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Ambiente / Approfondimento

Le impronte delle multinazionali fossili sul Green Deal europeo

Nei primi 100 giorni dal lancio dell’ambizioso programma europeo, i membri più importanti degli uffici comunitari si sarebbero incontrati 151 volte con rappresentati di interessi delle corporation. Secondo un nuovo report del Corporate Europe Observatory, i lobbisti spingono verso soluzioni, solo in apparenza alternative, che difendono lo status quo

È ancora forte il peso che le lobby dei combustibili fossili esercitano sulle politiche dell’Unione europea. Nei primi 100 giorni dal lancio dell’European Green Deal (EGD) -il piano presentato l’11 dicembre scorso con l’obiettivo di rendere l’Ue a “impatto climatico zero” nel 2050- solo i membri più importanti della Commissione incaricati dell’EGD si sarebbero incontrati ben 151 volte con rappresentanti degli interessi delle corporation. A denunciarlo, analizzando i dati contenuti nel registro pubblico della Commissione europea, è Corporate Europe Observatory (CEO), organizzazione non profit che si occupa di studiare le strategie con cui le aziende fanno pressione per influenzare le politiche comunitarie e che ha analizzato le contraddizioni e punti deboli dell’EGD.

Secondo il report “Green (or Grey) deal?”, pubblicato a inizio luglio da CEO, l’EGD non starebbe affrontando nei fatti punti fondamentali come la modifica delle regole del mercato unico, le responsabilità dell’Unione europea in un sistema globale iniquo o la riduzione della domanda di energia nell’Ue. E il peso delle lobby sarebbe ancora determinante. Soltanto in due mesi -tra il 23 marzo e il 26 maggio 2020- i più importanti funzionari della Commissione che si occupano delle politiche climatiche ed energetiche, stando al report, avrebbero registrato 25 riunioni di lobbisti di combustibili fossili. E FuelsEurope e IOGP (gruppo internazionale di distribuzione di petrolio e gas), ricorda CEO, hanno scritto diverse volte alla commissaria per l’Energia Kadri Simson sull’EGD già nel corso del suo primo mese di mandato. Sono esempi di come l’influenza delle lobby sulle istituzioni appaia al momento ancora difficilmente contenibile. Del resto nel rapporto “Big oil and gas buying influence in Bruxelles“, pubblicato a ottobre 2019, CEO aveva già puntato il dito sull’attitudine dei “grandi inquinatori” a sborsare centinaia di milioni per varie attività -che vanno dall’assunzione personale ad hoc all’accesso privilegiato ai responsabili delle politiche- per poter mettere in atto strategie di pressione efficaci sull’Ue.

Con pesanti ricadute, evidentemente. Basti pensare al sostegno Ue al gas cosiddetto “decarbonizzato”, anche in termini finanziari: almeno il 35% del budget di Horizon Europe, secondo quanto affermato dal Green Deal, dovrebbe andare a sostegno di  forme di “idrogeno pulito”. Eppure, l’unica strategia possibile per contrastare in maniera realmente efficace il cambiamento climatico e ridurre l’inquinamento sarebbe viceversa la rinuncia completa all’uso di combustibili fossili. Ma i lobbisti che fanno gli interessi di grandi aziende e multinazionali, a parere di CEO, spingono con strategie di “depistaggio” verso soluzioni apparentemente alternative ma che in realtà, inefficaci, finiscono per funzionare da “copertura” per la difesa dello status quo.

Si prenda ad esempio il meccanismo dell’Emission trading system (ETS), cioè il sistema di scambio di quote di emissioni dell’Ue che mette un tetto legale alle emissioni di biossido di carbonio e di altri gas a effetto serra: fin dalla sua data di lancio nel 2005, sottolinea CEO, non ha portato a una riduzione delle emissioni e si è dimostrato a sua volta permeabile alle lobby di settore. La politica climatica Ue focalizzata sullo scambio di quote di emissione non avrebbe fatto così che rallentare la spinta verso le energie rinnovabili.

E l’ETS, monitorato annualmente nel report redatto da “European Roundtable on Climate Change and Sustainable Transition” (ERCST), resta sotto osservazione rispetto ai traguardi fissati dall’EGD. Ci sono poi strategie sbandierate dalle grandi aziende come “sicure” per contrastare i cambiamenti climatici che mostrano più di un limite, soprattutto nell’ottica di un ecosistema visto nel suo insieme: è il caso, fa l’esempio CEO, della “rimozione” del carbonio, tramite la sua cattura e stoccaggio nel sottosuolo (grazie alla tecnologia CCS – Carbon Capture and Storage),  tecnica che permette di depositarlo sottoterra o sott’acqua, ancora però dalla non comprovata sicurezza  e dai costi certamente superiori rispetto alla semplice transizione alle rinnovabili. Oppure quello della riforestazione, salutata positivamente per esempio da una compagnia come Eni. Promettere di riforestare alcune zone dell’Africa, come ha fatto Eni, è la riflessione di CEO, non solo non si tradurrà nei fatti in una cessazione di produzione di gas e petrolio, ma si concretizzerà anche nell’occupazione di 8,1 milioni di ettari africani per le piantagioni industriali, con i conseguenti impatti su popolazioni ed ecosistemi interessati.

Anche Shell e Total non pensano ad abbandonare gas e petrolio: per la prima è previsto un aumento della produzione di petrolio e gas del 38% (per la produzione di petrolio greggio, un aumento di più della metà e per il gas di più di un quarto) entro il 2030. Mentre nei piani futuri della seconda, secondo quanto dichiarato dal suo amministratore delegato, entro il 2040 ci sarà un 50% di attività focalizzato sul gas, 30% su petrolio e biocarburanti, e 20% su elettricità.

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