di cui 18mila non comunitari. Due le strade principali: abolizione dell’articolo 10-bis del Testo unico sull’immigrazione (“Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”), introdotto dal pacchetto sicurezza dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni, e facilitazione del percorso di allontanamento volontario del soggetto, riducendo il limite di pena “ai fini dell’espulsione”.
 
Un’altra proposta riguardava anche l’istituzione della figura del Garante nazionale dei detenuti, prevista dal Protocollo opzionale della Convenzione Onu contro la tortura ratificato dall’Italia il 3 maggio 2013 e introdotta (seppur in chiave più simbolica che pratica) dal decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri il 17 dicembre 2013.
 
Il quarto “avamposto” dell’operato della commissione ha riguardato la “ridefinizione della quotidianità carceraria realizzabili nel breve periodo”. Perché il problema non è soltanto il sovraffollamento, ma anche e soprattutto la vita trascorsa all’interno delle strutture. Per questo la commissione è tornata a suggerire l’implementazione del sistema di vigilanza dinamica, incrementando il movimento “autonomo” dei detenuti all’interno degli istituti, ed il progressivo abbandono del sistema di accompagnamento, potenziando inoltre (“da subito”) l’accesso in carcere degli operatori del trattamento.
 
Da rivedersi è poi anche il sistema delle “celle aperte”, secondo il parametro standard delle otto ore quotidiane. Anche in questo caso sono i numeri a restituire la gravità della situazione attuale: dei 53.524 “beneficiari” dell’apertura ampliata (che rappresentano però l’80% della popolazione complessiva, determinando quindi già l’esclusione di un quinto dei detenuti), sono solo 14mila coloro a cui è riconosciuta l’opzione (il 27,89%). Livello minimo che si spalma diversamente Regione per Regione. In Piemonte il tasso è del 56%, in Basilicata è zero. 
Chi non riuscisse ad aprire le celle, sostiene la commissione, dovrà fornirne una motivazione credibile, tenendo presente il principio fondamentale alla base delle Regole penitenziarie europee (Raccomandazione n. 2 del 2006 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa) secondo il quale “la mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione che violino i diritti umani”. 
 
Diritti che stanno alla base anche della relazione con il mondo esterno: i propri cari e il proprio avvocato in primo luogo. Esprime “disappunto” la commissione presieduta da Mauro Palma per la “mancata pianificazione delle strutture edilizie in relazione al fondamentale criterio della territorialità della pena” che comporta il fatto che molti detenuti si ritrovino ristretti “in luoghi lontani dalla propria famiglia, a detrimento di tali rapporti affettivi”. Tema sul quale è obbligatoria una “radicale revisione”, proseguono i commissari.
 
Perché già oggi gli spazi per i colloqui delle carceri italiane sono insufficienti. Non solo per il tempo esiguo mensile (sei ore) ma anche per l’organizzazione e arredo delle sale -inadatte per minori- e per i tempi biblici di attesa. Per gli istituti più grandi, dove il tempo di attesa sfora abitualmente i 120 minuti, è stata proposta una “prenotazione delle visite”. 
 
Il quinto ambito è ritagliato sulla “ridefinizione strutturale e/o manutenzione realizzabili nel breve periodo”. Interventi urgenti prevedono infatti la rimozione dei “banconi” che separano detenuti e familiari, della schermatura che limiti l’accesso della luce naturale, o la sistemazione del gabinetto nelle celle (che attualmente è direttamente visibile dall’esterno in almeno 138 istituti). 
 
Ma è nel campo del vitto -all’inizio della sesta parte- che la fotografia torna sconcertante. “La prassi operativa -scrive la commissione- prevede l’esternalizzazione del servizio di fornitura dei generi alimentari e la gestione diretta  per il confezionamento dei pasti”. È prevista la redazione dei capitolati in sede centrale e l’espletamento delle gare in sede regionale (con gara a ribasso). “Attualmente -prosegue la commissione- il servizio di fornitura all’amministrazione di generi alimentari per i pasti (vitto) e di  vendita ai detenuti di prodotti alimentari e non (sopravitto) vengono appaltati congiuntamente. In tutto il Paese sono 4 – 5 le imprese a cui viene aggiudicato, per quattro anni, l’appalto unificato. Le cosiddette “imprese  mantenimento” gestiscono, in tutti gli Istituti, tanto la fornitura del vitto che il  sopravvitto, nonché il servizio spesa. L’appalto è unico perché, dando la possibilità di comprare i generi del sopravvitto all’ingrosso e venderli al dettaglio l’impresa rientra nei costi per la fornitura del vitto ( considerata la base d’asta molto esigua, pari 3,90 euro al giorno, per detenuto, per tre pasti)”. Meno di quattro euro, per poi ritrovarsi con “molte lamentele” circa il controllo del rispetto del capitolato o la mancata rotazione, ad esempio, della frutta e verdura di stagione, e di conseguenza un sistema di distribuzione nelle stanze “contrario ai più elementari principi di igiene”. 
 
È necessaria inoltre una “generale riconsiderazione” dei criteri adottati per trasferimenti e sfollamenti, che rischiano ad oggi di “interrompere” i percorsi di reinserimento dei detenuti. Sugli sfollamenti l’esempio è riferito alle case circondariali delle maggiori città italiane (Napoli, Roma e Milano), “gravate da significativi flussi di ingresso […], sono oggetto di periodici interventi di cosiddetto sfollamento, poiché le presenze superano di molto la capienza regolamentare. Spesso, nel disporre gli sfollamenti è materialmente impossibile rispettare i criteri previsti dalla normativa e i detenuti vengono trasferiti anche a molti chilometri di distanza dalla residenza dei familiari”.

 

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