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Le latterie turnarie fanno rete per resistere all’industrializzazione

La lavorazione del formaggio nella latteria turnaria di Valmorel, una frazione del Comune di Limana in provincia di Belluno, fondata nel 1939. È una delle ultime latterie turnarie dell’intera provincia. © Valmorel

Nelle ultime “turnarie” rimaste tra Friuli, Trentino e Veneto i soci mettono insieme il latte e caseificano collettivamente. Una storia secolare che l’Ecomuseo delle acque di Gemona del Friuli e Slow Food provano a tutelare

Tratto da Altreconomia 224 — Marzo 2020

“Adesso non posso parlare. Stiamo raccogliendo il formaggio”. Sono le 8:30 di mattina nel caseificio turnario di Peio, a nord di Trento. Due ore prima, è arrivato il casaro. Due ore dopo, Ilaria lava le tele di lino che rivestono le fascere di legno. Solo poi, possiamo parlare: “La natura ha dei tempi da rispettare”, dice. Ilaria Dallagiovanna ha 45 anni e otto mucche,  lavora da 15 anni come aiuto casara e segretaria del caseificio di Peio. Qui il casaro -il diciannovenne Daniele Caserotti, insignito nel 2019 da Slow Food del premio “Resistenza casearia”- arriva presto per raccogliere il latte degli allevatori soci. È questo il segreto delle turnarie: ogni giorno i soci -sono quattro, a Peio- conferiscono il loro latte e lo mettono in comune per fare il formaggio che sarà di uno solo di loro.

“Abbiamo un quadernone, chiamato ‘decade’, dove viene segnato il peso del latte portato da ciascuno, mattina e sera”, spiega Ilaria. Quel latte raccolto in una giornata è trasformato per conto di un unico socio che -dopo la stagionatura- diventerà il proprietario del formaggio prodotto in quella giornata. “Noi consegniamo al contadino le forme già dopo tre mesi, poi sarà lui a decidere quanto stagionarle ancora”. Accanto al caseificio, infatti, Peio ha un piccolo spaccio dove si vende una parte del formaggio; il resto del prodotto è venduto dai soci direttamente nelle loro aziende.

“Abbiamo un quadernone dove viene segnato il peso del latte portato da ciascuno, mattina e sera. Consegniamo le forme al contadino dopo tre mesi” – Ilaria Dallagiovanna

È una storia secolare quella delle latterie turnarie che “ricalca e formalizza l’usanza antica di mettere insieme il latte di più famiglie e caseificare collettivamente, con lo stesso principio della panificazione in comune”, come ricorda Slow Food Italia che in questi mesi -da un’idea dell’Ecomuseo delle acque di Gemona del Friuli (Udine, ecomuseodelleacque.it), sostenuta da Lorenzo Berlendis di Slow Food- sta curando una “Carta dei principi delle latterie turnarie”. L’obiettivo: fare rete tra le poche turnarie sopravvissute all’industrializzazione verso la costruzione di una nuova Comunità Slow Food. Questa è una modalità di gestione del latte “semplice, economica e adatta alla produzione casearia di piccola scala, con numerosi allevatori sparsi nelle borgate” e diversa da quella delle latterie sociali, che acquistano il latte dai soci e rivendono il formaggio. Nelle turnarie, infatti, non c’è uno scambio in denaro ma solamente in prodotti.Un aspetto particolare che ha fatto avvicinare il regista Michele Trentini al mondo delle latterie turnarie per una nuova tappa del suo percorso documentario in cui ha raccontato “le diverse sfaccettature del latte, gli animali e il paesaggio alpino”, dice.

In “Latte nostro” (Cierre 2019, edizioni.cierrenet.it) Trentini ha voluto mostrare questa storia, che definisce “incredibile”: un sistema “basato sullo scambio, e non sul denaro, sopravvissuto fino ai giorni nostri” portandoci nei microcosmi dove i contadini “entrano con il loro latte ed escono con le forme di formaggio”. L’idea gli è venuta conoscendo Loreta Veneri dell’Ecomuseo della Val di Peio (ecomuseopeio.it) e del caseificio turnario di Peio, e Maurizio Tondolo dell’Ecomuseo delle acque del Gemonese, che sostiene l’esperienza della latteria turnaria di Campolessi (Udine, ne abbiamo scritto su Ae 218), una delle otto rimaste in Friuli. Erano 652 fino agli anni Sessanta. “Con loro ci siamo confrontati su come raccontare questi mondi e ho scoperto che oltre che in Friuli e Trentino sono rimaste alcune latterie turnarie anche in Veneto -racconta Trentini-. Così ho conosciuto il presidente di quella di Valmorel, nel bellunese. Avevo urgenza di raccontare queste storie prima della loro scomparsa”.

A Valmorel, una frazione del Comune di Limana, resiste una delle ultime latterie sorte nel XX secolo in provincia di Belluno: fu fondata nel 1939. Dalla fine dell’Ottocento le latterie turnarie si erano molto diffuse: “La più vecchia era quella di Canale d’Agordo, ma poi sono proliferate nell’intera provincia e negli anni Trenta ce n’erano oltre 400 in tutto il bellunese”, racconta Sergio Venturin, segretario della società cooperativa agricola di Valmorel, che gestisce la latteria. “Poi dagli anni Cinquanta, con l’abbandono delle campagne e l’industrializzazione, le turnarie sono sparite come tali e quelle rimaste si sono trasformate in latterie sociali”. La loro è l’ultima dell’intera provincia. “Siamo nelle Prealpi, a 800 metri sul mare. Ci ha salvato la distanza dal fondovalle e il coinvolgimento delle aziende agricole nell’intera filiera del formaggio”, continua Sergio.

Nella foto, un lavoratore nel caseificio turnario di Peio, l’ultimo del Trentino a essere organizzato secondo il sistema turnario. Qui il formaggio viene lavorato, seguendo procedure tradizionali, in caldaie di rame.
© Michele Trentini

Anche secondo Ilaria Dallagiovanna la posizione del caseificio -“da noi si chiamano così, non latterie”, sottolinea-, lontana dal fondovalle, è quel che li ha salvati. Peio è l’ultimo del Trentino organizzato con il sistema turnario ma “fino agli anni 70 ogni frazione aveva il suo”. Qui il formaggio è ancora lavorato tradizionalmente in caldaie di rame e il latte non è pastorizzato. “È di una qualità diversa, perché le mucche mangiano il fieno delle nostre valli. Per alimentarle, non abbiamo esigenza di comprare altra erba dalla pianura”, spiega. Il caseificio lavora tra otto e undici quintali di latte al giorno: diventano sei forme di formaggio, 50 “casoletti” e 10 chili di burro al giorno. Il casòlet, un piccolo formaggio a latte crudo intero, prodotto tradizionalmente tra la Val di Sole, di Rabbi e Peio, se stagionato tra i 20 e i 45 giorni è riconosciuto come presidio Slow Food. “Ma -come dice lei- si può stagionare anche per un anno ed è sempre buono”. Valmorel invece non ha ancora il presidio Slow Food, ma anche qui la lavorazione è fatta rigorosamente a latte crudo. “Il latte non viene pastorizzato, né refrigerato, ma solo raffreddato a una temperatura costante di 9-10°, con acqua corrente, per permettere l’affioramento della panna per fare il burro, una delle specialità del caseificio”, dice Sergio. Oggi sono cinque le aziende agricole a conduzione familiare che conferiscono nella turnaria di Valmorel: “Lavoriamo la stessa quantità di latte degli anni Sessanta -circa sei quintali al giorno-, quando i soci erano oltre 100. Allora ogni famiglia aveva un po’ di animali, ma portava solo pochi litri di latte in caseificio: il resto era per l’autosussistenza”.

“La resistenza delle turnarie ci fa riflettere sui valori che hanno sempre mantenuto e che potranno diffondersi ancora” – Michele Trentini

A Valmorel si producono 25 forme ogni due giorni, un formaggio che ha sempre “una leggera differenza”, pur essendo fatto secondo il metodo tradizionale. “Lo contraddistingue quella caratteristica unica e particolare che noi in dialetto chiamiamo cota (cotta, la produzione di quella giornata, ndr), che gli dà un sapore sempre originale”, dice. Questi formaggi speciali fatti con il latte messo in comune dovranno essere venduti dai singoli soci. “Ciascun contadino ha una responsabilità e cercherà di avere un prodotto di altissima qualità”, osserva Ilaria. Un valore riconosciuto anche nella Carta delle latterie turnarie: “Ogni allevatore è consapevole che una sua manchevolezza potrebbe ricadere sul prodotto di altri ma anche sul suo, a seconda della turnazione della lavorazione”, si legge. La qualità del latte e la vendita del prodotto diventano così un elemento fondativo della relazione tra i soci della latteria, oltre a rappresentare una forma di “autocontrollo all’origine” che è anche garanzia d’eccellenza per il consumatore.

Secondo Michele Trentini il fatto che questi spazi siano animati da giovani allevatori e casari, che si stiano mettendo in rete e che Slow Food Italia sia interessato a sostenerli “è un’altra cosa incredibile che sta succedendo attorno alle turnarie, e che dà sempre più valore alla biodiversità e alle eccellenze casearie di questi paesaggi storici”. Ciò non significa che ci sarà un’inversione di tendenza, secondo lui: “Non per questo le latterie sociali torneranno a essere turnarie, ma far conoscere questo modello virtuoso è un modo per contaminare il futuro delle latterie sociali. La resistenza delle turnarie ci fa riflettere sulle loro origini e sui valori che hanno sempre mantenuto e che potranno diffondersi ancora”.

Anche per questo è fondamentale riuscire a fare rete: insieme sarà più facile far “riscoprire il valore sociale che abbiamo per le nostre montagne spopolate”, come dice Ilaria, e anche “resistere alla globalizzazione del gusto e all’uniformità dei sapori”, osserva Sergio. D’altronde, lo stesso Palomar -il personaggio di Italo Calvino (1983) evocato anche all’inizio della Carta delle turnarie-, in coda in un negozio di formaggi, quando è il suo turno “ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo”. Le latterie turnarie coprono lo spazio di quell’incertezza, a favore della biodiversità e della stagionalità. Che dipendono da molti fattori, come spiega Sergio. “Può sembrare strano, ma il latte risente del temporale e dei fulmini. Si acidifica rispetto a quando non ci sono e assume un sapore diverso. I contadini lo sanno, come sanno che quello sarà un formaggio buono da invecchiare, che nel tempo acquisterà un sapore unico. Anche questa è per noi la stagionalità”.

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